La donna inventata

La donna inventata

a cura di Giuseppe Zingone

Questo surreale scritto di Piero Girace, è stato pubblicato sul quotidiano La Stampa sera, il 21-22 luglio 1951. Lo riproponiamo al lettore, per il piacere di leggere una penna brillante come quella del nostro giornalista d’eccezione.

Giorgio De Chirico, Conversazione tra le rovine, 1927, Chester Dale Collection

L’avevo descritta in un mio racconto. Si chiamava Renata. Perché, e come era venuta fuori cotesta Renata? Passeggiavo in via del Babuino con un mio amico scultore, Sam Benes, con il quale parlavo d’arte. D’improvviso interruppi la conversazione, e mi voltai: vicino a noi una donna, vestita di bianco, aveva gli occhi neri, cupi di una tristezza immensa – poteva avere trent’anni – stava ferma e sembrava che attendesse qualcuno.
Il caldo era eccessivo: quasi non si respirava ma la donna sopportava il sole con una serenità da musulmana. Fu per me come dicono i francesi il <coup de foufre>. Me ne innamorai, là per là, perdutamente, in modo assurdo, stupidissimo. Sam mi disse <Ehi! che ti succede?>.
Non  risposi e continuai a guardare la sconosciuta come se fossi ipnotizzato.
Quando ella andò via, mi sembrò che una nube avesse coperto il sole.
La vidi il giorno seguente, ancora a via del Babuino. Poi a distanza di una settimana, sempre nella stessa strada. La pedinai. La vidi entrare in certi magazzini di mode. In breve spazio di tempo conobbi tutte le sue abitudini.
Ma non sapevo come si chiamasse. Quel nome, Renata, mi venne così, così per caso.
Passarono delle settimane. Non ebbi più la ventura di incontrarla. Dove sarà? Passarono dei mesi. Non potevo vivere senza di lei. Sono queste delle situazioni spirituali assurde.
Come si fa – mi direte – a non poter vivere senza una donna che si è vista una volta sola?
La vostra logica non fa una grinza avete ragione, ragionissima. Ma io, vi ripeto, non potevo più vivere.
Ogni sera quando andavo a letto ella mi appariva davanti, tutta vestita di bianco, nel gran sole estivo di via del Babuino. Mi parlava perfino.
Diceva: <Sei uomo incostante. Perché non mi hai più seguita? Perché non ti decidi a rintracciarmi? Io, in fondo, non desidero altro che diventare la tua amica; ed io bada, sono una donna deliziosa, ed amo i poeti>. I suoi discorsi erano lunghi, tentatori.
Questa fu la vera ragione per cui io la evocai in un mio racconto dal titolo <La donna inventata>, che ebbe un certo successo.
Non l’avessi mai pubblicato quel racconto. Alcuni giorni dopo, mentre ero intento a scrivere nel mio studio, sento bussare alla porta. Apro, e mi vedo davanti, in carne ed ossa, <la donna inventata>. Non vestiva più di bianco. Indossava invece una elegantissima pelliccia di leopardo.
Ma gli occhi erano gli stessi, forse un po’ più cupi e tristi. Sorrise; ed il suo volto bruno si illuminò.
Disse: <Io sono Renata>. Rimasi perplesso, e non Seppi che dire. Ma ella spiegò: <Si Renata, la protagonista del vostro racconto>. La mia perplessità aumentava. Non riuscivo a nascondere il mio imbarazzo. Comunque la feci entrare nello studio.
Ella sedette sul sofà, guardò intorno, curiosa ed attenta.
– Si sta bene qui. C’è un’aria di intimità. Le offrii una sigaretta.
– Grazie. Non fumo.
– Credevo che fumaste.
– Ecco, questa è l’unica inesattezza del vostro racconto. In tutto il resto siete stato preciso, esatto, di un intuito semplicemente meraviglioso.
Era bella, ed aveva una voce calda. Quando parlava sembrava che prodigasse una carezza.
Ci fu una lunga pausa di silenzio. Mi fissò a lungo negli occhi con il suo implacabile sguardo triste.
– Dunque – dissi – sono ai vostri ordini, signorina Renata.
– Signora – corresse subito.
– Nel vostro racconto avete affermato ch’io sono una signora; ed è vero.
Da allora cominciò il romanzo.

Trascorse del tempo. Renata veniva quasi tutti i giorni da me. Avevo a poco a poco
rivelato tutto della sua vita. Non era più la donna inventata. Somigliava straordinariamente a tutte le altre donne. Gli stessi discorsi. La stessa superficialità. Né si sforzava di apparire come la protagonista del mio racconto, faceva anzi del suo meglio per farmela dimenticare anche nelle esteriorità.
Non indossava più l’abito bianco d’estate, quell’indimenticabile abito bianco che tanto dava risalto al suo viso bruno. Chissà perché!
Un giorno le dissi: – Perché non metti più l’abito bianco?
Mi rispose: – Non lo posso sopportare.
– Perché? Si può sapere perché?
Non rispondeva. Abbassò i suoi tristi occhi neri a terra, e non rispose. Preso dalla curiosità, incalzai. Sbuffò. Si infastidì. Si alzò dalla poltrona. Camminò su e giù per la stanza in preda a una viva agitazione.
A questo punto debbo dire che io non sentivo più alcuna attrazione per Renata. La realtà mi aveva profondamente deluso.
Tutto quello che io avevo immaginato di lei, inutilmente cercai di trovarlo nella sua personalità reale. La curiosità era finita. Non mi restava che l’arida monotonia della vita quotidiana; e quasi m’irritavo contro di lei, che non aveva saputo nemmeno recitare per ravvivarmi l’illusione.
– Dunque – Incalzai ancora.
– Perché non puoi sopportare l’abito bianco? Che misteri sono questi?
Renata divenne pallida: i suoi tristi occhi neri ebbero dei cupi bagliori. Si morse le labbra. Mi guardò fissa negli occhi quasi con atto di sfida.
– Davvero vuoi saperlo? – gridò. – perché non voglio somigliare alla tua <donna inventata> io sono un’altra.
Io voglio essere un’altra, capisci. Io non sono un’attrice che si adegua ai personaggi della fantasia. Ti dirò di più: ho fatto di tutto per non assomigliarle. Noi non possiamo, né vogliamo essere quello che gli altri pensano di noi. Non voglio essere altro che me stessa. Me stessa: capisci? Me stessa, sempre. Sempre.
Gridava. Poi scoppiò, d’improvviso, in un pianto dirotto. Si abbattè sul sofà, e vi rimase a lungo, scossa dai singhiozzi. Quando si calmò, prese a parlarmi con voce pacata.
Disse: Noi non ci rivedremo più. Non è possibile continuare. Tu ami i fantasmi della tua mente, e non potrai mai sopportare le creature che da essi si differenziano.
Io l’ho capito un po’ tardi; ma l’ho capito. Non c’è nulla da fare. Tu ami l’altra, <la donna inventata>, ed io per te non sono nulla. Non potrei essere mai nulla. Si alzò. Si ricompose. Si avviò verso l’uscio.
– Addio, signor poeta.
Volevo trattenerla, spiegarmi. Non me ne diede il tempo. Uscì sulle scale. Si rivolse ancora una volta indietro come nei commiati dei romanzi,
e disse con tono ironico: – Caro, serberò sempre di te un gradito ricordo!1

 

La donna inventata

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Articolo terminato il 22 Dicembre 2022


 

  1. Piero Girace, La donna inventata, in: Nuova Stampa sera, sabato 21 – domenica 22 Luglio 1951, Anno V, numero 172 pag. 3.

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