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La nuova Camera del Lavoro nel 1910

Alle origini del movimento operaio di Castellammare di Stabia

di Raffaele Scala

Anno 1910 - Ferrovieri nella stazione di Castellammare di Stabia (archivio liberoricercatore.it)

Anno 1910 – Ferrovieri nella stazione di Castellammare di Stabia (archivio liberoricercatore.it)

CAPITOLO QUINTO

LA NUOVA CAMERA DEL LAVORO NEL 1910

1. Dall’Associazione dei tipografi alla Camera del Lavoro

Dopo questa breve ma necessaria digressione sulle vicende di Piazza Spartaco ritorniamo al tempo dei fatti in precedenza narrati, a quel 1910, l’anno dell’amara sconfitta alle elezioni amministrative della pattuglia socialista con alla testa l’avvocato Raffaele Gaeta.
La scomparsa della Camera del Lavoro pur provocando una profonda crisi nel campo socialista e più complessivamente nel movimento operaio di Castellammare non aveva portato allo scioglimento di tutte le leghe. Alla naturale devastante crisi era seguita una fase di riflessione e il successivo cambiamento di alcuni gruppi dirigenti alla testa delle poche organizzazioni di categoria che non si erano sciolte. Sopravvivevano, per esempio, sotto la veste di cooperative, quelle dei metallurgici, guidati da Vito Lucatuorto, degli edili con il socialista rivoluzionario, Ernesto Aiello e del credito con Gallo. Queste tre cooperative le vediamo partecipare l’11 luglio 1909 al convegno operaio di Torre Annunziata per la Federazione Campano Sannita insieme a un nutrito numero di leghe e alle Camere del Lavoro di Salerno, Caserta, Gragnano, Scafati e, naturalmente, quella della città ospitante. Secondo una corrispondenza dell’Avanti! del 16 luglio, firmata dallo stesso Gino Alfani – subentrato a Cataldo Maldera alla guida della Camera del Lavoro di Torre Annunziata il 1° marzo 1908 – a quel convegno parteciparono i delegati di oltre 50 organizzazioni economiche della Campania in rappresentanza di 4000 iscritti. Alla fine fu deliberata la nascita di un Comitato federale composto da Carlo Califano, segretario confederale e da Vito Lucatuorto, dal salernitano Zurigo Lenzini, dal casertano Visco Crescenzi e Gino Alfani. Tra i primi impegni due comizi a Scafati e a Castellammare dove a parlare furono chiamati, rispettivamente, Lucatuorto e Lenzini.
Leghe e cooperative non facevano, però, di per sé una Camera del Lavoro e la mancanza di una struttura più complessiva si faceva sentire trovando eco nella corrispondenza sul settimanale socialista e della Camera del Lavoro di Torre Annunziata, L’Emancipazione, dove un anonimo cronista nella rubrica Corriere di Stabia scriveva:

L’organizzazione di classe non attecchisce. Le ragioni di questo fenomeno si debbono ricercare e nelle condizioni intime delle classi operaie non ancora spoglie delle scorie del servaggio e dei meschini egoismi individuali e nel falso concetto che esse hanno dell’organizzazione di classe credendole un’organizzazione che abbia un carattere politico…1

Lo sciopero del 14 settembre degli scaricatori di grano del porto, guidati dal loro caporale, Catello Scielzo, tutti iscritti alla Camera del Lavoro di Torre Annunziata, colpì in particolare i due pastifici più importanti di Gragnano, quelli di Alfonso Di Nola e Alfonso Garofalo. L’inatteso conflitto riaprì nuove, sopite tensioni, ma sembrò anche fare da volano alla ripresa dell’iniziativa sindacale. I portuali di Castellammare avevano tentato di imporre agli industriali di Gragnano le stesse tariffe già vigenti per i portuali della vicina Torre Annunziata per la discarica del grano e al rifiuto ricevuto seguì la proclamazione dello sciopero. Per risolvere la questione i due industriali si rivolsero allora ai fratelli Esposito le cui ciurme non erano organizzate, provocando l’immediata reazione degli scaricanti organizzati. Ad evitare il peggio fu l’immediato intervento della pubblica sicurezza portando nei propri uffici i caporioni della rivolta operaia, senza poter evitare di essere però seguiti dagli altri scioperanti. Subito dopo fu nominata una commissione poi ricevuta dal Sottoprefetto, l’abile cavaliere Peri “fortunato compositore di scioperi”. Ed, infatti, ancora una volta, il funzionario del governo riuscì a trovare la soluzione atta ad accontentare i contendenti al punto da far rientrare al lavoro nella stessa giornata gli scioperanti.
La probabile svolta si ebbe, però, qualche giorno dopo quando i tipografi di Castellammare avevano “..capito finalmente che per tenere fronte ai padroni dovevano organizzarsi..”2 e per farlo, dopo un laborioso lavoro preparatorio, decisero di riunirsi la domenica del 18 settembre presso la sezione socialista per fondare la loro lega. A quell’incontro, ancora preliminare, ne seguirono altri con i rappresentanti del Comitato regionale di propaganda della Federazione dei Lavoratori del Libro, arrivando infine all’assemblea finale il successivo 25 nel Circolo Giovanile Italiano, dove tutti gli operai tipografi di Castellammare e di Torre Annunziata costituirono la sottosezione dell’Associazione Tipografi Operai sorta con lo scopo di ribellarsi “.. alla schiavitù di lavorare 11 e più ore al giorno”. In quella stessa giornata elessero Enrico Ding loro presidente; Florindo Lanzaro segretario; Carlo Giandomenico come consigliere e per la funzione di esattore Nicola Longobardi.
Tanto bastò per accendere nuovi entusiasmi e nel giro di poco più di un mese la ricostituzione della nuova Camera del Lavoro, la cui sede doveva probabilmente trovarsi al Corso Vittorio Emanuele 71, poteva dirsi cosa fatta. La prima iniziativa fu di tenere il 13 novembre, nella propria sede, un pubblico comizio di protesta, per sostenere la durissima lotta portata avanti dalle tessili dello stabilimento Wenner di Scafati. Alla manifestazione parteciparono una sessantina di lavoratrici, in rappresentanza delle circa mille dipendenti, quasi tutte donne, in sciopero ormai da diversi mesi, contro il licenziamento per rappresaglia di alcune loro compagne. La lotta era iniziata nei primi giorni di settembre, quando, circa un mese dopo, il 3 ottobre, la forza pubblica interveniva nella contesa con estrema violenza contro le scioperanti e la stessa Camera del Lavoro di Scafati, devastandola. Il fatto suscitò lo sdegno nazionale, provocando interpellanze parlamentari e l’arrivo nel piccolo centro del salernitano di Rinaldo Rigola (1868 – 1954), deputato e Segretario Generale della Confederazione Generale del Lavoro, la potente organizzazione operaia sorta nel settembre 1906 per disciplinare la frastagliata lotta operaia, unificando le decine di federazioni di mestiere sorte in quegli anni e le stesse Camere del Lavoro con un forte centro di direzione nazionale del movimento, stabilito inizialmente a Milano.
Alla manifestazione parteciparono come oratori lo stesso segretario della forte Camera del Lavoro di Scafati, il professore Felice Guadagno e il napoletano Umberto Vanguardia (1879 – 1931), uno degli animatori dello sciopero di Scafati, militante socialista fin dalla prima metà degli anni novanta, segretario dell’associazione dei panettieri e tra i protagonisti della nascita della Borsa del Lavoro a Napoli. A presiedere l’iniziativa, spiegando le ragioni della manifestazione e facendo la storia dello sciopero, fu Raffaele Gaeta a nome della rinata struttura camerale di Castellammare.
Non sappiamo se fu lo stesso avvocato Gaeta ad assumere la direzione della risorta organizzazione economica o se lasciò l’incarico al pur esperto Vito Lucatuorto, attivo militante nelle file socialiste almeno dal 1903, impiegato di banca e professore di computisteria nell’istituto tecnico, Giuseppe Bonito. Lucatuorto già da diversi anni stava maturando esperienze in campo sindacale, dirigendo diverse leghe e dimostrando di essere in grado di assumersi responsabilità più complesse, non a caso era stato uno dei protagonisti della nascita della Camera del lavoro nel 1907 come ora, in questo travagliato 1910. E’ anche possibile, invece, e probabilmente, tra le diverse ipotesi, quella più vicina alla verità, che ad assumere l’incarico di Segretario Generale della nuova Camera del Lavoro, sia stato il neo responsabile della Lega tranvieri, Vincenzo De Rosa, giovanissimo rivoluzionario del 1898 e aspirante sindacalista fin dal 1902, quando aveva maturato la sua prima esperienza guidando la lega metalmeccanica degli operai della Cattori, la prima di cui si ha conoscenza tra i lavorati dell’industria stabiese, dopo quella della Prima Internazionale nel 1869. Così come è altrettanto probabile l’assenza di un Segretario generale, nel senso comune dato a questo titolo, di un responsabile, cioè, che assumesse su di se la responsabilità della direzione politica. Non è da scartare una direzione collegiale dei massimi esponenti del socialismo locale e quindi dei tre dirigenti con alle spalle direzioni di leghe.
In attesa di nuova documentazione, a favore dell’una o altra tesi, noi possiamo anche ipotizzare l’assenza di una vera e propria Camera del Lavoro, nel senso classico del termine, in considerazione della mancata partecipazione al II Convegno Meridionale delle organizzazioni economiche tenutasi nella sede della Borsa del Lavoro di Napoli il 4 e 5 dicembre 1910.3 Un convegno di una certa importanza, dove erano invece presenti Torre Annunziata, Scafati e Gragnano. Il fatto è tanto più strano se si tiene conto della capacità di partecipazione dei socialisti, appena un anno, prima l’undici luglio 1909, pur nell’assenza totale di una Camera del Lavoro, al I Convegno con Vito Lucatuorto, Aiello e Gallo alla testa di tre cooperative. Eppure anche in quello scorcio del 1910 la sezione socialista c’era, era viva e doveva avere una sua importanza come dimostra la partecipazione con Vincenzo De Rosa al Congresso nazionale di Milano del PSI in ottobre e dell’otto dicembre, con Raffaele Gaeta, al Convegno Socialista Campano, tenutosi a Torre Annunziata, dove fu eletto un Comitato direttivo di sette persone allo scopo di dirigere il movimento politico e curare il risveglio delle forze lavorative della regione. L’importanza della sezione stabiese veniva dalla elezione, nel ristretto comitato dei sette, dello stesso Gaeta.
La debolezza di questa Camera del Lavoro si poteva misurare anche dal confronto con la potente organizzazione economica che invece dominava la scena sociale nella vicina Torre Annunziata sul problema del caro dei viveri e delle pigioni. Mentre Gino Alfani proclamava il 18 ottobre uno sciopero generale durato tre giorni e portato in piazza settemila lavoratori con la chiusura di tutte le fabbriche, a Castellammare era il Comitato degli arsenalotti a prendere l’iniziativa con un comizio pubblico nel teatro Savoia il 16 di quello stesso mese con la partecipazione di almeno mille operai venuti ad ascoltare l’avvocato Corso Bovio, consigliere popolare del comune di Napoli e concludendo la manifestazione con un ordine del giorno in cui faceva “voto al consiglio comunale di Castellammare perché voglia avocare a sé la questione delle case popolari e coordinare con un’opera di risanamento igienica della città”.4

Certo in questi ultimi mesi del 1910 non si poteva chiedere molto ad una struttura sindacale ancora in fasce, un embrione d’organizzazione costretta a muoversi, come sempre, tra mille insormontabili ostacoli, ma soprattutto contro le insidie del potente clero. Perché per la chiesa bastava poco per gridare al lupo, sentirsi in pericolo e chiamare alla santa crociata i fedeli contro le oscure forze del male rappresentate da un grumo di socialisti. Che tutto questo – soltanto questo – ancora una volta, fosse in ogni modo sufficiente a turbare le notti di quanti tremavano al solo pensiero del pericolo rosso, si evince da una corrispondenza del 4 dicembre 1910 di un anonimo cronista del quindicinale clericale L’Aurora – curiosamente lo stesso giornale che aveva gridato al pericolo rosso nel dicembre 1907 annunciando gli scioperi proclamati dalla Camera del lavoro di Catello Langella – dove chiamava a raccolta le forze cattoliche per opporsi all’avanzata socialista:

(…) i socialisti stanno facendo immensi progressi fra noi, con la Camera del Lavoro e col circolo giovanile. Castellammare, che alcuni cattolici illusi credevano una rocca inespugnabile per la grande fede del suo popolo, ha visto sorgere in poco tempo la sezione radicale, un circolo repubblicano Giovanni Bovio, un circolo giovanile socialista, una sezione sportiva ed un circolo di cultura anticlericale, una Camera del Lavoro, una sezione dell’associazione Giordano Bruno, un circolo del Libero Pensiero e, peggiore di tutti, la ricostituzione della loggia massonica –satanica, Pitagora.5

Sul nuovo devastante pericolo rappresentato dalla massoneria, il quindicinale ritornò nel successivo numero, il 17 del 18 dicembre dove affermò:

.. per l’opera assidua dell’ex onorevole, avvocato Rodolfo Rispoli, il quale occupa un alto posto in Massoneria, la Loggia massonica Pitagora di Castellammare è stata ricostituita. Essa si è prefissa lo scopo di radunare nel suo seno i principali dirigenti dei partiti popolari per sfruttare il lavoro degli incoscienti giovanotti socialisti. Alla Loggia si sono accostati alcuni vecchi liberali, banderuole di ogni vento, e così è stato iniziato un futuro blocco stabiese. Alla Loggia massonica si deve il sorgere del Partito Radicale a Castellammare ed il circolo di cultura (…) i massoni stabiesi sono riusciti ad infilarsi non solo nel Partito Radicale e repubblicano e quello così detto democratico, ma anche nella sezione socialista, che ormai è asservita alla Loggia.6

Se la stampa cattolica affrontava l’avanzata socialista nel tessuto sociale in termini così preoccupati, addirittura entusiastica era invece la corrispondenza sulla stampa socialista da parte di Alfonso D’Orsi, giovane socialista stabiese figlio di Alfredo, operaio del Regio Cantiere ed ex consigliere comunale eletto nelle elezioni del 1903 nel partito di Alfonso Fusco. Il ragazzo, dirigente della sezione giovanile del PSI, aveva da poco cominciato le sue corrispondenza su La Propaganda e seguiva con trepidazione la lenta evoluzione di questa nuova Camera del Lavoro, di come andò nei mesi successivi rafforzandosi sempre di più con la ricostituzione di diverse leghe operaie al punto da cominciare a preoccupare le forze clerico moderate. Sul settimanale socialista napoletano, Alfonso D’Orsi annotava felice il ricominciare di una nuova guerra dei nervi con i preti che andavano predicando nelle chiese contro i diavoli rossi, mentre i

(…) .padroni hanno opposto delle leghe….tranelli. Leghe che non hanno altro scopo che quello di porre argine al nostro cammino. Promettono, i signori padroni, mari e monti. Perché? Stiano in guardia gli operai e non si facciano prendere in trappola dalle promesse e dai paroloni

scriveva convinto il neo giornalista. Lo stesso entusiasta giovane che scrisse dell’inaugurazione del vessillo della Camera del Lavoro e dei festeggiamenti del successivo 1° maggio.7

A tenere nella città stabiese i discorsi inaugurali per la nuova bandiera della ricostituita organizzazione economica, in occasione della festa del lavoro, anticipata a domenica 30 aprile 1911, vennero Romolo Caggese e il Segretario della Borsa del Lavoro di Napoli, Oreste Gentile, un ex pastore protestante, ex anarchico ed ex orefice, noto massone, forte sostenitore dei blocchi elettorali con i partiti affini (repubblicani e radicali). Gentile aveva sostituito da pochi mesi il dimissionario Eugenio Guarino (1875 – 1938), un sindacalista rivoluzionario, militante del PSI fin dalle origini, chiamato a ricoprire un nuovo incarico nella redazione dell’Avanti! Romolo Caggese (1881 – 1938), professore universitario di storia, autorevole autore di studi medioevali, anche lui massone del Grande Oriente, allo scoppio del conflitto mondiale si schiererà a favore dell’intervento italiano, aderendo poi al fascismo.
Dopo il comizio, tenuto al teatro Savoia, gli operai stabiesi – “un corteo interminabile al quale presero parte 19 bandiere” – con alla testa i due leaders socialisti napoletani, attraversarono le vie della città. In Piazza Orologio furono accolti dalle grida ostili dei giovani cattolici abbarbicati sul balcone della sede del circolo, G. Dèhcon. La situazione stava quasi degenerando in una rissa, non riuscendo i giovani socialisti a trattenersi dal reagire, tali e tanti furono gli insulti piovuti loro addosso. I più anziani dovettero faticare non poco per calmare l’irruenza giovanile dei loro compagni, sapendo come bastasse poco per provocare la reazione della pubblica sicurezza al loro seguito. Indifferenti alle provocazioni dei cattolici contro il corteo, le forze dell’ordine presenti, pubblica sicurezza e carabinieri, erano invece, normalmente, sempre solleciti quando si trattava di sciogliere comizi e manifestazioni operaie. Erano tempi quelli in cui la legge era chiaramente al servizio non dei cittadini ma del potere dominante. In particolare le forze dell’ordine, e non solo l’esercito, erano addestrate in difesa della proprietà, nella palese funzione anti operaia. Per questo facilmente dimenticavano, anzi, trovavano inopportuno intervenire quando in qualche modo erano chiamati a difendere pacifici corteo di lavoratori.
Qualche mese prima anche L’Emancipazione si era occupato di questa nuova Camera del Lavoro, in una corrispondenza del 25 febbraio, accennando a una riunione tenutasi nella sede della Sottoprefettura, il 15 di quello stesso mese, alla presenza di Pietro Frigerio (1861-1927), nuovo Sottoprefetto nativo della provincia di Como e proveniente da Terni. Frigerio aveva preso possesso del suo nuovo ufficio il 17 gennaio. Vittorio Peri era andato via il 22 novembre “.. chiamato ad espletare un alta e importantissima missione nella Capitale della Sicilia”, quale Regio Commissario delle Opere Pie di Palermo. La sera della partenza aveva trovato ad aspettarlo nella stazione ferroviaria, per l’ultimo affettuoso saluto, tutte le massime autorità del circondario: dai diversi sindaci quali Ernesto Fusco di Castellammare, Ciro Macario di Gragnano ed altri; al direttore della locale sede della Banca d’Italia, Astolfo Fontana, del dazio, Simpliciano Maresca; e poi il pretore Girardi, il capitano dei carabinieri Tomasi, il delegato di Pubblica sicurezza, Antonio Vignali e così via.
A sostituire momentaneamente il rimpianto sottoprefetto, nell’attesa della nomina del nuovo funzionario, fattasi attendere per diversi mesi, fu chiamato d’urgenza Giovanni Battista Massara, alla vigilia delle elezioni provinciali parziali del 18 dicembre, da tenersi a Gragnano dopo le dimissioni del duca Riccardo Carafa D’Andria. La sfida era tra l’avvocato Francesco Montefredini e il barone Francesco Girace “..candidato di un signorotto locale, del deputato Alfonso Fusco e del Governo..”8 e forte era la preoccupazione tra le autorità di una possibile vittoria del primo, sostenuto dalle forze democratiche. Vincerà il barone Girace per due soli voti di differenza, ma non avrà molto tempo per gioire perché un ricorso per brogli del Montefredini sarà successivamente accolto capovolgendo il risultato: saranno, infatti, riconosciuti 755 voti a favore del Girace e 757 al Montefredini.
Tra gli intervenuti alla riunione sindacale del 15 febbraio si citano il sindaco Ernesto Fusco, insignito del titolo di commendatore nel settembre 1909, e il Segretario della Camera del Lavoro, con una commissione di beccai, per discutere della vertenza aperta dalla loro categoria da circa un mese. Dopo quattro ore di serrata discussione non riuscirono a trovare, però, nessun accordo. Il contendere era stato l’aumento del prezzo della carne portata da 3 a 3,50 lire, a seguito dell’aumento del dazio da parte del comune e questo aveva provocato notevoli malumori tra la cittadinanza. I macellai si erano detti disponibili a ridurre di nuovo il prezzo di almeno 20 centesimi ma in cambio chiedevano la trasformazione del dazio, ora calcolata sul peso dell’animale, in un dazio a corpo. Non avendo trovato una soddisfacente risposta da parte della Giunta, i cinquanta associati della categoria dei beccai da venti giorni avevano incrociato le braccia tenendo chiusi al pubblico i loro negozi. Contro lo sciopero delle saracinesche abbassate, per ridurre i disagi tra una popolazione sempre più inferocita, l’amministrazione comunale fu costretta a correre ai ripari aprendo un certo numero di spacci di carni vaccine, ritenendo in questo modo di riuscire a fare fronte al protrarsi della protesta dei macellai iniziata il 14 gennaio e magari di piegarli a più miti consigli. Fallita la mediazione sindacale, sindaco e assessori si resero, però, ben presto conto quando questo costava alle esangue casse comunali: fino al 13 aprile la spesa complessiva sfiorò le 50mila lire
La dura vertenza del beccai era in pieno svolgimento quando ad esplodere fu anche la minaccia di uno sciopero generale proclamato dai pubblici esercenti per protestare contro le numerose cooperative di consumo accusate di fare una sleale e spietata concorrenza. A farsi portavoce delle esigenze di questi bottegai fu il consigliere comunale indipendente, Nicola Fusco, invitando in consiglio comunale la Giunta a prendere i dovuti provvedimenti per evitare quest’altro sciopero. Prontamente allarmato, il Sottoprefetto Frigerio convocò la sera del 19 febbraio una commissione composta da salumieri, vinai, panettieri e bottegai vari riuscendo a convincere i riottosi commercianti a desistere momentaneamente dalla loro dimostrazione assumendo l’impegno a trovare una soluzione al problema posto. Ma i giorni passarono senza avvertire nessun cambiamento, sembrava anzi aver superato ogni limite di tolleranza l’invadenza delle cooperative di consumo per niente preoccupate della bufera preannunciata contro di loro, al punto da convincere i più scalmanati a riprendere l’arma dello sciopero generale della categoria. Ancora una volta dovettero intervenire sia il sindaco che il sottoprefetto, nonché il novello paladino dei commercianti, l’avvocato Nicola Fusco per convincere quanti non volevano più sentire ragioni di pacificazione. Ancora una volta questi elencarono le loro ragioni chiedendo un provvedimento teso ad obbligare le cooperative di consumo ad attenersi scrupolosamente allo spirito della legge fornendo cioè i generi alimentari da loro venduti esclusivamente ai soci ed in misura proporzionata e limitata ai bisogni effettivi delle rispettive famiglie. Accadeva invece, sempre più spesso, che i soci ritirassero dalla cooperativa grandi quantità di prodotti rivendendoli a prezzi maggiorati ad amici e parenti. Tutto questo provocava, naturalmente, un enorme danno economico ai commercianti.
Non sappiamo come entrambe le vertenze andarono evolvendosi, ma riteniamo, come sempre accade in questi casi, che la soluzione fosse quella naturale di un compromesso tra le parti, sapendo come questa alla fine servisse soltanto a calmare le acque senza riuscire a dare definitiva sistemazione alla questione.
Ancora una volta, l’organizzazione economica, dopo le schermaglie dei negozianti, provò a misurarsi con uno sciopero operaio, partendo dai metallurgici, i più battaglieri tra le sue avanguardie. Nella loro storia sindacale i motivi d’orgoglio erano stati davvero pochi e per di più di breve durata. Probabilmente erano ancora in quella fabbrica i pionieri del 1902, quelli della prima lega, forse gli stessi che ci avevano riprovato un anno dopo, quando sembrava addirittura fattibile la costituzione di una Camera del Lavoro con il sostegno della sezione socialista, del consigliere provinciale e addirittura con un deputato amico. Non era andata bene e fu quasi un obbligo la lunga pausa dettata dalla ferrea disciplina di Michelangelo Cattori. Il sogno di un’organizzazione vera, duratura, capace di guidare e sostenere le aspettative operaie, sembrò concretarsi in quel tardo autunno del 1907 con Catello Langella, il rivoluzionario accompagnato dall’aureola dei moti del 1898 e dal mito del carcere subito in nome degli ideali socialisti. Il risveglio fu duro, reso forse, ancora più amaro dalla fuga del professore in quelle terre lontane. E fu di nuovo notte, ancora per qualche anno.
Quante cose nel frattempo erano accadute: alla spettacolare e tremenda eruzione del Vesuvio dell’aprile 1906, con le sue bocche di fuoco vomitanti cenere, lapillo e lava in quantità enormi, al punto da provocare ingenti danni nelle diverse province della regione ma desolazione e morte nell’intera area vesuviana, seguì una tremenda scossa di terremoto nell’avellinese, nel giugno di quel 1910, con decine di morti. Come se tutto questo non bastasse, anzi quasi preannunzio di ben altre disgrazie, venne, senza neanche farsi aspettare molto, il colera devastando la Puglia ed arrivando nel napoletano, senza dimenticare di infierire anche su Castellammare, risparmiata dal Vesuvio. Il colera provocò nella Città delle Acque diversi morti e infinite polemiche sulla eccessiva sottovalutazione da parte delle autorità competenti.
Tutto questo, ora, era fortunatamente alle spalle. Altri erano i problemi che si ponevano: c’erano diritti negati da rivendicare, dignità sul lavoro da conquistare, una vita migliore nella quale sperare attraverso la lotta sindacale. E sul fronte del lavoro si erano ben organizzati i compagni dell’arte bianca di Gragnano, costruendo la loro organizzazione economica, mentre qui a Castellammare si arrancava non poco. In molti, probabilmente, si chiedevano se ci si poteva fidare di quegli stessi che, in fondo, avevano sempre fallito. A dare coraggio era, però, arrivata, nel maggio 1911, l’inaspettata adesione degli arsenalotti fatta pervenire attraverso il loro Comitato, suscitando notevole entusiasmo negli ambienti operai. Lo stesso entusiasmo colse, forse, ancora una volta 43 falegnami di questa fabbrica, gli unici organizzati in Lega sui 500 occupati, tornando in questo modo ad incrociare le braccia per provare a rinverdire una stagione il cui gusto era stato appena provato ma mai assaggiato fino in fondo. A questi operai non importava molto il fatto che, solo pochi mesi prima, nel novembre del 1910, il capitano Michelangelo Cattori avesse conquistato un nuovo alloro, ottenendo il Grand Prix all’Esposizione Internazionale di Buenos Ayres, presentando degli esemplari di catene senza saldatura. E’ vero, quelle catene erano state costruite nelle officine di Castellammare utilizzando uno speciale sistema di fabbricazione inventato dall’ingegnere Edoardo Doux, capo dei dipartimenti ferroviari di Roma ed Ancona. Ma cosa avevano da guadagnare gli operai dal fatto che la Camera di Commercio di Buenos Ayres avesse assegnato alla loro azienda un diploma di benemerenza per l’incremento apportato alle industrie, quando l’atteggiamento padronale usato nei confronti dei dipendenti non si scostava di molto da quello di uno schiavista?
Così era arrivato quell’undici agosto 1911 e li aveva spinti a scioperare la solita arroganza padronale, una protervia decisione aziendale di far eseguire daccapo, a spese degli stessi operai, dei lavori di riparazione ad alcuni vagoni ferroviari rifiutati dai collaudatori delle ferrovie perché non erano stati eseguiti secondo le prescritte modalità contrattuali. Come se tutto questo non fosse sufficiente, arrivava anche, per punizione, la riduzione del 25% della loro paga oraria. Naturalmente i falegnami accusati di aver svolto in modo sbagliato quei lavori non erano per niente d’accordo sulla decisione, anzi, accusarono la ditta di averli costretti ad usare materiali non adatti per quel tipo di riparazione, fornendo addirittura legname fresco, ed era questa l’unica causa che aveva impedito un corretto collaudo del lavoro svolto. Dopo aver inutilmente protestato, rendendosi conto di come il capitano Cattori non avesse nessuna intenzione di recedere dalla sua assurda posizione, i 43 operai del reparto falegnameria abbandonarono il loro posto di lavoro. Recatosi alla Camera del Lavoro, su consiglio del Segretario, formarono una commissione e si recarono in Sottoprefettura, dove furono ricevuti dallo stesso Frigerio. Questi, prima di assumere una qualunque decisione, chiese di avere un memoriale con l’esposizione dei fatti e le loro ragioni. Nel frattempo, come sempre, il vecchio Cattori non si lasciò impressionare più di tanto: in qualche modo la direzione aziendale, era consapevole dell’isolamento del gruppo organizzato, come del resto dimostrava ogni assenza di solidarietà da parte degli altri compagni di lavoro, ancora impauriti dalle passate, negative esperienze. Non a caso, del resto, il numero degli aderenti alla lega era così basso e non trovò, quindi, grosse difficoltà a sostituirli con altrettanti falegnami presi da altri reparti. A queste condizioni bastarono pochi giorni d’inutile resistenza per piegare il gruppo di scioperanti e convincerli dell’impossibilità di proseguire nella loro lotta. La maggioranza capì perfino l’inutilità di arrendersi e non volle piegarsi ad una nuova umiliazione, decidendo in questo modo di preferire il licenziamento, trovando ben presto una nuova occupazione presso altri stabilimenti, mentre tre scioperanti, forse in mancanza di una seria alternativa, decisero di rientrare alla Cattori, piegandosi alle decisioni aziendali
Sarà tale lo sconforto provocato tra i dipendenti della Cattori da questa ennesima sconfitta che bisognerà attendere il periodo bellico per vedere riaprire un nuovo ciclo di vertenze sindacali tra i metalmeccanici stabiesi. Infatti, solo tra l’inverno del 1915 e l’estate del 1916 vedremo di nuovo protagonisti gli operai della Cattori e quelli delle officine di Catello Coppola, tutti impegnati in un nuovo ciclo di rivendicazioni economiche.

2. Lo sciopero dei tranvieri e quello dei lavoratori della Domenico Rosa Rosa

Ma per uno sciopero fallito vi è sempre un altro che ha miglior fortuna: è quando capitò ai 94 tranvieri dipendenti della Società Anonima delle tramvie sorrentine. Questi avevano un orario di lavoro di dodici ore per gli addetti all’officina e di dieci per tutte le altre categorie. La paga oscillava da 1.70 dei cantonieri alle 5.40 dell’ispettore. Chiedevano aumenti contrattuali, doppio compenso per il lavoro straordinario notturno e un orario di lavoro di otto ore giornaliere, nonché l’abolizione di un atto di sottomissione per il quale potevano essere licenziati senza nessun preavviso né motivazione, infine chiedevano di non procedere a licenziamenti quando si doveva effettuare una riduzione di personale ma di retrocedere ad avventizi gli ultimi promossi effettivi. Il memoriale presentata dalla Lega non trovò però nessuna risposta e la reazione fu lo sciopero proclamato il 18 agosto portando alla completa sospensione del servizio.
Per tentare di comporre la vertenza s’incontrarono il 23, nella sala della deputazione provinciale, l’assemblea consortile della tramvia Castellammare – Sorrento, con il suo Presidente Aliberti, il Sottoprefetto del Circondario, Pietro Frigerio, il Segretario della Lega tranvieri, l’avvocato Vincenzo De Rosa e una rappresentanza di lavoratori. Sentite le opposte ragioni, il consorzio tentò di convincere i rappresentanti della società a cedere sugli aumenti richiesti, dieci centesimi il giorno. La società era invece disponibile a cedere su tutti gli altri punti concernerti le diverse questioni regolamentari ma non voleva sentire ragioni sugli aumenti salariali e sulla riduzione dell’orario di lavoro. Contrariata dalla rigida opposizione il consorzio chiuse la riunione con un pesante ordine del giorno contro la Società che gestiva la linea tranviaria, ma questo di per sé non risolveva il problema. Così a sbloccare il difficile braccio di ferro fu il diretto intervento economico del consorzio dei comuni rendendosi disponibile ad accordare su base annua un assegno di 500 lire, aumentabile fino a 1000, da dividersi fra tutto il personale. A queste condizioni fu possibile raggiungere l’intesa e il giorno dopo, 24 agosto, i tranvieri ripresero regolarmente servizio9 Riprenderanno le ostilità nell’aprile del 1913, presentando un nuovo memoriale alla direzione della società ed al Prefetto. Non ricevendo risposta furono proclamate due giornate di sciopero che si tennero il 4 e l’11 maggio. Su 94 dipendenti, ben 84 erano iscritti all’Associazione Tranvieri Sorrentini, ciononostante la vittoria si fece attendere e solo dopo qualche tempo furono aperte delle trattative fra la Società ed il Consorzio portando un aumento di 25 centesimi al personale viaggiante.10
In questa prima fase, intanto, vedremo ancora uno sciopero, il terzo di quella calda stagione 1911, quello dei segantini e fabbricatori di casse alle dipendenze della ditta Domenico Rosa Rosa, effettuato il 26 settembre.
La segheria meccanica a vapore di Domenico Rosa Rosa, con i suoi 50 operai fra cassai, segatori ed operatori meccanici, era una delle aziende del settore più importante del circondario. Operava con un grande deposito sul porto di Castellammare, forse, già con il padre, Stanislao Esposito. Piccolo commerciante in legno, nel 1875 Esposito aveva chiesto ed ottenuto di modificare il proprio cognome in Rosa Rosa.11 Questa famiglia continuerà ad operare nel campo della segheria e dei legnami per molti decenni, prima con il figlio Domenico, che sarà anche consigliere comunale, e in seguito con i nipoti, Catello e Gioacchino. Quest’ultimo rivestirà un ruolo di rilievo nell’associazione dei commercianti durante il regime fascista, vice Podestà del generale Raimondo Giovanni Battista nei primi anni ‘30 e infine Commissario prefettizio in una fase molto difficile della vita politica di Castellammare, subito dopo la caduta del regime. L’azienda sarà poi retta dai figli di Gioacchino, i fratelli Catello e Gioacchino Rosa Rosa, fino a quando non cesserà definitivamente di esistere nel 1986.
Dei cinquanta dipendenti, compresi 10 ragazzi, fra cassai, segatori ed operatori meccanici, 13 dei 15 cassai, avevano deciso di entrare in sciopero pur non essendo organizzati in lega e senza essere iscritti alla Camera del Lavoro. “Chiedevano un aumento sui prezzi del cottimo e che questo venisse loro totalmente affidato, riservandosi di corrispondere la retribuzione ai fanciulli che volevano considerare alla loro diretta dipendenza”. A condurre la trattativa fu il loro capo operaio, Catello Criscuolo. La Ditta non aveva, però, nessun intenzione di concedere l’aumento e neanche accolse la strana proposta dei cassai. Come se non bastasse, durante lo sciopero, accortosi dell’isolamento dei 13, rispetto agli altri compagni che mai cessarono di lavorare, assunse quattro operai falegnami in loro sostituzione. Privi della solidarietà dei loro compagni, isolati in una richiesta corporativa, fortunatamente senza precedenti negli annali della lotta di classe, tesa com’era a trasformarli a loro volta in sfruttatori dei loro più deboli compagni, il 2 ottobre, sconfitti, ripresero il lavoro evitando il licenziamento solo grazie all’intervento di mediazione delle autorità di pubblica sicurezza.12
Dovranno trascorrere 65 anni, prima che gli operai della Ditta Domenico Rosa Rosa, nel frattempo denominata Legno Sud e trasferitosi da Castellammare, nella zona industriale di Napoli, in Via Argine, sul finire degli anni sessanta, conoscano, forse per la prima volta, un’organizzazione sindacale, fino a scioperare nell’estate del 1976 sotto le insegne della FILLEA CGIL, il sindacato degli edili e dei lavoratori del legno, per rivendicare, stavolta sì, i loro diritti negati e calpestati.

3. Fragilità della Camera del Lavoro

Per quanto entusiasta le cronache di quel giovane socialista e per quanto preoccupati, se non addirittura spaventati, potevano essere invece i clerico moderati, in realtà questa Camera del Lavoro, come abbiamo già avuto modo di spiegare, doveva essere, niente o poco più di un dopolavoro. Un’organizzazione economica in grado di gestire, forse, soltanto l’ordinario come appunto lo sciopero dei beccai, senza nessuna forza e capacità, cioè, di effettiva organizzazione operaia e di guida dei vari movimenti di lotta, che qua e là esplodevano, isolati nel loro contesto e per questo destinati alla sconfitta. Tant’è che non fornì una brillante prova di sé nei pochi scioperi esplosi in quella pur bollente estate del 1911: la vertenza d’agosto dei tranvieri aveva una sua forza autonoma, quella dei lavoratori della Cattori finì male e, per quanto ci risulta dalle cronache del tempo, l’intervento della Camera del Lavoro fu poco più che simbolico; neanche intervenne in settembre, quando a scioperare furono gli operai della Rosa Rosa. Addirittura questi non erano neanche organizzati in nessuna lega, né erano iscritti alla Camera del Lavoro.
Forse l’imponente corteo del 1° maggio 1912, con la sua banda musicale che suonava l’Inno dei lavoratori e quello di Garibaldi, mentre attraversava le vie della città, con il comizio finale del Segretario della Borsa del Lavoro, Oreste Gentile e degli altri oratori, inorgoglì i socialisti stabiesi, illudendosi di essere finalmente riusciti a mettere in piedi un movimento operaio vero, in grado di affrontare le lotte politiche e sociali. Forse pensarono che la rinata Camera del Lavoro potesse essere finalmente un’istituzione riconosciuta, in grado di imporre la sua volontà, così come già accadeva da anni nella vicina Torre Annunziata. E quel folto pubblico così indignato contro le provocazioni venute da un gruppetto di nazionalisti, ubriachi di quel nuovo vento di destra, provocato dal contagio imperialistico evocato dal sognante maschio futurismo di Filippo Tommaso Marinetti (1876 – 1944), venuti improvvisamente a far tacitare con le loro urla l’oratore, al grido di Viva Tripoli! Viva il Re! non aveva forse qualcosa della grande epopea operaia? Intanto l’oratore, dal palco della Cassa Armonica, parlava con veemenza contro la guerra di Libia, contro i preti pronti a benedire la nuova guerra santa, contro i danni provocati da quel conflitto, inveendo contro quanti avevano salutato quella spedizione pensando ad una semplice passeggiata militare, senza colpo ferire – Ah quest’onnipresente mito della guerra lampo! – e già costato almeno 800 morti in quei primi sette mesi, inchiodando i nostri soldati in quella terra straniera chissà per quanto tempo ancora. Tutto questo non era forse il segno di una maturazione del popolo stabiese, sempre così indifferente alla politica in passato? E anche quella rissa improvvisa per allontanare i disturbatori, quel gruppetto di nazionalisti guerrafondai, primi prodromi di un fascismo portatore di tanti lutti e responsabile del fratricida bagno di sangue, non indicava che finalmente la politica, quella vera cominciava ad appassionare la classe operaia, rendendola sensibile alle questioni sociali? E poi quell’intervento brutale dei poliziotti, sempre pronti a sciogliere comizi indetti dai socialisti, anche quello dava il senso del momento importante che si andava vivendo. Ma non era così.
L’inconsistenza della Camera del Lavoro e la sua repentina scomparsa fu certificata da una relazione del Prefetto del 17 dicembre 1912, quanto, a quella data, elencava le 28 associazioni sovversive esistenti nella provincia di Napoli: Castellammare vi compariva unicamente per la presenza della sezione repubblicana Giovanni Bovio e per il circolo Democratico.13 Tra l’altro la sezione repubblicana, intitolata al grande filosofo e uomo politico, tra i promotori della nascita del PRI nel 1895, Giovanni Bovio (1837 – 1903), era sorta soltanto qualche anno prima, nell’ottobre 1910, inaugurata proprio dal figlio dell’illustre repubblicano, Corso, poi passato al PSI nel 1912, annunciandolo con una lettera aperta pubblicata sul quotidiano nazionale del Partito socialista il 19 aprile.14
Camera del Lavoro e sezione socialista erano, ancora una volta, scomparse, travolte entrambe dall’ennesima crisi esistenziale. Nell’elenco prefettizio non è citata neanche la Sezione Giovanile Socialista, quella stessa canzonata dall’Aurora nell’ottobre 1910, quando così definiva i suoi militanti: “.. quattro mocciosi che si ficcano ancora le dita nel naso e che non sono riusciti nemmeno in parte a vincere la loro avversione per la catinella dell’acqua e per la saponetta..”. Quattro mocciosi, poi diventati sedici “pallidi, emaciati giovincelli“, riusciti a impadronirsi del Circolo culturale dove spadroneggiavano facendovi propaganda socialista e imponendo l’abbonamento a riviste socialiste, anarchiche e anticlericali. Tra le 28 associazioni sovversive compaiono la Camera del Lavoro di Gragnano con le sue due leghe di mugnai e pastai, quella di Torre Annunziata con la sua Federazione socialista rivoluzionaria della Campania, la sezione socialista e quella repubblicana Luigi Zuppetta. Perfino nella tranquilla, sonnacchiosa Boscoreale è segnalata un’Associazione socialista ma non a Castellammare, ormai evaporata.
Antonio Cecchi così descriveva le condizioni della classe operaia di Castellammare di Stabia prima della guerra, in un suo articolo sul Soviet, del 6 febbraio 1921, all’indomani dei fatti di Piazza Spartaco:

…Fino allo scoppio della guerra europea, Castellammare non aveva movimento sindacale e solo un vivace nucleo di socialisti si sforzava di richiamare la coscienza degli operai alla realistica visione della lotta di classe…le basse e miserevoli condizioni di vita in cui si muoveva il proletariato stabiese non consentivano alle masse di comprendere il nostro insegnamento. Vi era tutta una fitta rete d’interessi e pregiudizi che stringeva il proletariato al carro delle cricche e delle clientele locali. Il sentimento…e gli interessi stessi della classe operaia erano soffocati dal fenomeno degenerativo della politica locale. Il fuschianesimo – da Alfonso Fusco, potente uomo politico locale che era stato sindaco e deputato – e il versipellismo dell’ex repubblicano Rispoli, furono le sole luci politiche che fino al 1914 raccoglievano le masse operaie per farle partecipare alla vita politica….

Un giudizio duro e senza appello da condividere solo in parte, perché agli operai non venne mai meno il coraggio, la forza di scioperare anche in condizioni avverse. Quella che mancò fu un’avanguardia in grado di interpretare e incanalare queste energie, altrimenti disperse nei mille rivoli dell’individualismo corporativo delle diverse Leghe. Non si spiegherebbe altrimenti l’entusiasmo suscitato dalla nascita della Camera del Lavoro, in quell’autunno del 1907, tra le diverse categorie operaie, quando queste si andarono costituendo nelle diverse Leghe, sotto la spinta dirompente di Catello Langella e della sezione socialista. Un entusiasmo vero spento soltanto in seguito alla dimostrata incapacità della sua direzione politica, così come accadrà nel 1910-12, quando a dirigere la Camera del Lavoro dovevano essere Raffaele Gaeta, Vito Lucatuorto, Vincenzo De Rosa e gli altri di sempre, tutti sicuramente animati da una generosa volontà di riuscire. Ma questo, come la storia c’insegna, da sola non è sufficiente.

4. La Camera del Lavoro di Gragnano

Perfino una cittadella come Gragnano, con una popolazione sostanzialmente assestata intorno alle 14mila unità tra il 1881 e il 1911, era riuscito a fare meglio di Castellammare: dopo la fondamentale esperienza costruita con la sua prima fragile lega pastai, fondata da un piccolo, coraggioso nucleo di operai della Garofalo nel 1901 con i suoi scioperi, ora vittoriosi, ora perdenti, in quei primi anni del secolo, c’era stata una profonda, ma breve crisi dalla quale ne era uscita nel 1908. Nel settembre di quell’anno, la Lega era stata rifondata e già nel febbraio successivo si presentò al Convegno di Torre Annunziata dove si costituì la Federazione Interregionale Campano Sannita. Ancora pochi mesi e finalmente, il 13 giugno 1909, il grande sogno divenne realtà con la fondazione della Camera del Lavoro, il cui nerbo era costituito dai pastai e mugnai e dando da subito bella prova di sé impegnandosi in una serie di scioperi memorabili con alla testa il suo Segretario Generale, il ferroviere con qualifica di frenatore, Luigi Perillo. Si misurarono da subito, sostenendo l’ennesimo sciopero proclamato dai pastai della Garofalo, venendo loro in aiuto deliberando il 23 giugno la cessione di una giornata di paga da parte d’ogni operaio a sostegno dei compagni in lotta. Contemporaneamente, a seguito di un’assemblea degli iscritti, si richiedeva per tutti un aumento di 15 centesimi per ogni quintale di pasta prodotta. Quattro giorni dopo la richiesta era comunicata al sindaco affinché se ne facesse interprete nei confronti degli altri imprenditori cittadini, ma la risposta non venne e la proclamazione dello sciopero da parte dei lavoratori dell’arte bianca divenne inevitabile. Così, mentre gli operai della Garofalo chiudevano il loro accordo raggiungendo ben 1,05 lire per ogni quintale di pasta lavorata, i compagni delle altre fabbriche iniziavano lo sciopero generale della categoria il 5 luglio dimostratosi subito compatto. Riavutosi dalla sgradita sorpresa per un’iniziativa senza precedenti in quella ritenuta, fino a quel momento, una vera e propria rocca clericale, convinti che gli unici eretici erano quel manipolo asserragliato nel pastificio di Alfonso Garofalo, gli industriali reagirono cercando nuova manodopera a Torre Annunziata: in 15 accettarono la proposta di lavoro, ma appena arrivati a Gragnano gli operai torresi si resero conto dello sciopero in atto e se ne tornarono immediatamente nella loro città. Durante lo sciopero, Luigi Perillo per la neonata struttura camerale e Sebastiano Buono e Francesco D’Avino, in rappresentanza della Lega pastai, parteciparono al Convegno regionale delle Camere del Lavoro tenutosi a Torre Annunziata l’11 luglio con la presenza di oltre 50 organizzazioni economiche della Campania in rappresentanza di circa 4mila iscritti.
Fallito il tentativo di assoldare crumiri nella vicina Torre Annunziata, gli industriali si decisero ad aprire il tavolo della trattativa, senza comunque riuscire a fare molti passi in avanti. Convocati allora dal Sottoprefetto Peri, il Segretario della camera del Lavoro si presentò accompagnato da una folta delegazione composta dagli operai Salvatore D’Auria, Francesco D’Avino, Vincenzo Malafronte e Baldassare Scarfati ma non per questo si ottennero migliori risultati, anzi, addirittura gli industriali minacciarono la serrata se non si riducevano le pretese. Abituato a ben altre e più complesse situazioni, il Sottoprefetto con la sua solita, abituale pazienza, cominciò a tessere la sua infallibile mediazione per la quale era ormai famoso, riuscendo infine a far firmare l’intesa, dopo circa 20 giorni di sciopero, con un aumento di 10 centesimi a quintale. La debacle degli industriali non poteva essere più completa, come strillò Il Mattino del 28 luglio dopo aver servilmente taciuto sull’intera vertenza.
Per troppo tempo gli industriali di Gragnano avevano dormito sugli allori ed ora non sapevano più a quale santo votarsi pur di far scomparire la nascente organizzazione operaia. Cominciarono allora a vendicarsi nei loro pastifici, aumentando le angherie nei confronti dei dipendenti e inutilmente la Camera del Lavoro protestava chiedendo l’intervento del Sottoprefetto. I padroni dei pastifici e dei molini piccoli e grandi infittirono le riunioni tra loro, convocarono esperti, si consultarono, forse, con i loro colleghi di Torre Annunziata e alla fine partorirono l’Associazione degli Industriali, ma questo non impedì all’organizzazione operaia di rafforzarsi con sempre nuove massicce adesioni, mentre altre leghe, come quelle dei carrettieri e degli scaricanti delle ferrovie, si andavano formando.
A Torre Annunziata si era appena consumato l’ultimo grande sciopero dei pastai, durato dieci giorni e conclusosi il 22 gennaio 1910, quando a Gragnano si preparavano a dissotterrare l’ascia di guerra e nei primi giorni di febbraio fu dichiarato il secondo sciopero generale dei lavoratori dell’arte bianca. Il 1° febbraio in assemblea mugnai e fuochisti avevano stabilito di chiedere un aumento di 25 centesimi dando facoltà agli industriali di prendere una decisione entro la domenica successiva: una pausa di sei giorni sembrò alla lega un tempo congruo affinché l’Associazione degli Industriali potesse consultarsi, decidere e dare una risposta. Così non fu, perché il sei febbraio fu, accompagnato dal silenzio degli imprenditori, indisponibili a discutere d’aumenti nonostante fosse noto che il salario pagato ai loro operai fosse il più basso della provincia, e lo sciopero fu immediato a partire dal 7 febbraio. Le altre leghe di meccanici e falegnami dei molini e quella dei pastai stabilirono di proclamare lo sciopero di solidarietà a partire dal 13, mentre sottoscrizioni di sostegno alla vertenza cominciavano a giungere dalla vicina Torre Annunziata attraverso la lega metallurgica con versamenti in denaro, quella dei pastai inviando carri pieni di pasta e farina e dalla stessa Camera del Lavoro guidata da Gino Alfani. E quando la lotta cominciò a farsi più aspra intervenne con sottoscrizioni e fondi propri anche la Camera del Lavoro di Scafati mentre una nuova assemblea generale a Torre Annunziata proponeva lo sciopero generale a sostegno dei compagni di Gragnano. Solo l’intervento del Segretario della Lega mugnai della cittadina in sciopero, presente alla discussione, fermò la deliberazione camerale ringraziando tutti per il loro impegno, ma invitandoli a desistere, ritenendo sufficiente il sussidio che essi davano per sostenere la lotta. Il municipio era appena uscito dall’ennesima crisi amministrativa affidando al barone Francesco Girace la funzione di pro sindaco, in attesa delle nuove elezioni di fine luglio, quando si trovò coinvolto in questa nuova e più violenta tensione sociale, ma stavolta, nonostante un’eroica resistenza, la vertenza prese una brutta piega. Si chiese allora di nuovo l’intervento del Sottoprefetto, al quale fu inviato il memoriale con le richieste avanzate e mandata una commissione composta di due mugnai e due pastai per spiegare le loro ragioni. Gli industriali fecero sapere di essere disponibili a trattare soltanto “.. Quando la Camera del Lavoro sarà chiusa…”, provocando nuove proteste e l’invio di telegrammi alla Confederazione del Lavoro e all’Ufficio del Lavoro contro la palese provocazione padronale. Il 20 febbraio fu tenuto un grande comizio in piazza dove presero la parola Luigi Perillo, diversi segretari di lega ed esponenti sindacali di Torre Annunziata e Napoli per informare la cittadinanza sullo stato dello sciopero. I giorni passavano senza fare nessun passo in avanti e allora gli industriali decisero di forzare la mano telefonando in Sottoprefettura e denunciando un presunto tentativo di linciaggio nei loro confronti da parte degli operai. Ma Vittorio Peri era un funzionario troppo esperto per cadere in un simile inganno: convocò dapprima il segretario della lega mugnai, Vincenzo De Rosa, dal quale seppe che nulla di quanto denunciato corrispondeva al vero, poi si recò a Gragnano facendo subito intendere al presidente dell’Associazione Industriali “che La propalazione di una simile denuncia avrebbe fatto incorrere gli autori in qualche articolo del codice penale.” Non era mai accaduto in precedenza che un Sottoprefetto avesse usato un tono così perentorio nei confronti d’imprenditori abituati da sempre ad avere le istituzioni al loro servizio e tale quindi fu l’irritazione suscitata da questa presa di posizione che l’Associazione Industriale rispose immediatamente con un ordine del giorno di protesta contro il funzionario di stato e denunciandolo al Prefetto De Seta e al Ministro dell’Interno quale “violatore della libertà dei cittadini.”. Non contenti si rivolsero al deputato del collegio, Alfonso Fusco, affinché a sua volta intervenisse per far allontanare dal circondario quel funzionario amico dei sovversivi.
Il 7 marzo, dopo più di un mese di lotta senza che se ne intravedesse la fine, una parte degli operai rientrò nelle fabbriche provocando sconcerto e rabbia tra quanti invece erano decisi ad andare fino in fondo. I più accesi tentarono di impedire la ripresa del lavoro, ma l’immediato intervento della forza pubblica riuscì a proteggere “energicamente la libertà del lavoro, eseguendo diversi arresti e tenendo a rispettabile distanza gli scioperanti dagli opifici in attività.”. Il 18 marzo anche gli ultimi irriducibili furono costretti a riprendere il lavoro, strappando unicamente l’impegno ad una successiva apertura della trattativa da parte degli industriali.
Nonostante la pesante sconfitta, la Camera del Lavoro di Gragnano non andò in crisi, almeno non subito, riuscendo a ricompattare la sue fila e ad organizzare la Festa del Lavoro, la prima della sua storia. Quel giorno di festa del 1910 duemila persone si erano mosse da Piazza Ferrovia con tanti giovani, musica e bandiere percorrendo Via Giovanni Della Rocca, via San marco, Trivione, Conceria, fino a Piazza san leone dove si tenne il comizio. Nel lungo, allegro, variegato corteo, aveva sfilato la banda musicale di Scanzano, la sezione giovanile e le leghe dei vetturini e metalmeccanici di Castellammare. Nel pomeriggio la replica nella città termale con tanto di corteo e comizio finale in villa comunale con oratori i segretari delle Camere del Lavoro di Gragnano e Torre Annunziata.
Intanto gli industriali, pur uscendo vincitori dallo scontro, non trovavano pace: quella Camera del Lavoro toglieva loro il sonno, tremavano al pensiero di un nuovo sciopero e quella festa del primo maggio, con le sue bandiere, i suoi canti popolari, tutti quei sindacalisti venuti da fuori a rovinare i loro operai con quelle strane idee d’uguaglianza, diritti, libertà, solidarietà, giustizia sociale, rivendicazioni economiche, non era fatta per rasserenarli. Bisognava fare qualcosa e subito, quindi in accordo con il partito clericale costituirono un’Unione cattolica operaia verniciata di principi democratico cristiani con l’unico scopo di strappare il maggior numero possibile di operai alla Camera del Lavoro, ma fallendo miseramente nel loro intento.

La crisi nell’organizzazione operaia era in ogni modo alle porte, ma non ne conosciamo i motivi: forse la stessa sconfitta dopo quei due mesi di furiosa battaglia di febbraio marzo 1910, forse una certa stanchezza del suo segretario generale, Luigi Perillo che lo portarono alle dimissioni o forse se ne andò preso dal suo lavoro di ferroviere nel compartimento di Salerno. Di certo la Camera del Lavoro di Gragnano dopo il canto del cigno della grande manifestazione del primo maggio, non continuò a godere di buona salute e andò, se non in coma, sicuramente in una sorta di dormiveglia. Sappiamo della partecipazione al Convegno Meridionale delle organizzazioni proletarie per costituire la Federazione Meridionale tenutosi presso la Borsa del Lavoro di Napoli, il 4 e 5 dicembre di quell’anno: quaranta delegati della Campania, della Puglia e della Basilicata in rappresentanza di circa 60mila lavoratori per discutere della questione meridionale alla presenza del deputato napoletano Ettore Cicciotti che tenne la relazione sull’argomento, mentre ad aprire i lavori fu il Segretario Generale della Borsa di Napoli, Oreste Gentile. Così com’era presente con le sue bandiere alla Festa del Lavoro del maggio 1911 tenutosi a Castellammare, dove intanto rifioriva una nuova Camera del Lavoro. In tutto il 1912 non si ha nessuna notizia di scioperi e manifestazioni e legittimo sarebbe credere ad una sua scomparsa, quando dall’Avanti! del 10 settembre ricaviamo la partecipazione di Francesco Mosca e Baldassare Scarpato, quali delegati della lega pastai di Gragnano al I Convegno Meridionale tra i lavoratori dell’Arte Bianca tenuto due giorni prima nella sala del consiglio comunale della solita Torre Annunziata, su iniziativa del pirotecnico Gino Alfani, non a caso chiamato alla presidenza. Una relazione del Prefetto di Napoli al Ministro dell’Interno del 17 dicembre né conferma l’esistenza riportandone anche il numero d’iscritti, 290, divisi nelle sue due leghe dei mugnai (120) e pastai (170); meno di due settimane dopo, un nuovo rapporto del Prefetto ne indica anche la sede in Via Pasquale Nastri – Casa Colneci. Un certo risveglio si registrò nel 1913, probabilmente con la venuta del nuovo Segretario Generale, Beniamino Romano, combattivo capo lega dei mugnai di Torre Annunziata, trasferitosi a Gragnano per garantire un minimo d’organizzazione e di direzione ai disorientati operai organizzati nella Camera del Lavoro; è di aprile, infatti, il vittorioso sciopero in un pastificio con protagonista un giovanissimo Oreste Lizzadri, figlio di un ferroviere, fervente militante socialista Il ragazzo dopo la morte prematura del padre avvenuta per malattia nel 1911, era stato costretto ad abbandonare gli studi e a cercarsi un lavoro. Lo trovò in quello stesso pastificio dove scioperò a 17 anni, provocando con ciò la svolta decisiva della sua vita: in quegli stessi giorni, infatti, con Mario Vicinanza ed altri partecipò alla fondazione della prima sezione socialista nella storia operaia di Gragnano, ritrovandosi, quasi contemporaneamente proiettato ai vertici della lega e dirigente della Camera del Lavoro cittadina. Probabilmente ne assunse anche la direzione in prima persona per un breve periodo tra il ritorno a Torre Annunziata di Romano e il rientro di Perillo a Gragnano La sezione socialista di Gragnano contava inizialmente 40 iscritti ma quando il giovane Lizzadri e i suoi compagni si avviarono sulla strada dell’intransigenza, molti non se la sentirono di seguire questa strada, riducendosi ben presto a soli 16 iscritti.
Alla partenza di Luigi Perillo dovette seguire una fase di stasi, di vuoto politico, perché soltanto il successivo 17 settembre abbiamo notizia di Beniamino Romano quale segretario della Camera del Lavoro, attraverso una corrispondenza del Mattino dalla cittadina famosa nel mondo per il suo buon vino e l’ottima pasta di grano duro. L’occasione è una pubblica assemblea nella sala del consiglio comunale, alla quale egli partecipa, per discutere di un progetto per realizzare nuove case operaie sul suolo dell’antico convento del Trivione, presentato dalla giunta guidata dal barone Francesco Girace. La riunione si concluse con la nomina da parte del sindaco di una commissione composta di tre operai e tre rappresentanti del comune per studiare tempi e modi di realizzazione dell’opera. Pochi giorni dopo un comizio nella Camera del Lavoro di Gragnano a favore della candidatura nelle elezioni politiche del 26 ottobre di Mario Bianchi, l’esponente intransigente del Circolo Carlo Marx guidato da Amedeo Bordiga, riportò di nuovo alla ribalta il neo segretario dell’organizzazione economica locale. Tra gli oratori, oltre a Romano, ci furono Bordiga e la sua giovane compagna, Ortensia De Meo suscitando grande entusiasmo tra i presenti.
Il 1913 si chiuderà con un nuovo forte sciopero in dicembre, a sostegno e in solidarietà di un capo operaio ingiustamente licenziato, ancora una volta alla Garofalo. Il 20 dicembre, a sostenere i combattivi operai, vennero nella cittadina dei Monti Lattari la compagna di Bordiga, la coriacea Ortensia De Meo e Mario Bianchi, ma gli industriali avevano ben altre armi per piegare la resistenza dei lavoratori e primo fra tutti l’uso di crumiri di professione provenienti da Torre Annunziata. Per essere certo che nulla potesse accadere, Alfonso Garofalo ordinò ai crumiri di dormire in fabbrica e di uscire mai né di giorno, né di notte. Ma la nostalgia della famiglia può giocare brutti scherzi, così alle quattro del mattino della domenica del 19 gennaio il gruppo di torresi uscì avviandosi verso la stazione ferroviaria certi di farla franca. Avvistati da un gruppo di scioperanti, furono avvicinati, nacque una discussione animata presto tracimata in rissa e infine in un vero e proprio conflitto a fuoco. Non ci furono feriti, anzi, benché armati furono ridotti a mal partito dal nutrito gruppo di scioperanti armati di randelli e costretti comunque a fuggire.
Lo sciopero si chiuderà il 29 gennaio con l’intervento del commissario di polizia, Buschi, chiamato a mediare tra le parti su interessamento dello stesso Prefetto. Se tutto era iniziato a seguito del licenziamento di un caporale, ritenuto ingiustificato dagli operai e per questo scesi in sciopero per solidarietà con il compagno, ben presto questo si era trasformato in uno sciopero politico, di adesione alla linea oltranzista assunta dal PSI in campo nazionale e di resistenza all’oppressione della borghesia, a riprova dell’influenza determinata dalla svolta impressa dal giovane Lizzadri, nuovo leader attestato sulla linea dell’intransigenza. Non altrimenti si spiega la formidabile prova di forza dimostrata dai lavoratori, capaci di scioperare per ben due mesi, vivere un conflitto a fuoco, per fortuna senza spargimento di sangue, subire le angherie e le prepotenze delle forze dell’ordine al servizio del padrone, riuscendo infine a piegare la resistenza di Alfonso Garofalo obbligandolo a riassumere il caporale.
Bisognerà poi attendere il 1915 per ritrovare nuovo combattivo entusiasmo, quando il 14 gennaio i mugnai e i pastai abbandonarono in massa i loro opifici per partecipare ad un’assemblea in cui si decideva di chiedere un aumento di salario. Dopo tre ore di discussioni sulle richieste da fare fu deciso di nominare un comitato d’agitazione. Come primo atto si recarono dal sindaco chiedendogli di farsi interprete delle ragioni operaie e di invitare gli industriali per avviare una prima discussione. Solo quattro imprenditori si presentarono alla convocazione del Primo cittadino provocando la sdegnata reazione dei lavoratori: questi diedero 24 ore di tempo per decidersi a dare una risposta, in assenza della quale avrebbero incrociato le braccia. Il Comitato d’agitazione attese inutilmente e nella serata di venerdì 15 proclamarono lo sciopero, mentre gli industriali si riunirono decidendo di arrivare, in casi estremi, alla serrata. Ma per lo sciopero non poteva esserci momento più sbagliato: l’industria napoletana durante il conflitto europeo, nel periodo della sua neutralità si trovò ad affrontare una delle sue crisi più gravi. Crisi che investì in primo luogo il settore metallurgico e metalmeccanico colpendo tra gli altri lo stesso cantiere navale di Castellammare, ma non di meno interessò l’industria delle paste alimentari, in particolare quella di Torre Annunziata e di Gragnano interessata ad un tipo di produzione di lusso esclusivamente destinato ai mercati esteri, aggravata da un decreto del 6 agosto che ne proibiva l’esportazione.
Tutto questo comportò in breve tempo un aumento considerevole della disoccupazione e il conseguente indebolimento della resistenza operaia. Non a caso i diversi scioperi di questo periodo conobbero, uno dopo l’altro, l’acre sapore della sconfitta, così come accadde nella vicina Torre Annunziata in quegli stessi giorni dove uno sciopero di braccianti fallì clamorosamente. A mediare tra le parti in lotta c’era l’antico Segretario Generale della Camera del Lavoro, Cataldo Maldera ora nelle vesti d’assessore e vice sindaco

Il ritorno di Luigi Perillo alla guida della Camera del Lavoro non modificò sostanzialmente le cose: licenziato dalle Ferrovie per aver partecipato ai moti di Napoli del 9-12 giugno 1914 – dilagati in tutta Italia a seguito dell’ennesimo eccidio proletario perpetrato ad Ancona, la domenica del 7, durante una pur turbolenta manifestazione conclusosi con un conflitto a fuoco tra anarchici e forza pubblica, provocando la morte di tre dimostranti, quattro moribondi e numerosi feriti tra cui 17 carabinieri – l’intrepido ferroviere riprese il suo posto di battaglia, tenendo nell’aprile 1915 una conferenza contro la guerra nel salone della Camera del lavoro di Gragnano e guidando, pochi giorni dopo una forte protesta popolare contro il continuo rincaro del pane e contro la dilagante disoccupazione. A conclusione di questa manifestazione, una commissione d’operai, guidati dal loro Segretario Generale, fu ricevuta dal sindaco e dalla Giunta comunale avviando con loro una serrata discussione e raggiungendo un accordo per favorire il calo del prezzo del pane e la ripresa dell’occupazione attraverso nuovi lavori pubblici. Queste iniziative furono salutate con enfasi dall’Avanti! ma provando con ciò anche quando profonda fosse stata, e in qualche modo continuava ad essere, la crisi della piccola organizzazione economica. Questa crisi rispecchiava una situazione economica la cui forza o debolezza risiedeva unicamente nella capacità produttiva del suo settore trainante: quell’arte bianca messa in ginocchio da una situazione internazionale ormai sfuggita alla capacità di governo di chi reggeva in quel momento le sorti del paese, la cui politica sembrava più tesa a risolvere l’enigma che l’attanagliava e che già da tempo la divideva tra chi era favorevole all’intervento e quanti invece propugnavano la neutralità assoluta.
Era tale lo stato di crisi a Gragnano che su 34 pastifici erano appena quattro quelli ancora aperti, mantenendo un minimo di produzione e quindi d’occupazione.

Intanto nella vicina Castellammare un grappolo di ragazzi, quasi tutti studenti, alcuni operai e qualche giovane laureato, cominciarono a raccogliersi intorno al futuro leader del Partito Comunista d’Italia, Amedeo Bordiga. Fondarono un giornale, La Voce, praticamente organo ufficiale del Circolo Socialista Rivoluzionario Intransigente, Carlo Marx, e questo diventerà ben presto il loro abituale luogo d’incontro e di discussione politica. Ricostruirono per l’ennesima volta, la sezione socialista o, per meglio dire, ridiedero linfa vitale ad un asfittico circolo giovanile trasformandolo nella temibile sezione giovanile socialista antimilitarista, vera e propria fucina di dirigenti d’altissimo spessore politico e protagonisti della nascita del partito comunista. Una relazione del Prefetto datata 3 agosto 1913 e successivi appunti ne certifica l’esistenza e la pericolosità dei suoi elementi. Oscar Gaeta, giovanissimo segretario della sezione socialista e Antonio Cecchi proveranno anche a riorganizzare una spenta Camera del Lavoro affidandone la guida all’ancor più giovane Oreste Lizzadri, che tanta buona prova di sé aveva dato negli scioperi e manifestazioni della struttura camerale e della sezione socialista della vicina Gragnano. Solo pochi confusi mesi, poi tutto sarà travolto dalla bufera della guerra e niente sarà più come prima.

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Fonti utilizzate:
Confrontare giornali e periodici dell’epoca:
l’Avanti!
La Propaganda
L’Emancipazione
Il Mattino
Roma
L’Aurora
L’Archivio Centrale di Stato (ACS)
L’Archivio Storico Comunale di Castellammare di Stabia (ASC)
Bollettino del lavoro (BUL).


Note:

  1. L’Emancipazione n° 22 del 4 giugno 1910 “ Necessità dell’organizzazione di classe”;
  2. La Propaganda n° 890 1° ottobre 1910 “Organizzazione” di Alfonso D’Orsi;
  3. Nella mia nuova e definitiva ricerca sul movimento operaio stabiese, ancora inedita, svelo il mistero di questa convulsa fase vissuta dalla Camera del Lavoro;
  4. Avanti! 19 ottobre 1910, “ Contro il rincaro dei viveri e delle pigioni” di Ignazio Esposito;
  5. L’Aurora, giornale politico amministrativo del circondario di Castellammare, anno IV, n° 16 del 4 dicembre 1910 “La nuova tattica della massoneria stabiese”;
  6. Ibidem, 18 dicembre 1910 “Ancora la massoneria stabiese”;
  7. La Propaganda n° 917 del 8-9 aprile 1911, “Leghe…tranelli”, di Alfonso D’Orsi;
  8. Avanti! 24 dicembre 1910;
  9. ACS BUL, vol.XVI, n° 4, ottobre 1911 pag. 611-612;
  10. ACS BUL, vol. 20, n° 1, luglio 1913, pag. 40;
  11. ASC: “Domanda di Esposito Ferdinando ed altri per cambiare il loro cognome in Rosa Rosa”, busta 245, inc. 8, 1892;
  12. ACS BUL vol. XVII, gennaio giugno 1912, pag. 66;
  13. ACS, DGPS “Associazioni”, busta 126, f. 416;
  14. A differenza del padre, Corso Bovio (1880 – ?) avrà un percorso politico all’insegna del trasformismo, al punto da essere espulso dal partito nel 1925 finendo poi per aderire al fascismo e dirigendo l’Ufficio corrispondenza del quotidiano Il lavoro fascista nel 1931. Cfr., Franco Andreucci – Tommaso Detti: Il Movimento Operaio Italiano…cit., Vol. 1°, pag. 392-394;