Le bottiglie di pomodoro
(tra le conserve per l’inverno)
a cura del dott. Tullio Pesola
Ci sono delle immagini del passato che, quando per un qualsiasi motivo si fanno spazio nella nostra mente, ci regalano un indescrivibile stato di benessere, anche se si limitano a rimanere modeste tessere di qualche ricordo piuttosto stinto dagli anni. È sufficiente, talvolta, uno sguardo fugace, distratto, lanciato a qualche negozio, l’attenzione rapita da una vecchia cartolina, il passaggio insolito per qualche stradina, il soffermarsi sul nostro incantevole lungomare conquistati dal fascino unico dei tramonti stabiesi, perché si richiamino alla mente momenti particolari, determinate sensazioni, situazioni e quant’altro sia appartenuto ad altre consuetudini, altra cultura, altra epoca. Non è raro, ad esempio, che, passando per il reparto ortofrutticolo di qualche supermercato, mi succeda inevitabilmente che lo sguardo venga attratto dall’esposizione in bella vista di ortaggi fuori stagione. Per me una tale visione assume (per dirla in maniera abnorme) le sembianze di un sacrilegio e diventa, oserei dire, una conseguenza logica considerare con amarezza che va gradualmente perdendosi sempre più il piacere dell’attesa. Proprio così! Anni addietro, eravamo impazienti, dopo esserci lasciati lambire dal tepore della primavera, di vedere che il fruttivendolo di fiducia o i fruttivendoli in generale presentassero ai propri clienti gli ortaggi tipici dei mesi di Giugno, Luglio, Agosto, sistemati in bella posta, coi loro bei colori dalle tinte decisamente accese e carichi di profumi particolari, caratteristiche valevoli per dare l’imprimatur, ovverosia, per dichiarare ufficialmente che si era nel pieno dell’estate. Era giunto, finalmente, per tutti il tempo di riappropriarsi del sapore dei fagiolini al pomodoro, gustare le zucchine alla scapece, le melanzane a barchetta o alla parmigiana, mentre per noi ragazzi di quegli anni non valeva alternative addentare l’invitante cuzzetiello traboccante di gustosissimi peperoni fritti o di melanzane a funghetti. Esattamente! Infatti, per l’esiguo gruppetto di noi che abitavamo nello stesso fabbricato in via Brin, era un eccellente intermezzo pomeridiano che consumavamo, il più delle volte, nel cortile sotto casa, condividendo tutto da buoni amici. Giusto per farvi intendere cosa fosse tale cortile, tengo a dirvi che consisteva in quel vicolo cieco (tuttora esistente) che si insinuava tra il palazzo dove io abitavo da ragazzo e l’ala della Caserma Cristallina in quegli anni adibita in parte a sala mensa per gli ufficiali ed in parte a cucina. Era uno spazio molto tranquillo, sul quale si aprivano l’abitazione della signora Maria (soprannominata “la siciliana”), che aveva intrapreso l’attività di lavandaia dei marinai, dopo essere rimasta vedova, per tirare su dignitosamente la sua famiglia numerosa; il retro del rinomato Biscottificio “Cirillo”, ed ulteriori due locali adibiti ad officina di falegnameria del costruttore navale Vincenzo Spina, un signore autoironico, dal carattere molto gioviale e, all’occorrenza, anche molto distinto. In talune circostanze, inoltre, tale cortile offriva a diverse famiglie del fabbricato l’ideale rimedio a determinate esigenze, quale, appunto, la bollitura delle bottiglie di pomodoro. Detto ciò, ritengo doveroso ritornare ai prodotti dell’orto, dove ci attende l’ortaggio per eccellenza, caratterizzato dal colore rosso intenso, dal profumo inebriante e dalle caratteristiche del suo sapore che conquistano amabilmente il nostro palato: sua maestà il pomodoro.
Con questo ortaggio il mosaico risultava completo e le nostre nonne potevano fissare date per mettere in atto il loro programma che rispettava un copione non scritto, che si ripeteva ogni anno e che poteva essere suscettibile di variazioni solo se vantaggiose. Si passava, quindi, all’azione, con lo scopo di dare continuità, anche se limitata nel tempo per alcuni di essi, al gusto irresistibile, esaltante dei prodotti dell’estate anche in inverno. Ed in virtù di ciò, agli ambienti soleggiati si esponevano ben presto collane di melanzane tagliate a tocchetti o a fette, per poterle riproporre (dopo averle opportunamente reidratate) in qualche giornata particolare dei mesi freddi alla parmigiana con la passata o a funghetti condite coi pomodori nostrani, con quelli, cioè, coi quali gli stessi produttori creavano a domicilio i piennoli al momento stesso della consegna.
Si procedeva, poi, alla preparazione di sottaceti e di melanzane all’olio, che venivano opportunamente conservati in capienti vasi di ceramica. Non mancavano, ovviamente, tra le conserve i peperoni arrostiti, che venivano messi in bottiglie, che, una volta ultimate, venivano debitamente sterilizzate con la bollitura. Tali fasi si concludevano con le classiche “bottiglie di pomodoro”. Era indispensabile acquistare pomodori che non fossero stati colpiti da uno di quegli acquazzoni tipici del mese di agosto, per fortuna rari, ma intensi, onde evitare di conservare per l’inverno un ortaggio non più puro, in quanto sarebbe risultato piuttosto acquoso. E…, riandando col pensiero a quegli anni, non posso non richiamare alla mente l’immagine di mia nonna Annina, immagine dolce e sorridente stampata sul volto di una donna di media statura dai capelli bianchi intrecciati e raggruppati a tuppo.
La vedo, infatti, dinamica quale è sempre stata, destreggiarsi tra bottiglie, tappi di sughero e pomodori come se il tutto stesse avvenendo nel tempo presente. Il giorno convenuto, avvalendosi della buona volontà di qualche parente o della disponibilità di qualche componente di altra famiglia (alla quale, ovviamente, si ricambiava la cortesia alla stessa maniera, quando ne fosse stata fatta richiesta) vicina di casa o di pianerottolo o abitante comunque nello stesso stabile, si procedeva seguendo i canoni previsti da tale rituale. Per quanto riguardasse le varie ramificazioni della mia famiglia, da tempi immemori per tale circostanza era stata eletta quale sede di lavorazione la cucina dei miei bisnonni, in quanto, come ho precedentemente detto, era al primo piano e godeva di affaccio sul cortile poc’anzi citato. E questi erano due elementi di notevole importanza, in quanto il primo consentiva di calare le bottiglie dal suo balconcino e sistemarle nei grossi contenitori in ferro per la bollitura, mentre con il secondo si evitava a noi ragazzi dell’epoca di portarle a mano e di dover più volte fare il giro del fabbricato per poterle consegnare a chi le dovesse assestare nei bidoni, per poi ripetere all’inverso la stessa operazione il giorno dopo, quando si fossero raffreddate. Tutto questo perché era proprio in questo cortile che avveniva la fase finale, quella, cioè, della sterilizzazione delle bottiglie piene di passata o di “pacchetelle”, ossia pomodori tagliati individualmente in quattro parti e rigorosamente privati dei semi e dell’acqua di vegetazione. Peccato che in quegli anni non esistesse il cellulare per fermare quelle immagini di semplicità, di spensieratezza, di armonia che l’insieme offriva agli occhi di un ipotetico osservatore. Eravamo tutti consapevoli che si prospettava una giornata dura, forse persino estenuante, ma anche di giocondità, perché la si viveva sostenuti dalla stima, dall’affetto, da una particolare atmosfera di fratellanza. Si parlava, si raccontava, si ascoltava, si interveniva, mentre si procedeva senza sosta chi a tagliare, chi a mettere nelle bottiglie, chi ad apporre tappi… Non mancavano tra noi ragazzi battibecchi che nascevano dal fatto che nessuno di noi era disposto a rinunciare al piacere di azionare la manovella del passapomodoro, ma c’era sempre chi riuscisse ben presto a trovare la giusta soluzione che appagava un po’ tutti.
A me piaceva mettere i tappi di sughero alle bottiglie e fermarli con una gabbietta che io realizzavo al momento, così come mi era stato insegnato, per ogni bottiglia con dello spago sottile.
Per fare ciò, occorreva bagnare il tappo nell’olio, introdurlo nella macchinetta e spingerlo nel collo della bottiglia a colpi di martello, leggeri, ma bene assestati. Dopo questa fase, si passava all’ingabbiamento del tappo.
A questo punto, non restava altro da fare, che calare, servendosi di un robusto secchio metallico e di braccia bene avvezze a fronteggiare ed a sopportare pesi, le bottiglie, sistemarle accuratamente nei bidoni, che erano stati precedentemente collocati sui treppiedi in ferro nel cortile già citato, e proteggerle con copertura di tela per sacchi. Si passava, quindi, a riempire i bidoni d’acqua mediante una pompa opportunamente collegata all’unico rubinetto della cucina e ad accendere il fuoco, che andava controllato a debita distanza continuamente ed alimentato, per far sì che l’acqua non perdesse il bollore.
Si concludeva, così, una giornata particolare, una giornata sicuramente impegnativa, movimentata, se volete, anche estenuante, in quanto gravata da un lavoro insolito, ma che ci avrebbe sicuramente gratificati in là nel tempo, quando, cioè, ci avrebbe consentito nei mesi invernali di farci sentire idealmente immersi nel pieno dell’estate. Occorreva solo apporre la classica “ciliegina sulla torta”. Una grande spaghettata condita rigorosamente col pomodoro fresco, sfritto, al profumo di abbondante basilico, era quasi pronta. Giusto il tempo di rassettare l’ambiente, e gli spaghetti sarebbero stati trasferiti ancora fumanti nei piatti di ciascuno dei presenti. A seguire, l’immancabile scarpetta ed un bel bicchiere di vino sincero versato da un boccale nel quale era stato poc’anzi aggiunto del ghiaccio e qualche fetta di limone. Tra ringraziamenti, saluti e quant’altro, poi, ci si congedava amabilmente ed ognuno ritornava al ritmo della sua vita abituale.
Non va tralasciato che nel corso degli anni vi furono vantaggiose novità, quale il passaggio dai tappi di sughero a quelli di stagno a corona, la sostituzione dei treppiedi sotto i quali ardevano robuste assi di legno con uno stabile bruciatore alimentato a gas liquido; al posto dei bidoni in ferro entrarono in uso grossi pentoloni in alluminio, e, poi, passarono alla storia anche i tappi a corona, in quanto non si fece più uso di bottiglie, dove i pomodori andavano spinti e di tanto in tanto insaccati, bensì di barattoli di vetro con chiusura ermetica; ed infine a soppiantare con un po’ di nostalgia il passapomodoro a manovella ci pensò quello elettrico, che in poco tempo e con minor fatica dava dei notevoli risultati.
Alla stessa maniera di un fantastico mosaico che, nel suo mostrarsi nobile e fiero, rigenera e gratifica l’animo dell’osservatore, ma che non dà più il meglio di sé da quando gli cominciano a saltare delle tessere, vuoi per qualche improvviso rigonfiamento, vuoi per qualche movimento incauto, vuoi ancora per il deteriorarsi del collante, oltre a tanti, apprezzabili e piacevoli fatti nuovi, se ne verificavano anche di quelli inattesi, insperati o dovuti al normale, anche se in certi casi inaccettabile, corso della vita. Col passare degli anni il cortile prese a non essere più quello di una volta. Infatti, la signora Maria, quando si sposò anche l’ultima sua figlia, pensò bene di concedersi un po’ di riposo e di dedicarsi, fino a quando le forze glielo avessero concesso, ai suoi amati nipotini; la signora Cirillo, rimasta vedova, passò dal negozio col laboratorio ad uno più piccolo adibito solo a rivendita di biscotti; mentre mastro Vincenzo, titolare dei due locali dove esercitava la sua attività di costruttore navale, incontrò la sua anima gemella, con la quale si trasferì nella Capitale, senza dare mai più ulteriori notizie di sé. Con l’insorgere di questi fatti nuovi, si fece avanti qualcuno che pensò bene di acquistare tali locali, ponendo all’imbocco del cortile un cancello col quale tale ambiente veniva consequenzialmente ed elegantemente dichiarato proprietà privata.
Per mia nonna Annina, invece, lo scorrere della vita ebbe un indesiderato cambiamento, in quanto una comune legge di natura un giorno impose anche a lei, come ad altri, di passare il testimonio.
Le subentrò mia mamma, che per diversi anni seguì la tradizione di famiglia, fino a quando, cioè, il suo stato fisico glielo permise. Ricordo che si faceva tutto in casa, compresa la bollitura dei barattoli, sistemati con accuratezza in un grosso pentolone, ben fermo su di un altrettanto stabile bruciatore a gas liquido. Purtroppo, anche se a diversi anni prima che finisse, diede segno di non essere più in grado di sostenere, fosse anche per un solo giorno, un lavoro stressante e stancante, quale quello delle bottiglie di pomodoro per l’inverno. Si regalarono, quindi, i vari attrezzi e si decise di affrontare le stagioni fredde a venire alla stessa maniera di tante altre famiglie, che molto prima di noi si erano convertite alle conserve industriali. Delle bottiglie di pomodoro resta, particolarmente per chi ne ha vissuto le varie fasi e, per di più, in diverse occasioni, un ricordo piacevole ed inalienabile, che, cioè, non potrà mai essere trasferito ad altri, per dare loro la possibilità di gustare uno spaccato di vita irripetibile, ma, suo malgrado, superato e privo della sia pur piccola possibilità di un suo ritorno sulla scena nella quale ha primeggiato per lunghi anni.
11 agosto 2025
dott. Tullio Pesola










