Archivi tag: pillole di cultura

Pillole di cultura: Clandestino

a cura del prof. Luigi Casale

Il clandestino è una persona che entra nello Stato (anticamente nella città) senza nessun controllo da parte dell’autorità del luogo, dove e quando questi controlli sono richiesti. Ai nostri giorni in quasi tutti gli Stati esiste l’anagrafe, il registro dei nati e dei residenti, con tutte le sue varianti (modificazione di status). Quindi il concetto della clandestinità risulta legato a certi istituti della moderna organizzazione della vita civile. La registrazione di tutti i cittadini sulla base della propria peculiare condizione, lo status (la condizione di diritto). Nati, trasferiti, residenti, presenti, ecc. con tutte le altre sfumature e differenze possibili, a seconda dei casi.
Poiché le registrazioni restano custodite nei vari Uffici dove esse “nascono”, al cittadino (anche la cittadinanza è uno di quegli status che abbiamo descritto) viene consegnata – con o senza espressa richiesta da parte sua – una patente che prova la sua registrazione nell’apposito libro, e quindi la sua particolare condizione conseguente di fatto che ha fatto sì che il suo nome risulti iscritto in quel dato libro. Di queste patenti, due sono particolarmente diffuse: la Carta d’Identità e il Passaporto. La prima da valere all’interno dello Stato, il secondo all’estero.
Ora chi non si sottomette a questo regime di registrazione o sfugge ai controlli di autenticità della sua condizione reale, è un clandestino (clam-intestinus).
Clam – siamo nella lingua latina – è “di nascosto”, e intestinus è “interno”; proprio come è interno l’intestino. Quindi clandestino etimologicamente parlando significa “colui che vive in uno Stato “all’insaputa” delle Autorità”. Cioè: entrato nello Stato in maniera “irregolare”, rispetto a regole che in questo caso sono essenzialmente le leggi dello Stato e gli accordi internazionali con gli altri Stati.
“Clandestino” – leggiamo sul vocabolario è colui che “si è introdotto segretamente nella città, nello Stato”.
Un’altra parola, mutuata dalla lingua greca (che per altro abbiamo già esaminato in questa rubrica), per indicare lo straniero è meteco. Ma il meteco è in regola con le leggi della città.
Come corollario diciamo che il contrario di “clam” è “palam” (apertamente, palesemente). Un terzo avverbio (o preposizione?) con la medesima struttura è “coram” (pubblicamente, davanti a …, in presenza di …).

Pillole di cultura: Colono

a cura del prof. Luigi Casale

Parlando di “cafone” abbiamo cercato di riportare il vocabolo nell’area di significato suo proprio, ricollocando la parola nella sfera lessicale del tema: “comportamenti linguistici”.
“Cafone” (= chi parla male una lingua) rientra quindi nella famiglia di parole che hanno per radice il vocabolo greco “φωνή (phōnē)” (= voce).
La stessa cosa abbiamo fatto poi per “villano” (= colui che risiede in villa, cioè nella residenza di campagna, la fattoria). Contrapposto ad “urbano” (= che vive nell’urbe, vale a dire in città).
Per chi non ha dimestichezza con la nomenclatura delle discipline linguistiche cercheremo di spiegare che cosa si intende per denotazione e connotazione. Una delle finalità del nostro intrattenimento è anche questa, implicita nello scopo dichiarato di rendere la lingua più trasparente. Cioè quella di offrire una conoscenza più approfondita delle parole che usiamo. E “denotazione” e “connotazione” sono parole che usiamo, specialmente in questo tipo di discorsi.
Perciò, mentre ne spieghiamo il significato, mostriamo con esempi quali sono i fenomeni linguistici che esse indicano.
Denotazione e connotazione sono, dunque, due aspetti del significato di una parola. Due diverse possibilità di valutare il modo di significare che le parole esercitano. Il primo livello di significazione, la base del significato, è la denotazione, il secondo, diciamo l’altezza, è la connotazione. Il primo ci rimanda al referente e indica la cosa in sé; il secondo, invece, che cosa quell’oggetto rappresenta per noi. Cioè si aggiunge al significato denotativo il significato che si forma attraverso le emozioni, quando usiamo quella parola. Facciamo un esempio. Se si legge di guerra in un libro di storia, la parola “guerra” assume un certo significato; se però se ne parla in un romanzo, il significato è un po’ diverso. Così, se chi ne parla è uno che non ha mai fatta la guerra, la parola ha un significato; se invece a parlarne è una persona che ha fatto la guerra e che magari se ne sia congedato ferito e mutilato, allora quella parola, che sul piano denotativo è sempre la stessa cosa, si connota in maniera diversa, cioè significa qualche cosa di diverso per la prima o per la seconda persona.
Concludiamo allora che la denotazione della parola “guerra” è quella parte di significato comune a tutte le situazioni comunicative sopra descritte. Connotazione, invece, è quella parte di significato più soggettivo, dipendente dalla situazione circostanziata del singolo atto comunicativo in cui la parola compare, cioè tutto ciò che la parola suscita in ognuna delle persone indicate. In altre parole, come si dice in maniera più appropriata, “è un significato che dipende dall’uso”.
Perciò, la denotazione è il significato che si trova nel vocabolario.
La connotazione è il significato che una parola assume (aggiunto a quello denotativo) quando essa si trova o in una pagina di prosa o in una poesia. Ma anche quando la usa ognuno di noi, o come parlante o come ricevente, nella sua specifica e particolare situazione esistenziale. Facciamo un alto esempio. La parola “rigore” (severità), pur denotando la stessa cosa per tutti: cioè “un regime di rapporti particolarmente formalizzati e assolutamente inderogabili”, poi va a significare qualche cosa di più, e di diverso, a seconda che venga utilizzata da chi il rigore lo impone, o da chi più semplicemente lo pratica condividendolo, oppure da chi il rigore è costretto a subirlo senza condividerlo.
Attenzione! Questo comportamento dei parlanti, cioè la diversa percezione del significato delle parole per quanto riguarda la loro connotazione – nelle due funzioni: di emittenti o di riceventi – pur restando ferma la base denotativa, è uno dei motivi che, alla distanza ma progressivamente, determinano lo spostamento del significato (quello che altrove ho chiamato “scivolamento”).
Così cafone dal significato di “uno che parla male”, dopo un certo tempo è andato a significare “contadino”; e, poi “maleducato”. Rischiando di passare addirittura ad “incivile”.
Se cafone è anche – impropriamente – contadino, vediamo che cos’è “colono”.
Così finalmente potremo confrontare i tre vocaboli: cafone, villano, colono.

Colono è un sostantivo appartenente ad una famiglia di parole, che dal punto di vista strutturale e semantico, deriva dal verbo latino “colo”, che significa essenzialmente tre cose (tecnicamente si dice: ha tre accezioni); indica, infatti, tre attività umane, strettamente collegate tra loro, forse anche consequenziale l’una all’altra: 1) Insediarsi (fermarsi ad abitare); 2) Coltivare la terra; 3) Produrre (attraverso rapporti sociali e interazione col territorio) una serie di abitudini, fino a strutturarle come sistema di valori (le istituzioni) e di riti (la religione) da tramandare, esclusivo del gruppo sociale. Il culto e la cultura.
Il verbo colo, dal punto di vista morfologico, presenta questi tre temi: col-o (tema del presente); colu-i (tema del perfetto); cult-um (tema del supino).
Tra le parole latine che contengono la radice di colo troviamo: incola [it.: “inquilino”] (abitante), colonia (città fondata da una città-madre), colonus (abitante di una colonia), cultor (coltivatore), cultura (coltivazione), cultus [sost.] (coltivazione), cultus [agg.] (coltivato). Inoltre l’ètimo “cola” compare col significato di “abitante” anche come suffisso di parole composte, sia in latino che in italiano.
Tra le parole italiane segnaliamo: coltura e cultura, colto, culto, coltivato, agricoltura, oltre a colonia, colono, cultore, inquilino, già richiamate.
Il resto – per quanto riguarda la modificazione di significato – lo fa la metafora.

Pillole di cultura: Computer

a cura del prof. Luigi Casale

Molte delle parole che usiamo sono di importazione. Ma fino a che punto?
Prendiamo in considerazione il termine computer. Prima di arrivare a computer siamo passati per calcolatrice, poi calcolatore, e ancora per elaboratore, e cervello elettronico; finalmente prima di chiamarlo PC (personal computer), ci siamo fermati per qualche anno a computer. E mi fermo qui, perché tutto quello che è venuto dopo è rimasto fuori dalla mia portata, e quindi fuori dalla mia tasca. Personalmente mi sono fermato al portatile (il PC), e non mi sono ancora adattato al tascabile.
“Computer” passa per parola inglese. Certamente è una voce del lessico inglese, ma non è di origine anglo-sassone, in quanto fu importata sull’Isola dalla Francia. Come tante altre, nella stessa determinata epoca storica. E la Francia – si sa – è di lingua romanza, cioè, come l’Italia la Spagna e il Portogallo, ha una lingua che deriva dal latino.
“Compter” e “conter” sono verbi francesi e derivano dall’unico verbo latino computare. Essi corrispondono in italiano, uno a “contare”, l’altro a “raccontare”. Matematica e italiano. Ragione e sentimento. Certezze e fantasie. Se vogliamo riferirci agli schemi scolastici. E ancora: scientifico e classico, scienze esatte e scienze umane. E qui rischiamo di non finirla più. Col pericolo di aprire la vexata quaestio, la eterna controversa, la tormentata questione. Che, stando alla scelta linguistica, desumibile dalla origine etimologica del verbo “computare”, sembrerebbe che i Romani avessero superato o probabilmente mai assolutamente sollevata. Se è vero che l’originario latino “computare” significa esattamente le due cose, indifferentemente. Infatti computare è formato da cum+putare. Puto è il verbo che ha alla radice l’idea che noi esprimiamo col verbo re-putare (ritenere, stimare, valutare) rafforzata dalla preposizione cum (insieme), che indica la complessità del giudizio o più probabilmente la molteplicità delle soluzioni possibili.
Computare quindi contare e calcolare; ma anche leggere e raccontare. In ultima analisi “valutare attentamente e giudicare”.
Ma per restare dentro la lingua italiana che a noi, parlati competenti, più facilmente potrà mostrare l’evidenza di certe comparazioni semantiche, (cioè, ci consente più agevolmente di raggiungere la sospirata trasparenza) vediamo quante parole – e in quale area semantica si trovano – derivano dal verbo computare (o compitare, una variante che col tempo si è specializzata, spostandosi di significato pur restando all’interno della stessa area semantica).
Oltre ai generici “contare” e “conto”, vi sono computisteria, contabile, contabilità. Mentre compitare (che va a significare: leggere in maniera sostenuta puntualizzando sillaba per sillaba) contempla “compito” e “compitazione”, e accoglie nella sua specifica area semantica anche “racconto”.
Per finire una spiegazione anche della parola “calcolare” che noi usiamo come corrispondente del latino “computare”. Calcolare deriva da calculum, che significa pietruzza o più esattamente “piccolo calcare”. (Proprio come i calcoli della cistifellea!)
Perciò calcolare nasconde la prima idea del computer, cioè un ragionare con l’aiuto di un “mezzo materiale”, direi quasi meccanico, le pietruzze. Il pallottoliere primitivo. La prima macchina calcolatrice. Il primo cervello artificiale, a cui affidare la memoria delle primitive operazioni di calcolo aritmetico.

L.C.

 

 

Pillole di cultura: Crisi

a cura del prof. Luigi Casale

Quante volte al giorno, almeno di questi tempi, sentiamo o usiamo la parola crisi?
E, poiché ci riferiamo al delicato momento che sta attraversando l’economia nazionale e quella mondiale, l’avvertiamo come una maledizione. Ma di crisi si parla anche in altri campi, non solo in quello dell’economia. La salute, l’umore personale, le relazioni sociali, tutto è soggetto a crisi. Inoltre di punto critico di parla anche a proposito dei fenomeni naturali della fisica e della chimica.
Ora scopriamo però che la parola greca κρίσις, da cui proviene la parola italiana “crisi”, significa: separazione, scelta, e, di conseguenza, giudizio o sentenza.
Κρίνω, infatti, il verbo all’origine di queste parole, significa appunto: distinguo, scevero, separo, e giudico.
E l’aggettivo κριτικός significa “adatto a giudicare”, “proprio del giudice”.
Dallo stesso verbo deriva anche υποκριτής (attore, simulatore) da cui la parola italiana “ipocrita”; ma questa è andata a significare tutt’altra cosa.
Adesso si spiegano anche i significati di parole italiane come “criterio” (regola di giudizio) e “crivello” (strumento di separazione di particelle di diversa dimensione).

L.C.

 

 

 

Pillole di cultura: Cuccetelle e scazzuòppoli

a cura del prof. Luigi Casale

Talvolta sembro straniero tra la mia gente. E non perché, in qualità di emigrante ogni volta che torno sono sempre di meno le persone di mia conoscenza e tante, tantissime, quelle che non avevo mai viste; o anche perché rientrando non ne riconosca più la lingua. Anzi proprio per aver vissuto lontano lunga parte della vita mi accorgo di conservare un patrimonio di parole che ormai sembrano perdute dai miei paesani.
Ricordo che da ragazzo quando la mamma faceva la pasta in casa – e a casa nostra capitava spesso: qualche volta se ne offriva anche alle zie e alle stesse sue commarelle – noi, il tipo più diffusa, le cuccetelle, le chiamavamo proprio cuccetelle. E così la famiglia della nonna da cui forse ci veniva questa denominazione di questa pasta, semplice da prodursi, ma che richiedeva tuttavia una grande abilità che solo il tempo e la pratica potevano fornire.
Si affusolava l’impasto (solo semola di grano duro doppio zero che noi compravamo da Cutigniello – Ditta Molino e Pastificio Gallo – e acqua tiepida), in spessi cordoni: si tagliavano in pezzettini questi cilindri allungati, i quali, nello stesso tempo che la lama del coltello separava, venivano resi a forma di piccoli cubi: il tempo di una leggera stagionatura, ed ecco che, schiacciati e adattati sulla estremità del pollice, e … u vi’ lloco! … a cuccetella era pronta da poggiare sul panno bianco accanto alle altre fino a farne uno o due chili a seconda della necessità: più spesso la minima quantità giusto per la cottura giornaliera della famiglia.

cuccetelle

Le cuccetelle del “Casale”

 

Tante piccole cucce (crani, teste, pelate), perciò cuccetelle, distese sulla tovaglia, il tempo che si asciugassero.
[Di mio padre che dai venti anni in su fu calvo, in famiglia si diceva scherzosamente e simpaticamente che aveva la cuccia]. Perciò oggi che anche la lingua napoletana si è appiattita sul quella toscana, le cuccetelle si direbbero, tutt’al più, cappelletti. Ma quello che non capisco… perché orecchiette?
E poiché “cuccetelle” non solo si chiamavano nella nostra famiglia, ma anche presso i vicini di casa, e – suppongo – così in tutta la città, allora io continuo chiamarle cuccetelle, anche se non l’ho mai trovato scritto sulle confezioni in commercio.
Quanto all’etimologia della parola, l’ipotesi è la seguente. Cuccetelle diminutivo di cuccia (testa rasata); cuccia da coccia, a sua volta come metafora, dal latino cochlea (conchiglia).
La stessa cosa mi capita con la parola “scazzuòppoli” con cui noi chiamavamo gli gnocchi, pur sapendo che molti li chiamavano strangulaprieviti.
Anche quest’ultimo termine mi sembra d’importazione. Allora, metafora per metafora, io continuerò a chiamare scazzuoppolo il piccolo manufatto di semola e farina con aggiunta di fecola di patata, senza forma definita. Mi sembra più adatto alla forma dello scazzuoppolo. Anche se poi mi presenta qualche problemuccio per ricostruirne l’etimologia.
Chi usa la parola però, attraverso alcuni passaggi analogici non ha difficoltà ad isolare alcuni tratti semantici presenti in essa. E partiamo da scazzimma: cispa. Questa è prodotta normalmente dagli occhi; ma, in quantità notevole, quando essi sono affetti da congiuntivite.
Scazzare è, almeno per noi, stuzzicare o scrostare eventuali incrostazioni o secrezioni biologiche dalle parti delicate del corpo, da cui anche il più generico scazzellare (scollare, separare, isolare), contrario di azzeccare.
Quest’ultimo termine mi costerà un ulteriore approfondimento.
Quindi se scazzimma equivale a “caccola biologica”, per analogia scazzuoppolo è il pezzetto di pasta fresca senza una sua forma determinata.

L.C.