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Il primo pranzo con i miei futuri suoceri

( di Catello Graziuso de’ Marini )

Carissimi, un affettuoso saluto a tutti. Sarà l’età avanzata, ma stasera mi sento nostalgico ed in vena di sentimentalismi. Rinviando ad una prossima lettera il racconto dell’incontro con la buonanima di mia moglie Margherita, non posso tuttavia sottrarmi dal ricordare uno dei più cari momenti che sono scolpiti nella mia memoria e nel mio cuore: il primo pranzo domenicale al quale partecipai nella casa dei miei futuri suoceri subito dopo il fidanzamento ufficiale.

La mia Margherita, che diventerà negli anni Titina mia, era molto emozionata. Ma io, oltre all’emozione, avevo dentro di me un certo timore reverenziale nei confronti del padre, ufficiale dell’Esercito, nonché dello zio materno, ancora scapolo (e morirà tale). Io ritenevo che questi fosse ivi presente al fine di dare man forte ai genitori di Titina nella difficile opera di valutazione della mia persona. Seppi tuttavia dopo poco tempo che il vero motivo della sua ingombrante presenza (egli era un noto docente di lettere) era molto più banale e terreno: ‘a cucina ra mamma ‘e Titina, di straordinario valore.
Orbene, quel mattino mi feci imprestare un abito. Dopo averlo provato diverse volte, mia mamma, salutandomi sull’uscio della porta e pronunciando la frase: “M’arraccumanno, Catié!”, mi sporcò i guanti di grasso di maiale (‘a ‘nzogna) che stava preparando per il ragù della domenica (altrimenti chi s’o firava a papà).
Arrivai finalmente sotto casa di Titina a via IV Novembre, ma mi resi conto che la mia agitazione mi aveva portato ad essere in anticipo di oltre mezz’ora.
In quei frangenti meditavo sulla bontà o meno della scelta di acquistare le paste dal caffè Spagnuolo (fra cui, ricordo, svariate cassatine al caffè) anziché i fiori.
Titina, invero, mi aveva consigliato in tal senso, perché pensava che lo zio – vero banco di prova in seno alla famiglia – potesse obiettare che trattavasi di scelta borghese.
Me faciette ‘e mille culure quando entrai a casa e lo zio, viste le paste, disse in dialetto (sorprendendomi, credendolo io un austero cattedratico): “Guagliò, e che te crire, ca ‘nce murimme ‘e famma?”. Lanciai un’occhiataccia a Titina, che già stava arrossendo, temendo seriamente sul placet al matrimonio. Intervenne tuttavia inaspettatamente in mio ausilio il padre, Umberto, vestitosi per l’occasione in abito elegante, con lutto al braccio (data la recente dipartita del padre), che disse: “E che ‘nce magnaveme aropp”o pranzo, ‘nu piatto ‘e garofane?”.
Sdrammatizzato il momento, e prima del pranzo, iniziò quello che a distanza di anni non esito a definire un vero e proprio esame. Lo zio Vincenzo si piazzò al centro del tavolo del soggiorno, a mo’ di Presidente della commissione, ai suoi lati i genitori di Margherita. Ben presto però rimanemmo solo noi tre uomini nella stanza, perché le donne andarono in cucina nei preparativi del pranzo.
Lo zio Vincenzo era il vero ostacolo. Infatti, mentre il padre Umberto guardava nervosamente verso la cucina, manifestando poco interesse per le mie risposte (ebbi la netta impressione ca se steva murenne ‘e famme), lo zio era morbosamente interessato alle mie eventuali avventure amorose pregresse.
A un tratto, dopo che avevo risposto quasi sempre con monosillabi, cercando e fa a parte r”o bravo guaglione, sentendomi ingiustamente sotto pressione, feci un breve monologo (sempre con toni educati) che costituì la svolta: “Nun saccio che ve site mise ‘ncapa, io songhe n’ommo serio. Tutto chello che aggio fatto appartene ‘o passato, e nun v”o pozzo ricere, se no fosse ‘nu capa sciacqua!”
“Sta bene!”, esclamò il padre Umberto, alzandosi di scatto e dirigendosi verso la cucina, lasciando di stucco lo zio Vincenzo.
Allo stupore dello zio Vincenzo, che lo esortava a proseguire l’esame, il padre disse: “Nun ne putimmo parlà aroppo?”. E aggiunse: “Tanto, Vicié’, a chi vuò fa fesso, tu cca staje p”o magnà!”
In un clima di serenità mangiammo dunque tutti insieme, e mi commuovo pensando a quella nuova famiglia che si stava formando in quelle ore.
L’unico ultimo ostacolo fu una domanda della mamma Concetta: “Catié, che ne pienze ‘e Castellammare?”. In quel momento mi sentii come uno studente al quale hanno chiesto l’argomento su cui è più ferrato. Dissi dunque: “Io stongo int”a sta città a quando so’ nato, e cca voglio rimané. Me chiamme Catiello e nun tengo ‘a capa ‘e ‘mbrello. Viva Castellammare!”. Alzai il calice e misi una seria ipoteca sul mio sposalizio.

Un caro saluto stabiano. Lello Graziuso de’Marini di Varano.

L’Isis degli anni Cinquanta

L’Isis degli anni Cinquanta: la minaccia dalla penisola sorrentina

(con il massimo rispetto per gli amici costieri: mio zio era di Meta)

di Catello Graziuso de’ Marini

Cari amici del sito, le nefaste cronache degli ultimi giorni afferenti gli attentati terroristici che minacciano la società occidentale mi hanno portato alla mente, con le dovute proporzioni, quanto accadde nei primi anni cinquanta, allorquando noi stabiesi fummo costretti a misurarci con una minaccia esterna certo meno sanguinaria, ma altrettanto organizzata e pervicacemente volta alla distruzione delle nostre radici, delle nostre tradizioni, della nostra storia, dei nostri biscotti: i sorrentini.

Via Cantiere (coll. Carlo Felice Vingiani)

Via Cantiere (coll. Carlo Felice Vingiani)

Non vi è certo in questo mio scritto alcun intento denigratorio, anzi, devo dire che i frequenti litigi che caratterizzavano allora i rapporti con i cugini costieri erano spesso originati dall’essere noi stabiesi un po’ attaccabrighe. In ogni caso, ero proprio io – facendo leva sulle origini della famiglia di mio zio, appunto di Meta – a fare da paciere e riportare tutto alla calma.

Mi riferisco a un periodo in cui tutto nasceva dopo una scazzottata nei locali di divertimento di Sorrento, con gli abitanti del posto che finivano, a volte, per cercare la vendetta ai nostri danni.

Vi racconto al riguardo un episodio che oggi, a distanza di anni, suscita in me un sorriso stanco ed accondiscendente, una certa nostalgia, un po’ di allegria, un accenno di commozione, il tutto condito da un’acerba consapevolezza: quant’ eram’ sciem! Continua a leggere

Monte Croce

Storie minime

Storie minime

Monte Croce

di Catello Graziuso de’ Marini

Cari amici concittadini di Castellammare di Stabia, è il vostro Catello che è tornato a scrivervi. Innanzitutto, mando un caloroso saluto al mio amico Gennaro, che ho rincontrato l’altro giorno sul lungomare e che mi ha detto essere uno dei più affezionati visitatori di questo pregevole sito.

Monte "Croce" (foto archivio liberoricercatore.it)

Monte “Croce” (foto archivio liberoricercatore.it)

Cari amici,

vorrei, in questi giorni così caldi, condividere alcuni pensieri de mazi con voi che, come me, non avete né i soldi né la volontà di abbandonare il suolo natìo per recarvi in località di vacanza.

Mi riferisco alla Croce di Monte Croce.
Come ben noto a tutti gli stabiesi di una certa età, la croce che attualmente è posta sulla sommità di detta montagna fu lì apposta nel lontano 1962, in sostituzione della prima — ormai rovinata — installata decenni prima.

In quei giorni, io avevo da poco iniziato la mia attività di insegnamento. Frequentando la parrocchia, mi ero tuttavia convinto che quella scelta non fosse la più appropriata. Ed infatti, vi racconto cosa accadde un giorno all’epoca.

Dunque, eravamo io, Mario ‘o Zelluso, Pascale ‘o Capellone e Tonino ‘o Magnastipendio — così soprannominato per la sua propensione a sfruttare indebitamente la sua attività di sindacalista per conseguire ingiusti vantaggi: retribuzioni ben oltre quanto gli spettasse, buoni pasto, buoni benzina, sigarette, regalie varie.
Egli era tuttavia, sia ben chiaro, un galantuomo, perché figlio della nostra Castellammare e, dunque, immune da ogni giudizio di riprovevolezza sociale.

La questione era molto semplice:
io e Mario non condividevamo la scelta di manifestare il sentimento religioso in forme visibili all’esterno, essendo invece fautori di una religiosità non ostentata, bensì concretamente praticata nelle sedi competenti, ivi compresi gli altarini sacri ca steveno dint’‘e palazzi della ‘Mbricciatella.

Iniziò dunque un’aspra polemica con il parroco — spalleggiato, credo, dalla Curia — sostenitore della scelta, poi risultata vincente, di sistemare quella croce sulla sommità del monte.

Pasquale ‘o Capellone la prese sul personale con Mario ‘o Zelluso, prendendolo in giro dicendo:

Marittié, che te pienze, ca ‘ngopp”a montagna nun c’adda sta’ niente, come ‘ngopp”a capa toia?

In realtà, come avete già capito, la questione era molto diversa e molto più profonda.
Anche Tonino sembrava, almeno all’apparenza, non avere ben chiari i termini della questione.
Egli invero diceva:

Mettimm’ sta croce, croce vuol dire operai, che vuol dire lavoro, che vuol dire sindacato, che vuol dire compagno, che tu fatichi e io magno!

Tradendo così la sua indole tutt’altro che democratica, che vedeva nella classe operaia un mero strumento nelle mani del sindacato.

A quel punto invitai Mario a fare una preghiera a San Catello nella cattedrale, per cercare di carpire il volere del Santo.
Quando però gli chiesi se fosse andato in chiesa, lui rispose:

Mannaggia, me so’ scurdato, c’aggio chiesto sulamente ‘e nummere r”o lotto!

Allora presi io in mano la situazione, adottando una saggia decisione: cambiai idea e, democristianamente (senza alcuna offesa per lo Scudo Crociato), salii sul carro dei vincitori.
Mi dichiarai favorevole all’apposizione della croce, facendo un memorabile discorso nella chiesa del Carmine, che suscitò applausi a scena aperta.

A quel punto Mario rimase da solo a sostenere la sua idea, e fu preso da tutti noi a cavece e buffettune una sera a Piazza Municipio.

Perché cambiai idea?
Non fui certo folle: mi resi conto che quel luogo, che sovrasta la nostra amata cittadina, dovesse avere un simbolo che la rendesse unica, a prescindere dal sentimento religioso cattolico, che doveva essere recessivo rispetto alla Stabiesità, faro delle nostre esistenze.

L’anno successivo, in una giornata caratterizzata da un caldo infernale, con i miei amici andammo a piedi a visitare la sommità del monte.
Fu in quell’occasione che Mario pronunciò la famosa frase:

Catié, che croce! Pe’ saglì ‘ngopp”a Monte Croce, e me fa vede’ ‘sta croce, stamattina m’è miso ‘nroce!


Saluti stabiani,
Catello Graziuso de’ Marini

Nota: la presente lettera è stata scritta con la collaborazione del nipote del sottoscritto e sotto la dettatura dello stesso.


Storie Minime ( episodi e brevi aneddoti di vita stabiese )

Ispirata dal carissimo amico Corrado di Martino, che nei suoi racconti concentra il potere di sintesi e la buona scrittura, questa rubrica accoglierà le storie e gli aneddoti di formato breve, di coloro che hanno qualcosa da raccontare. Va da sé, che non è necessario essere scrittori, per contribuire è sufficiente che gli scritti siano concisi e relativi al vissuto stabiese.

La rubrica è aperta a tutti, se avete un episodio da raccontare, contattateci quindi all’indirizzo: ricercatoredistabia@libero.it

‘O Rillorgio

Storie minime

Storie minime

‘O Rillorgio

di Catello Graziuso de’ Marini

Cari amici concittadini stabiesi, vorrei iniziare queste mie riflessioni di primavera da una cosa che ho letto su questo vostro pregevole sito: nella sezione denominata la tombola stabiese, ho piacevolmente e condivisibilmente letto che il numero uno è dedicato alla nostra Castellammare, numero uno al mondo. Mai parole più giuste e Sante sono mai state pronunciate. Sarebbe proprio il caso di dire, mutuando dalla sezione “modi di dire stabiesi” del vostro sito, agli abitanti delle città limitrofe “ammisurateve ‘a palla”.

Piazzetta dell’Orologio

Qual è invero una delle città vicine alla nostra Stabia che possa dirsi anche lontanamente paragonabile a Castellammare per eloquenza, bellezza intrinseca, bellezze naturali, bellezze storico artistiche, deplorenza senile, salubrità dell’aria? A tale proposito mi sono ricordato di una diatriba che vi fu a Piazza Municipio nei primi anni ’50 tra me (accompagnato da alcuni miei inseparabili amici), e un abitante di Boscotrecase.
Dunque, eravamo io, Gennaro Esposito, Antonio “Fatturacanunquaglia” (così soprannominato per la sua propensione all’evasione fiscale) e “Ciruzzo ‘o Spartirecchie”. Continua a leggere

Gennaro Cognulo

Storie minime

Storie minime

Gennaro Cognulo

di Catello Graziuso de’ Marini

Illustre Gestore del Sito “Libero Ricercatore”, da tempo non Le scrivevo a causa di alcuni problemi di salute, ma oggi finalmente posso nuovamente comunicarLe la mia profonda stima per l’opera da Lei condotta: il sito della nostra Castellammare è ancora più ricco di dettagli e storie. Ho visto che c’è una sezione dedicata ai “personaggi stabiesi”, e credo che tutti debbano conoscere un Uomo Stabiese i cui meriti e la cui statura intellettuale potrebbero perdersi senza un’adeguata pubblicità.

I racconti di zio Eustachio

Io sono fra i pochi ad averlo conosciuto indirettamente grazie ai racconti di mio zio Eustachio (pace all’anema soja), che custodiva gelosamente tanti dettagli sulla sua esistenza (fra cui un ritratto, che purtroppo è andato perduto) che mi sono permesso di riassumere in una breve biografia.

Un uomo le cui opere erano detenute esclusivamente da un cugino acquisito di mio zio Eustachio, tale Giovanni Esposito, contemporaneo del personaggio di cui parlerò, e suo grande amico (infatti, custodì tanti suoi manoscritti, che non furono pubblicati per l’estrema riservatezza del suo autore). Ecco per voi la vita di Gennaro Cognulo.

19 Castellammare piazza orologio

Piazza Orologio

Gennaro Cognulo: biografia

Gennaro Cognulo nasce a Castellammare di Stabia il 12 gennaio 1897. Suo padre, Mario, era pescatore dell’Acqua della Madonna, sua madre, Caterina De Rosa, una lavandaia.

Sin dalla tenera età manifesta una grande passione per l’arte e la letteratura. Parte per la prima guerra mondiale e questa esperienza segna la sua esistenza: tutta la sua produzione sarà segnata da una copiosa scrittura di novelle scritte in dialetto, fra cui “Novelle ‘e ll’Acqua r”a Maronna”, “Racconti Aciduli” e anche un pamphlet dal titolo “’O cummuoglio r”o buccaccio chino ‘e vascuotte”.

Il tema centrale delle sue novelle era la stabiesità: non ostentata, dirimente, mai apertamente in conflitto con la società del tempo, eppure convintamente sevaica. All’età di ventidue anni, sulle ali dell’amore per la sua città, apre una piccola bottega di aghi e fili di cotone dietro Piazza Orologio. Continua a leggere