Don Giacinto ‘O Presebbio

Don Giacinto ‘O Presebbio

di Antonio Greco

( articolo del compianto M° presepista stabiese, Antonio Greco,
pubblicato sulla rivista “il Presepe” numero 66 di giugno 1971 )

presebbio

Presepe napoletano: particolare della “Natività” (opera del M° Opera del M° Antonio Greco)

Don Giacinto “o presebbio” (scherzoso nomignolo affibbiatogli dagli amici intimi), era un modesto funzionario della R. Dogana, conduceva una modesta esistenza tra casa e ufficio. Un sigaro lo fumava volentieri, ma quando glielo offrivano, altrimenti non c’era verso che varcasse la soglia del tabaccaio.
Si imponeva un itinerario fisso tra casa e lavoro senza l’uso del tram, ma, se usciva dal suo abituale, faceva volentieri una passeggiata a fine mese verso S. Biagio dei Librai a curiosare sulle soglie dei fondachi di S. Gregorio Armeno: là spendeva tutti i risparmi di un mese 2.50 o al massimo 4 lire acquistando qualche figurina eccezionale o alcuni accessori o qualche animale finemente trattato.
Fatto l’acquisto si avviava felice verso casa e a chi bene lo conosceva, passando diceva: sono andato a comprare la mia razione di “toscani” e l’altro ammiccando al pacchetto maliziosamente di rimando diceva: “Don Giacì sempre ‘o presebbio!..”.


Giunto a casa riponeva con circospezione e accuratezza i tesori acquistati e donna Teresa (sua moglie), che aveva già intuito, sorrideva scuotendo il capo.
Ella non era patuta come il marito, ma, per amor suo, accettava benevolmente questo ingombrante pallino.
Perché non v’era angolo della loro modesta abitazione che non fosse invasa da caseggiati, ponti, ruderi, ecc. Ma, a rendere felici i due coniugi, era la gioia che manifestava il loro unico “nennillo” quando tornando dalla scuola, correva verso la vetrina che don Giacinto si era fatta costruire da un compariello falegname e incominciava a indicare i pezzi di nuovo acquisto provocando in Giacinto “’o presebbio” una profonda commozione da strappargli qualche lacrima.
Tutti quei sacrifici non erano inutili: vi era chi avrebbe fatto di quelle statuine alla sua dipartita, buon uso.
Questa passione per il presepe, era nata, si può dire, con lui. Ricordava spesso di una solenne sculacciata avuta dal nonno per il fatto che, condottolo a visitare a Natale il presepe della Certosa di S. Martino, pretendeva nientemeno che il nonno gli comprasse il presepe Cuciniello!
Aveva iniziato a costruire il suo presepe con statuine regalategli dal nonno dal costo di uno o due centesimi. Ma non appena cominciò a guadagnare, comprò una buona Natività e di lì tutto quello che era contenuto nella vetrina.
Passavano gli anni e oltre Alpe si scatenava la bufera; si parlava di guerra e a nennillo ormai grande, giunse la cartolina precetto e, dopo scarse notizie, scomparve per sempre nei deserti della Cirenaica.
Don Giacinto ne impazzì quasi. Passava delle ore davanti alla vetrina completamente assente e qualche volta lo si sentiva dire: “Nennì… (così chiamava amorevolmente Gesù Bambino) perché?…” e poi con rassegnazione aggiungeva “Forse ne avevi bisogno lassù per fare il presepe?”.
Donna Teresa se ne morì di dolore e Don Giacinto, colpito ancora nei suoi affetti, rimasto solo, chiuse la parentesi in un tragico bombardamento del settembre ’42 (non lasciava mai la vetrina durante le incursioni; si sentiva più sicuro).
Una bomba rese inabitabile lo stabile ma risparmiò la vetrina; furono murati gli ingressi e per tutti gli anni dolorosi dell’occupazione e della lenta ripresa edilizia, le statuine rimasero nella vetrina miracolosamente appiccicata al muro.
Nell’autunno del ’56, un gruppo di tecnici vennero sul posto a prendere misure e a fare calcoli e, giorni dopo, un gruppo di muratori, con scavatrici e ruspe iniziarono la demolizione del quartiere.
Si era così giunti a dicembre; per l’aria della rumorosa Napoli si sentiva l’avvicinarsi del S. Natale e il vento portava nel rimbombante cantiere i suoni di qualche zampogna. La mattina del 24, dall’alto di un’impalcatura il capomastro incitava gli operai a far presto per chiudere in attivo il cottimo. Mastro Gennaro che azionava la ruspa, lavorava di lena, ma il suo pensiero era altrove. Pensava alla famiglia nella casetta di montagna che si era costruita con le sue mani e ai numerosi figli ai quali non aveva potuto approntare il presepe nelle due ultime domeniche che era stato a casa perché troppo stanco e il sughero e il muschio fresco era rimasto nell’angolo della camera da pranzo con somma delusione per i più piccoli.
Fu un attimo… abbattuto appena un muro con la grossa ruspa, la macchina si inceppò. Mastro Gennaro scese giù imprecando e scongiurando, ma l’ultima invettiva gli rimase in gola poiché, diradato il pulviscolo apparve ai suoi occhi attoniti l’incanto di quella vetrina .
“Gesù! I pastori come li tiene don Anselmo!” (il parroco del villaggio). Fu la sola cosa che riuscì a dire e già con avide mani raccoglieva il contenuto della vetrina e deponeva in un grosso telo.
Li sistemò con accuratezza avvolgendoli con carta vecchia da parati e, assicuratosi di non aver lasciato niente si diresse nel casello del capomastro. In poche parole disse che gli si era rotta la biella della ruspa e che ormai per un paio di giorni non vi era nulla da fare.
Intascò un anticipo e saltato su un camion che a caso passava per la stazione, ebbe appena il tempo di gridare: Buon Natale! ai colleghi che già il camion partì a tutto gas. Se riusciva a prendere il treno delle 16.20, per le 23 o giù di lì, sarebbe giunto a casa.
Fu fortunato! riuscì a prendere il treno per un lieve ritardo e per tutto il tragitto fu roso dal desiderio di aprire il grosso involucro per curiosare, ma si asteneva nel timore (chissà di cosa) glieli portassero via.
Giunse alla stazioncina di arrivo che ormai la corriera era già partita e di taxi quella sera manco a parlarne!… Non si perse d’animo. Ohè non era un vecchio alpino? e giù di buona lena affrontò con il collo che portava delicatamente, i dodici, tredici chilometri di irta salita che lo separavano da casa.
Per istrada vedeva i casolari illuminati, i comignoli che fumavano e quasi provò un senso d’invidia per il fatto che il lavoro lo privava di gustare la pace di quel giorno, ma poi il pensiero era preso dalla gioia per quanto era contenuto nel grosso pacco.
Giunse a casa inaspettato e fu uno scoppio di grida e di festosi abbracci. Appena terminato le effusioni, mastro Gennaro disse alla moglie: lasciami libero il grosso tavolo di cucina e apparecchia su quello della tavola da pranzo. Non importa se è un po’ fredda. Sciolse i legacci che teneva il telo e tenendo lontani i bimbi più invadenti tra lo stupore di tutta la famiglia mise alla luce il contenuto.
“Capperi, sono più belli di quelli della chiesa, esclamarono in coro! …Peccato che non c’è tempo di fare il presepe disse don Gennaro ma poi preso dall’entusiasmo, impugnò il martello e, rivolto ai ragazzi: “Su di lena, passatemi il sughero e i chiodi” e, qui avvenne il prodigio, i sugheri si modellavano docili nel formare roccia, il muschio si incastrava negli interstizi e i rovi si collocavano nei posti più consoni.
Dal grosso telo si erse un vecchio circasso che, agitando il bastone dal pomo di avorio incominciò a vociare e ad incitare: su all’opera abbiamo oziato abbastanza… Rispose prontamente la lavandaia che cominciò a spolverare i vestiti e subito gli zampognari diedero un accordo agli strumenti e in quella baraonda e in quel frettoloso approntarsi perché tutti erano consci del gran ruolo che lo aspettava, felici per il fatto di ritornare ai vecchi tempi, li rendeva emozionantissimi ed irrequieti ma la voce roboante del vecchio circasso ebbe il sopravvento ed ognuno si aggiustò il suo cesto e riordinò gli abiti. “Capperi, capperi gridava il circasso si fa tardi e rivolto al vecchio oriolo”Ti prego arresta un po’ le lancette, solo per due minuti”. Rispose acida la lancetta “neppure per sogno! Non sai che stasera il mondo aspetta il REDENTORE? Proprio stasera non posso” e continuò imperterrito il suo monotono tic, tac…
L’opera era quasi completa. Vi fu un po’ di trambusto: il grosso oste, quasi litigava col legnaiolo e la procidana fece le boccacce alla vecchia filatrice che l’aveva urtata, ma poi tutti presero impettiti il loro posto. Le pecorelle si avviarono verso la capanna accompagnate dagli zampognari e il più piccolo dei figli di mastro Gennaro, Giacinto, (perché cosa strana si chiamava come il nostro eroe) tra la commozione degli astanti, pose il divin Pargoletto nella culla. Poco importava che le lancette segnavano le 12.20 e che la S. Messa era già cominciata, Gesù Bambino sorrideva e benediceva dalla mangiatoia, e don Giacinto ”o presebbio” sorrideva dall’alto dei cieli, perché ormai aveva un degno erede… un patuto di buona lega.

Un pensiero su “Don Giacinto ‘O Presebbio

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *