‘A Capa ‘e pezza…

‘A Capa ‘e pezza

di Corrado Di Martino

Mio padre, ha sempre voluto che ricevessimo il massimo e, che facessimo il massimo, per la nostra formazione. Avevo da poco superato i quattro anni, quando decise che dovevo iniziare a frequentare una scuola, un asilo d’infanzia.

Corrado (anno 1956)

Corrado (anno 1956)

Questa decisione, fu presa in accordo con mamma, già piena di cose da fare nel seguire i nonni, mia sorella e mio fratello piccolo e me. Mia sorella maggiore, di tre anni più grande, frequentava le scuole elementari; papà pensò quindi, che prendendo il suo posto all’asilo, non ci sarebbero state variazioni traumatuche sul bilancio familiare. Non so se al tempo vi fossero asili comunali, non ne ho notizia. Io fui portato dalle Suore della Congregazione Religiosa dei Sacri Cuori di Gesù e Maria in via San Bartolomeo;

detta così sembrerebbe il Paradiso,1 ma lasciatemi raccontare. Scarpe nuove, pantaloncini corti, lavati e stirati di fresco, grembiule azzuro scuro, collettino inamidato bianco e fiocco rosso completavano il mio abbigliamento. Il forte odore di cotone, mi inebriava, mi sentivo privilegiato; il fiocco rosso, fatto con una precisione maniacale, se ne occupava con scrupolo zia Vincenza,2 sembrava un papillon da futurista rivoluzionario; una cosa mi indispettiva, la maniera, a mio giudizio bizzarra, di pettinarmi i capelli, al centro del capo mi facevano una sorta di grande boccolo; nelle tempie a destra e a sinistra altri due boccoli di dimensioni ridotte, insomma tre cannoli; mancava la crema.3 Era una cosa ridicola, molto ridicola; appena avevo modo li scompigliavo tutti. Il primo giorno non fu male, fummo assegnati ad una suora; ne ricordo ancora il viso, magra dal volto segaligno e segnato da mille pieghe, il naso adunco, che sosteneva pesanti occhiali da miope ed il mento lungo. Il nome? Non lo ricordo, sarà stata la prima cosa che avrò voluto scordare. Il programma educativo, per calmare quelli più piagnucolosi, prevedeva che gli alunni grandi affiancassero quelli più giovani per giochi e canzoni:- battiam, battiam le mani, arriva il direttor…– Facemmo il giro dell’Istituto, fra le aule e la mensa; un bimbo piccolo e uno grande, un bimbo piccolo e uno grande. La scala che dall’atrio del palazzo portava all’asilo, era larga, dai gradini alti e antichi, finiva su un pianerottolo, al primo piano, che dava verso una porta a vetro smerigliato con un’immagine sacra. Di fronte, invece, alla destra dell’atrio c’era un altro ingresso, una scala appena più stretta, c’era lo studio del dottor Vollono, medico chirurgo: – che non dovevamo disturbare col nostro chiasso-. Sì, il primo giorno di scuola non fu male, ne trascorsero così altri due… Al rientro da scuola, se zio Catello ne aveva voglia (accadeva quasi sempre), acconsentiva a tenermi con lui mentre arrotolava con maestria, le cartine col tabacco comprato da un ambulante per confezionarsi le sigarette. Quel pomeriggio, stanchissimo, dopo aver lavorato per una notte intera al cantiere navale, crollò dal sonno. Fu un’ottima occasione per frugare nelle sue tasche. Scovai un’accendisigari, mi piaceva il forte odore di benzina che emanava; un bocchino in radica, pochi spiccioli, qualche “briciola di tabacco” ed una scatoletta dorata, l’oggetto attrasse immediatamente la mia attenzione. Per non irritare mia madre che mi aveva chiamato per la cena già un paio di volte, infilai la scatola in tasca e andai in cucina. La mattina dopo, giovedì, ero contentissimo, avevo questa scatola preziosa in tasca, che si aggiungeva ad un certo patrimonio accumulato: un pezzo di spago e cinque lire; mi sentivo qualcuno. Talmente ero eccitato, che trascurai perfino di scompigliarmi i capelli, la suora nel vedermi disse:- Ah, finalmente in ordine come un cristiano..!- I giochi si consumavano su una grande terrazza, poiché dalle nostre parti l’estate è sempre più lunga che altrove. Poco distante dai bambini, la monaca mentre recitava il rosario, sorvegliava tutti, nella grande confusione di un girotondo: – tutti giù per terra-, feci vedere la scatoletta al mio compagno di banco, iniziammo ad armeggiare, finché facendo scivolare il coperchio si aprì… Era una scatoletta col trucco, era una specie di bara, che aperta con lentezza lasciava intraverdere uno scheletro, il mio compagno di banco, tentò di rubarmela; con prepotenza mi disse che da quel momento sarebbe stata sua. Più piccolo di statura ma con grinta da vendere, difesi “l’oggetto prezioso”; iniziai a scalciare furiosamente il prepotente, per smettere solo, quando la monaca mise fine alla zuffa. Tentai di spiegare che quel ladruncolo voleva portar via una cosa mia, l’altro diceva che non era vero… Spiegai alla suora, che mi aveva rubato la scatoletta dorata che tentavo di difendere, mettendosela in tasca; ella la cercò, la trovò e si mise ad armeggiare a sua volta… Quella specie di bara, nelle mani di un’adulta, svelò subito il trucco. Facendo scivolare del tutto il coperchio, verso il lato aperto, lo scheletro attraverso un meccanismo a molla liberava all’altezza del bacino, un altro osso con una strana punta rossa. Veniva fuori all’improvviso!

suora

La monaca divenne una belva, il ladruncolo capito dove si andava a parare, disse che aveva preso quel gioco solo per sequestrarmelo, la furia nera si avventò su di me, senza alcuna pietà, estrasse dalle larghe tasche un righello in legno (un doppiodecimentro o cosa del genere) e me ne diede di santa ragione. Fui lasciato a piangere in un angolo, mentre veniva avvertita la superiora, colsi un attimo di distrazione di tutti, per scappare; scesi le scale a fatica, alte e antiche, ed astutamente (ma forse era troppo tentare immediatamente il percorso fino a casa dei nonni da solo) mi nascosi nel portone del dottor Vollono, che era stato lasciato aperto da un suo assistito, lo socchiusi; le monache mi cercarono per lungo tempo, ovviamente senza risultati. Appena placate le acque tornai a casa da solo, zia Vincenza nel vedermi continuava a farsi il segno della croce: – ma comm’he fatte a venì sulo tu, t’è venuto a piglia’ Catiello..?- Mia mamma, con un diavolo per capello era già pronta a darmi il resto di quanto già preso, che si accorse con terrore che ero pieno di lividi. Oggi la vedeste come è minuta e fragile, un commovente scricciolo di donna. Risoluta, smise i panni di casa in un secondo, e mi riportò dalle monache… Per tutta la strada piansi a dirotto perché non volevo tornare nelle grinfie di quella megera, mamma mi trascinava con forza, e fu questo trantran da Vico Salvati numero 3, a Via San Bartolomeo numero 46. Giunti a scuola, mamma fu accolta con cordialità dalla Madre Superiora, le mostrò i lividi che andavano ben oltre il visibile (ne avevo perfino sulla schiena), fu convocata la monaca, che mostrò il corpo del reato sequestrato, aggiungendo però di essere stata pietosa nel punirmi avendo finto di sculacciarmi con un giornale arrotolato, così solo per lezione figurativa; toh! Guarda caso, lo aveva ancora in tasca… Volò qualche parola grossa e, tanti, tanti schiaffi. Quando liberarono la suora dalle mani di mia madre, il volto arrossato aveva perso la arrogante acredine con cui guardava le persone, il soggolo era strappato, gli occhiali le si erano rotti. Ormai protetta dalle consorelle accorse in aiuto, ebbe l’ardire di dire: – ecco come volete insegnare ai vostri figli..!- e mia madre: – ‘mparatelle primma a farl”e figlie, capa ‘e pezza..! Era il quattro di ottobre del 1956, la mia carriera scolastica ebbe una pausa forzata.

p.s.: Mia madre, non avrebbe voluto che pubblicassi questa storia, ma è così lontana nel tempo, che resta solo un episodio insolito da condividere con le mie amiche ed i miei amici, formatori a qualsiasi livello, laici o religiosi, che svolgono con grande serietà e amore la missione di educatore.

Note:

  1. desidero precisare che la Congregazione dei Sacri Cuori di Gesù e Maria, nulla ha a che vedere con quanto è successo e descritto in questo racconto. L’impegno delle Suore e dell’intero Ordine è riconosciuto da me per primo, come fondante e profondamente educativo, nonostante il piccolo incidente narrato
  2. ho già detto di lei in altri racconti
  3. mi dotarono anche di una “panierina” con all’interno una ciotola in alluminio, un piatto in alluminio, un bicchiere in alluminio, delle posate, un tovagliolo ed una cotognata di mele. Pongo tutto ciò nelle note a margine perché è un altro particolare che non amo ricordare

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