Napoli e i suoi

Napoli e i suoi

di Giuseppe Zingone

Napoli la città più bella e misteriosa al mondo, è inutile cercare, sotto il Vesuvio trovi tutto ciò di cui hai bisogno, un capoluogo unico, impareggiabile, irriproducibile da mano d’uomo. Solo qui i tasselli sono tutti perfettamente ordinati e disseminati simultaneamente, un progetto ultimato ed incompleto, stravagante e razionale del buon Dio.
Queste affermazioni per molti versi campanilistiche, non sono dimentiche dei drammi che in essa continuamente si consumano, vivono e ahimè vivranno anche dopo di noi. Sono urla che continuamente ascendono al cielo senza trovare soluzione immediata ma che sono indissolubilmente legate a tutto ciò di buono e di bello in questa città viene prodotto. Il male e il bene qui si aggrovigliano, come il serpente al ramo lasciandoci sconvolti, il volto tra le mani ed in esso una lacrima ed un sogghigno si confondono. Ma riusciremmo a pensare noi stessi e questa città in maniera diversa in un posto qualsiasi del mondo?

Via Mazzini, La nostra piccola via Toledo

Via Mazzini, La nostra piccola via Toledo

Chiedo al lettore di questo sito: Sono più romano o napoletano? Quale è la mia prima lingua pensata? Quella in cui mi sforzo di parlare o quel dialetto che fuoriesce violento e impetuoso come un Vesuvio in eruzione? Le battute ironiche, sarcastiche, sono più efficaci in milanese, in veneziano o sacrileghe e sante “dint’a lengua nosta?”
Insomma io sono io… e non solo perché riesco a pensare, ma perché ho tutta una serie impazzita di geni ereditati da innumerevoli razze, a volte anche violenti, che si divertono a rincorrersi nel mio corpo, una maratona senza fine che si svolge in questo caduco involucro animato, dove non manca nessuno; è una tragedia ed una commedia insieme, un basso napoletano dove tutti, cromosomicamente parlando, sono costretti a convivere perché non saprebbero dove allogare altrimenti; gli attori principali sono tutti quelli che hanno assoggettato le nostre latitudini, vincitori e vinti. Speriamo solo di metterci tutti d’accordo prima o poi, per non dare a chi ci guarda di sbieco, l’impressione di non essere partenopei.
Morendo spero di dover dire come altri prima di me: “Purtateme a vedè sta Terra Mia!” e spirare come se si stesse firmando tutt’insieme vivi e morti, un armistizio o come se si fosse a pranzo in un’antica trattoria sul mare con un piatto di spaghetti ai frutti di mare e gli occhi avvolti dalla luce del sole riflessa dalle onde.
Ma prima di ciò vi presento una pagina sulla nostra Città del 1947, firmata dal giornalista e critico cinematografico Giuseppe Marotta, napoletano, grande scrittore forse troppo dimenticato, il quale diventa ogni giorno di più il mio precettore. Leggendo i suoi libri ti perdi e ti ritrovi, ridi e piangi, ti addormenti felice e ti svegli sempre a Napoli. Il pedagogo che mi ha condotto per mano alla scuola di tanta arte è un uomo che non ama essere citato (ma ch’io amo!) tutti gli appassionati del liberoricercatore lo conoscono e apprezzano, Buona Lettura e che buon pro ci faccia… 

Sono pusillanime, non reggo alla vista dei soffe­renti, uscendo dall’Ospedale dei Pellegrini mi dicevo: “Domani vado a dare un’occhiata ai paesi della riviera”, e così feci. La mia prima tappa fu Castellammare di Stabia, l’antica cittadina di cui su­bito si pensa: qui i vecchi industriali e commercianti milanesi dovrebbero venire a trascorrere i loro ul­timi anni, s’intende dopo aver lasciato le loro aziende in mani sicure, e salvo a telefonare ogni sera istru­zioni e rimbrotti. Castellammare è una celebre stazio­ne climatica, balneare e termale; irta di ciminiere pe­rò, disseminata di officine e di fabbriche, piena di bu­ste paga, sorvolata da estrose nuvolette che potrebbero benissimo simulare, per i canuti uomini di cifre riversi nelle amache, i più lusinghieri diagrammi. Castellammare è insomma Chianciano, Rapallo e Monza in una sola nitida e leggiadra cittadina; ha un lido carezzevole e mansueto, ha una mitissima tem­peratura, ha le terme, ha non so quanti biscottifici e pastifici che le consentono di allestire vetrine di nivei spaghetti, ha nella piazza Municipio una bella targa che vi fa sospirare di nostalgia perché dice: “Al marchese De Turris, donatore del pingue pa­trimonio di L. 200 mila a questo Spedale di San Leonardo”.
Ah marchese, come ci lasciano freddi oggi le vostre duecentomila lire che non basterebbero a rimettere in piedi un solo uomo, anzi non risane­rebbero neppure uno dei tanti alberi secchi di questo bel Giardino Pubblico davanti al mare, poveri alberi uccisi dalle infiltrazioni di benzina dei carri armati che vi sostarono durante la guerra.
Le truppe alleate che presidiarono Castellammare di Stabia furono in massima parte inglesi e non hanno lasciato buon ricordo; assunsero un contegno altezzoso e sprezzante che non poteva piacere agli stabiesi. Questa è gente arguta e fiera, con molti fatti e persone insigni nel suo passato; e di ciò va sempre tenuto conto quando si viaggia, sia pure come vinci­tori di guerre.

Castellammare di Stabia ha, fra piazza Umberto e piazza Municipio, la sua piccola Toledo. Bei negozi di eleganze e di squisitezze (queste ultime in proporzioni normali, non come a Gragnano, dove si vedono dondolarsi nelle mostre caciocavalli vittorughiani, alti come uomini, biondi e massicci, ai quali deve essere terribile avvicinarsi col coltello in mano); ma sovrattutto la folla densa e ridente di Toledo, che pare si rechi sempre a una festa. Al Cantiere Navale, mentre lo visitavo, attaccai discorso con qualche operaio nell’atrio. I Tedeschi, prima di andarsene, eseguirono anche qui il solito arpeggio di mine; ma, in pochi mesi, poi, gli operai stabiesi ricostruirono tutto. L’affetto che li lega al Cantiere può essere meglio valutato se mentre essi dicono: “Scrivete che il lavoro è insufficiente, ci occorrono materie prime” il visitatore legge, nelle apposite lapidi, gli elenchi delle navi costruite dagli avi di questa gente che gli parla: capolista è la corvetta Stabia varata nel 1786; regnavano i Borboni, allora, così amici dell’Inghilterra, e comunque la materia prima era il legno.
Lo Stabilimento termale sorge proprio dirimpetto al Cantiere. Castellammare è così stretta fra la montagna e il mare che utilizza il suo spazio come meglio può. Dallo Stabilimento termale si diffondeva una remota freschezza di selva, di grotta e di creta. Sono luoghi, questi, in cui anche l’uomo meno disposto a riconoscersi nella terra sente trasalire la sua sostanza, capta nel tanfo delle acque, venute da chi sa quali profondità, antichissime e vaghe notizie di se stesso. Bene, io non mi aspetto di conoscere niente di buono sul mio conto e perciò l’odore soverchiante dello zolfo mi fece torcere il naso; ma queste acque di Castellammare di Stabia sono vere? Non si tratta di uno scherzo? ci si può credere? Qui in questo angusto recinto, una accanto all’altra come tasti di pianoforte scaturiscono ventotto, diconsi ventotto, acque minerali l’una diversa dall’altra? Ero scettico e volli verificare, contare e perfino assaggiare. Inutile, erano ventotto fonti; una singolare raccolta, una rara collezione di sorgenti che il Dio degli abissi e delle vette mostra qualche volta ai suoi ospiti, forse pavoneggiandosene e intenerendosene un poco; ero giovane e contento, dice, quando mettevo insieme queste cose. L’elenco delle infermità che le acque di Castellammare possono curare s’allunga ogni volta che viene scoperta una malattia nuova. Dovetti sorridere all’idea di individui che trasportati in barella nello Stabilimento scorressero l’elenco delle acque e finissero per dire mestamente: “Riportatemi a casa, ho soltanto un terzo delle malattie che occorrono a queste fonti, ripasserò”.

Acqua Acidula

Acqua Acidula

Estratto da: Giuseppe Marotta, San Gennaro non dice mai no, Garzanti editore.

 

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