Pillole di cultura: Marmellata

a cura del prof. Luigi Casale

Le parole sono come le ciliegie: una tira l’altra. E qui nel discorso entrano a proposito anche le ciliegie. Veramente. Infatti oggi ho in mente di parlarvi di “marmellata”.
Subito la parola marmellata mi ha rimandato a “confettura”, questa a “confetti”, e da quest’ultima sono giunto al verbo latino “conficio”.
La maggior parte dei produttori di marmellata (la conserva alimentare a base di frutta preparata con l’aggiunta di sostanze zuccherine) indica sui vasetti della dolce e proverbiale leccornìa la definizione di “confettura”. Quasi che marmellata fosse un termine regionale, da lessico familiare. Convinti che confettura sia più adatto alla denominazione della categoria merceologica per i risvolti giuridici, normativi e commerciali della comunicazione. Eppure c’è stato un tempo in cui passava l’idea – non so fino a che punto corrispondente alla realtà dei fatti – che la marmellata fosse un prodotto diverso dalla confettura. Diverso per qualità, per prezzo, e per lo stesso processo di preparazione del prodotto finale. Ma quali che fossero i referenti reali delle due parole, a noi interessano i significati, le accezioni, la loro formazione e la loro storia.
Marmellata è di origine portoghese (marmelada) e significa “confettura di marmelo (mela cotogna)”. Perciò “cotognata” è la traduzione puntuale, precisa, della parola “marmelada”. E’ strano, ma anche da noi, in Italia, l’unica marmellata che prenda il nome dalla frutta utilizzata è la “cotognata”. Della cotognata oggi ci è rimasto solo un nostalgico ricordo. Poi, il termine d’importazione portoghese è stato applicato per estensione a tutte le altre “marmellate”, o meglio, confetture, per chiamarle col termine generico.
Così “marmellata”, pur significando “cotognata”, si è esteso a tutte le confetture fatte con ogni tipo di frutta. Sempre nella lingua portoghese la fabbrica di marmellata si chiama “confeitaria”.
Non è escluso tuttavia che la seconda parte delle due parole portoghesi: “marmelata” (-melata) e “marmelo” (-melo), abbiano a che fare col miele (parola di provenienza greca, e poi latina, diffusa nell’area mediterranea). E questo spiegherebbe, da una parte, il modo più antico – caduto in disuso con la diffusione dello zucchero – di preparare le conserve di frutta; dall’altra, l’eventuale differenza, dove essa esista, tra le due qualità di prodotti.
La nostra “confettura” – come parola – viene da confetto, da cui anche “confettificio” e “confetteria”. Ma non ha nessun rapporto semantico con “zucchero”. Significa semplicemente “fatta con …”, “preparata con …”. (Anche se questi preparati rientrano tra quelli ottenuti grazie all’impiego di sostanze zuccherine.) Come già accennato, tutte queste parole hanno origine comune nel verbo latino “fàcere” (=fare). Cioè: “preparare”. Non si chiamano “faccende” anche tutti i lavori di casa svolti dalla padrona?
E qui è necessario richiamare alcune nozioni di latino che già ho avuto modo di presentare in analoghe situazioni. Il verbo fàcere al presente è “facio” (=io faccio), al perfetto è “feci” (=ho fatto), e al participio perfetto è “factum” (=fatto). Notiamo la trasformazione della vocale. Il verbo “facere” cambia la vocale radicale [la “a” di fac] non solo all’interno della sua coniugazione, ma anche quando crea verbi derivati, composti cioè col prefisso preposizionale.
A seconda della preposizione che si aggiunge come preverbio (cum=con; ad=verso; de=da [sottrazione]; e=da [provenienza]; in=verso l’interno; per=per [intensificazione]; sub=sotto; ecc,) o dell’avverbio, abbiamo i verbi: cum+facio (conficio, confeci, confectum), ad+facio (afficio, affeci, affectum), de+facio, (deficio, defeci, defectum), e+facio (efficio, effeci, effectum), in-facio (inficio, infeci, infectum), per-facio (perficio, perfeci, perfectum), sub+facio (sufficio, suffeci, sufficere); e – se il preverbio è un avverbio – i verbi bene+facio (benefacio, benefeci, benefactum), male+facio (malefacio, malefeci, malefactum). Come si vede, in essi la “a” di facio si è trasformata in “i” oppure in “e”. Questo fenomeno fonetico, tipico delle lingue indeuropee, altrove l’abbiamo chiamato apofonia, o gradazione vocalica, o Umlaut.
[Vedete, cari amici delle scuole medie, quante parole della lingua italiana trovano origine nel verbo fare, a cui difficilmente pensiamo! Affetto, confetto, difetto, effetto, infetto, perfetto, deficiente, efficiente, sufficiente, inficiare, superficie, maleficio, beneficio, opificio, panificio, ecc. ecc. Così anche confezione e confettura. Ognuna di queste parole meriterebbe un’analisi semantica particolareggiata. A voi il compito di provarvici.]
Confetto, confettificio e confettura fanno parte della famiglia. Quindi, confetto essenzialmente significa “fatto”, “preparato con diversi ingredienti”, anche se poi va a significare il prodotto finito, in questo caso i confetti. La stessa cosa vale per confettificio e confettura.

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