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Pillole di cultura: Cultura

a cura del prof. Luigi Casale

(Pillole di cultura: Dettata da un’emozione profonda (e dal desiderio di commemorare la figura del preside Carosella, amico e maestro), nasce oggi l’analisi semantica della parola cultura, proposta dal prof. Casale).

Come sanno i lettori amici del liberoricercatore, questa modesta rubrica “le pillole” è classificata sotto la voce “cultura”.
E’ giusto pertanto dedicare anche a questa parola, così importante, l’attenzione che merita. Perciò oggi la mia (e vostra) ricerca riguarderà il lemma “c u l t u r a“.
Avremmo dovuto farlo già da tempo. Ma, ora, fatto il necessario mea-culpa, senza pretesa di averne una giustificazione, vi provvedo a tambur battente.

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Lemma si chiama ogni voce del vocabolario, considerata come elemento unitario del lessico (insieme dei lemmi) . E significa “cosa detta (o pensata)”; quindi, parola.
La parola “lemma” etimologicamente deriva dalla radice greca: leg/log , da cui derivano anche il verbo “légō” (dico) e il sostantivo “lógos” (discorso, pensiero, parola) tante volte richiamati in queste pagine; e tante altre parole italiane, come lettura, leggenda, logica; nonché i suffissi “-logìa” e “-logo”.
Il tipo di struttura linguistica della parola lemma [leg + mat = lemma] indica generalmente una cosa concreta, una “sostanza”, che prende significato dall’azione indicata dal verbo. Quindi: lego = dico; lemma = cosa detta. Di queste parole ce ne sono tante nella lingua italiana – e in tutte le lingue europee – e sono quelle che terminano con la sillaba “ma” [da: –mat], come lemma, appunto; e sono tutte maschili, in quanto le originarie parole greche così formate sono di genere neutro. Vedi: dilemma, teorema, problema, idioma, tema, ecc. patema o politeama. E anche lemma. Ma ce ne sono ancora tantissime.

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Oggi, però, parliamo di “cultura”. Forse ne ho accennato a proposito di “colono”. Parola, insieme a “cultura” e a “culto”, etimologicamente collegata al verbo latino “colo” (= coltivare/abitare/venerare).
Ad ogni modo se la “cultura” è dei dotti, come generalmente si ritiene, e “colono” è, invece, il contadino (o l‘abitante della colonia, il colonizzatore), come ognuno bel sa; “culto” è un servizio verso la divinità, un atteggiamento collettivo proprio dell’uomo religioso. Questo collegamento semantico delle tre parole, riconducibili alla medesima radice, alla fine di questa nostra disquisizione dovrebbe aiutarci ad evitare i diversi pregiudizi sociologici dovuti – per la parte che ci interessa – alla scarsa competenza della lingua (quanto a trasparenza).
Vuoi vedere che proprio questo si vuole significare – cioè il superamento della visione di una società tripartita, fatta di dotti (aristocrazia), clero e contadini – quando si dice: “Contadino, scarpe grosse e cervello fino”? Cosa che tuttavia non sempre va a genio alle altre due categorie: i dotti e il clero che vorrebbero distinguersi dai coltivatori: i cafoni.
Nello stesso tempo, però, la nostra riflessione ci fa capire anche un altro dato di fatto: cioè che all’albore delle civiltà la classe sacerdotale, con l’anelito di penetrare il muro del mistero, si fa depositaria delle conoscenze acquisite che poi essa stessa custodisce attraverso un sistema di segni grafici, creando la scrittura.
Quindi “colo”, verbo latino, originariamente significa “coltivare” (e quindi abitare un luogo). O che sia la terra l’oggetto del colo, o – per metafora – la casa, o la regione geografica; o che sia la persona stessa, la famiglia, il gruppo sociale, il “colere”, il “coltivare”, rappresenta sempre una tipologia di attività, pratica o ideale, indispensabile alla vita umana, che in base all’oggetto può essere: l’agricoltura (che come conoscenza e abilità tecnologica rappresenta e comprende tutta la cultura materiale), il gusto del bello (estetica) o il senso del giusto (morale); o, nella forma più alta, la riflessione sulla condizione umana e la conseguente opzione esistenziale (filosofia e religione). Solo questa costante attività del “coltivare e coltivarsi” procura la autodeterminazione razionale, cioè la libertà.
Questa – a parer mio – è la vera comprensione della parola “cultura”.

Pillole di cultura: Uósemo

a cura del prof. Luigi Casale

a parola “uósemo”, usata nel meridione d’Italia, a Napoli significa “fiuto del cane”. Essa come tantissime altre parole è un relitto della lingua greca, che più a lungo si è parlata nell’Italia bizantina. Ed è originata dalla forma “osmé” o “osmòs” (odore), parole collegate al verbo “osmao” (odoro, fiuto). A loro volta, rispettivamente, da “odmè” (odore) e “ozo” (mando odore, esalo), corrispondenti ai vocaboli latini: “odor” (sostantivo: “odore”) e “oleo” (verbo: it. “olezzo”).

L.C.

P.S. (post scriptum = dopo aver scritto)
Chiedo scusa ai cultori della lingua greca e agli appassionati della sua grafia se ho scritto gli etimi greci con grafia latina. E’ colpa della mia modesta attrezzatura informatica e delle mie limitate capacità a reperire tabelle.
Ciò ha comportato qualche inesattezza, quanto agli accenti grafici e alla lunghezza delle sillabe (cose che non influiscono sulla comprensione del messaggio nella sua essenzialità). Agli esperti non mancheranno gli elementi per la ricostruzione graficamente ineccepibile della corretta lettura.

Pillole di cultura: affatto

a cura del prof. Luigi Casale

Oggi esordisco con una poesia.

SONETTO DI PARADISO

         Mi viene in sogno una bianca casetta,
         sull’erto colle, dentro un’aria affatto
         tranquilla; e il verde del colle è compatto
         e solitario, e l’ora è benedetta.

         Mi viene in sogno una dolce capretta,
 5     che mi sta presso, e mi sogguarda in atto
        placido umano, quasi un muto patto
        ne legasse. Poi pasce ancor l’erbetta.

        Volge il sole al tramonto; un luccichio
        cava dai vetri, un dorato splendore,
10    della casetta su in alto romita.

        E tutto il dolce che c’è nella vita
        in quel sol punto, in quel solo fulgore
        s’era congiunto, in quell’ultimo addio.

Da “Cuor morituro (1925-1930)” di Umberto Saba (1883 – 1957)

Le notizie essenziali sull’autore e sulla sua pubblicazione li trovate nell’annotazione bio-bibliografica, il resto se vi interessa su Wikipedia. Ma è meglio fare un giro in Biblioteca.
La poesia, per le sue caratteristiche formali, estetiche, e compositive meriterebbe un lungo discorso. Ma non è mia intenzione commentarla qui. Almeno non oggi. Solo chiedo che ognuno la rilegga, per poter continuare a parlarne.
Intanto noto – e faccio notare – che la prima lettura, quella referenziale (cioè la comprensione del testo come semplice atto comunicativo, vale a dire: capire ciò di cui si sta parlando) sembrerebbe alquanto facile. Le parole usate sono tutte parole del lessico quotidiano; e anche il registro, a parte l’effetto ritmico, mi pare un registro familiare.
Personalmente, rispetto al mio lessico particolare, di poco usato trovo solo le parole “erto” e “romita”, e … , forse, l’espressione “ne legasse” . Altro non riesco a trovare da poterlo ritenere in qualche modo motivo di difficoltà ai fini della comprensione del piano referenziale (come ho detto). Certamente un altro lettore (con lessico personale e sintassi differenti) troverebbe altre parole, ed altre espressioni, estranee al suo modo di parlare. Ma tutto sommato – suppongo – non dovrebbero essercene più di due o tre, come per me, anche se differenti. Insomma non più di quante ne ho incontrate io.
Ma allora perché propongo questa lettura?
Ecco. Per parlare dell’avverbio “affatto”, argomento di questo mio articolo. Parola che troviamo nel secondo verso della poesia.

Fatta questa premessa, posso iniziare la prevista lezione di semantica.
Molte parole sono generate da locuzioni o espressioni, come “marcia-a-piedi”, “arco-baleno”, “va-te-la-pesca”, oppure “a-fatto”, “di-fatti”, “in-fatti”, o anche “a-punto”, “per-ciò”, (e in napoletano: “va’-trova”, “può-essere” o “può-darsi”) le cui componenti poi, una volta agglutinatesi (legatesi l’una all’altra), hanno finito anche con l’essere scritte come unica parola. Ed è proprio ciò che è capitato ad “affatto”.
(Ricordo di passaggio che tutti gli avverbi italiani formati con la terminazione (suffisso) “-mente” hanno la stessa origine in questo tipo di agglutinazione; e la parola “mente”, all’origine, quand’era separata dall’aggettivo, cioè prima di trasformarsi in suffisso, era un sostantivo).

Ora le parole elaborate a partire dalla parola “fatto” significano fondamentalmente “in maniera evidente” cioè: “stando ai fatti”, e valgono “assolutamente”, “completamente”, “del tutto” (quindi valore affermativo); le seconde, composte con “punto” o “mica” significano “per quanto poco” o “per quanto piccolo”. Per cui entrambi i tipi di espressioni se vengono usati al negativo, vanno a significare nel primo caso “per niente” nel secondo “neppure un poco”. Ma devono essere accompagnate da un elemento negativo chiaramente lessicalizzato.
E qui potrei fermarmi. Ma allora, la poesia?
Ci arrivo.
Qualche anno fa in una classe liceale di fronte all’interpretazione di questo testo poetico della prima metà del secolo scorso, la totalità degli alunni (una trentina) sostennero che “affatto” avesse valore di negazione, per cui “affatto tranquilla” per essi valeva “per niente tranquilla”; né si accorgevano che con questa interpretazione il seguito della descrizione non era comprensibile, in quanto veniva stravolto tutto il senso della poesia.
Questo per la cronaca. Ognuno poi, in privato, potrà fare la sua prova di verifica.
Mentre io continuo la discussione.
A parte l’evidente errore di lettura, i poveri ragazzi non avevano tutti i torti. La loro lingua era ancora opaca. Essi usavano segni linguistici secondo la convenzione (sociale) dei loro modelli linguistici di riferimento. E oggi la convenzione è – sembrerebbe essere – che “affatto” sia una negazione. Lo avvalora la televisione, lo confermano i cronisti radiotelevisivi, qualche giornalista, e addirittura qualche scrittore e qualche professore. E, ormai, già anche qualche dizionario.
Questo mio intervento, perciò, non pretende di modificare la convenzione, cioè il modo d’uso corrente oggi, ma vuole (vorrebbe) che ognuno – in particolare i miei amici di scuola media ai quali mi rivolgo – si ponga di fronte al problema in maniera critica. Ecco la lingua trasparente! Che, per quanto riguarda questo caso, almeno ci consente di leggere, e comprendere, un testo di appena ottanta anni fa.
Tutto questo ci fa capire un’altra cosa, importantissima per la comprensione del concetto di evoluzione linguistica. Cioè che, attraverso l’uso che se ne fa, le parole vanno soggette a trasformarsi, e se non sempre si trasformano sul piano fonetico o morfo-sintattico, spesso possono farlo su quello semantico (del significato). Cioè cambiano il loro significato. Fino a rovesciarlo completamente, talvolta. Com’è il caso di “affatto”. Che in questo momento storico si trova proprio nella sua fase di incertezza. (C’è chi lo usa in un modo e chi nell’altro).
L’appuntamento è a tra una cinquantina d’anni per sapere quale sarà stato il suo esito.

Pillole di cultura: ‘a ciòrta

a cura del prof. Luigi Casale

“’A sciorte” oppure “’a ciòrta”, con diversa fonetica a seconda delle aree di produzione, è la sorte. Ma anche la scelta, o – ancora – l’assortimento, oppure la fortuna.
A Napoli, invece, per antonomasia è la pasta, intesa come tipo o taglio.
Con connotazione positiva, poi, la parola indica anche la buona sorte, cioè quella che gli antichi Romani chiamavano fortuna secunda o fortuna prospera.
Noi familiarmente e in maniera scherzosa e un po’ volgare, diciamo “’o mazzo”.
Infatti, “tèn’a ciòrte” chi consegue un premio o un risultato in maniera inaspettata. ‘Nce vo’ ‘na bella sciorte!
Anche nella lingua italiana, la parola corrispondente (sorte) assume gli stessi significati.
L’origine delle due parole: sorte e ciòrta è il vocabolo latino sors (sorte) dal verbo sero (intrecciare), ricalcata a sua volta sul più antico: “fors” (caso) che è collegato al verbo “fero” (portare) nel senso di “comportare”. Fors indica perciò la manifestazione della sorte, come dimostra la parola latina fortuna. E Fortuna, oltre ad essere la dea, è anche – sia in latino che nelle lingue romanze – la ricchezza [vedi il particolare uso che se ne fa anche nella lingua italiana].
Ma – come ho detto – “’a ciòrte” è anche il tipo di maccheroni.
“Né! Ma che ciòrte vuó?” chiede la cuoca al marito, dovendo buttare la pasta. Sicché ‘a ciòrte è proprio il tipo di pasta.
Una volta se ne contavano più di 100 tipi. Oggi, nei supermercati se ne vedono a stento una decina.
Ci salviamo noi, fortunati (“Che bella ciòrte!”) ad avere il pastificio a due passi da casa. E possiamo scegliere il tipo adatto per ogni piatto, e per ogni condimento.
Ma poi questa fortuna la sappiamo apprezzare?
Postilla inviata dall’autore (in vista dei Referendum):
Fortuna, è quindi la sorte; cioè, fondamentalmente, il caso. Per cui essa non implica necessariamente, come succede a noi parlanti moderni, un qualcosa di favorevole, di positivo. Per lo stesso motivo i Romani dicevano “fortuna secunda” o “fortuna adversa” per distinguere la fortuna buona da quella cattiva.
“Secunda” significa, infatti “che segue, seguente”; cioè che ci viene da dietro, e quindi ci spinge in avanti. Pensate al verbo “assecondare” (= guidare il movimento spingendo da dietro). Mentre “adversa” è contraria: cioè (da “ad + versus”) che ci viene incontro girata verso di noi, perciò si oppone al nostro movimento. Ci frena, se non – addirittura – ci respinge. Buona giornata a tutti. E buona fortuna! E mi raccomando: “Tutti a votare domenica!”. Se ci stanno a cuore la nostra sorte e – insieme – la nostra fortuna. Che sia “secunda”!

Cultura stabiese

La rubrica ospita la “Saggezza” e un po’ di “Cultura” locale.

Cultura stabiese

Cultura stabiese

Scritti disponibili:

1993-2015: Castellammare oggi come allora

‘A Criazione

Ai Referendum, Votiamo tutti, e votiamo SI!

‘a Panarella

Apis more modoque

A proposito di Arenile…

Calannario stabiese

Castellamare

Castellammare – Bruxelles in 500

Castellammare come Dubai!

Castellammare di Stabia pubblicità turistica

Catello il nome stabiese DOC

C’era una volta… l’arenile

Ciro Denza (le stampe)

Copertina di Satira Stabiese

Coroncina a San Catello

Crassa ignorantia

Dizionario delle Immondizie

E Dio creò Castellammare

Faito nel celebre film “Lazzarella”

Francobollo stabiese

Happy Birthday Mister Terremoto

Il Cantiere di Castellammare, nelle opere di Ducros

Il festival della Canzone Napoletana

Il San Catello di Viviani

La cassarmonica in un paese civile

L’acqua la paghiamo noi!

La cura (lettera aperta alla città)

L’Anello di San Catello

L’arte di arrangiarsi

La storia di ASAP alias Stabiese

Le antiche Ville di Stabiae

Le fonti di Plinio (mostra illustrata)

Lettera ad Antonio La Trippa (politico stabiese)

Lettera postuma a Giuseppe Garibaldi

L’EXPO di Milano vista da uno stabiese

L’Ippocampo ritrovato

Messaggio di Natale (anno 2011)

Miracoli stabiesi

Napoli e i suoi (Castellammare di Stabia nel 1947)

Omaggio ai portatori di San Catello

Paradosso stabiano

Pillole di Cultura

‘O Presebbio

Posizione geografica

Post fata Resurgo

Puliamo il Mondo

Quante volte?

Quell’obbrobrio canoro…

Questionario stabiese

Ridateci il cantiere, perché…

Salviamo “Fontana del Re”

Salviamo “Le Fontane del Re”

Spigolature stabiesi

Tragicomicità stabiese

Undici novembre 2011 (11 – 11 – 11)

Uomini e bestie

Viviani: Il fatto di cronaca che ispirò Padroni di Barche

Votiamo tutti si!