senza uscita

Una strada senza uscita

Una strada senza uscita

di Giuseppe Zingone

Senza uscita

Senza uscita

È vero le strade portano in molti luoghi, ma anche da nessuna parte, alcune di queste sono chiamate vicoli ciechi, non v’è luce oltre. Sono i nostri passi che vi si dirigono più o meno velocemente. In questi larghi corridoi incontriamo quella che sarà la nostra vita.
Una volta li ho visti là, accucciati sui gradini della Parrocchia della Pace, vicini ad una strada che sarà molto più di una maestra di vita, stridevano i loro corpi spigolosi rispetto al piatto gradino dove sedevano, le loro ossa visibilmente ispide sotto la pelle erano uno scappellotto alla forza di gravità e alla vita, cercavano attenzione e rifugio dalle grandi miserie, da colpe non proprie che sembravano attrarre come calamite.

Erano affettuosi tra loro Mario e Giancarlo, si assistevano a vicenda, si amavano, il più piccolo l’ombra silenziosa e attenta del fratello maggiore, simpatici poi nei loro cenci a volte sudici, grandi due-tre misure in più rispetto alla loro taglia, sembravano batacchi in attesa di far risuonare le campane ondeggianti dei propri indumenti; qualche livido bluastro sparso qua e là sbucava stampato come titoli di prima pagina su un giornale, testimone di una vita di strada faticosa, violenta, dove la bontà non appariva quasi mai e non a loro.
Il portone della Parrocchia, finalmente si apre e il grande stanzone li ingoia nel suo stomaco semibuio fatto di ombre, di ceri, di incensi, odori intensi che sanno di antico, di primordiale; hanno trovato tra i santi e le Madonne quella famiglia e quel soccorso, che la vita naturale gli ha precluso, sgambettano e corrono e come tarli scricchiolanti saltano tra i banchi della chiesa, pronti ad una partita a calcio balilla, come lesti e sempre pronti a difendersi e a litigare.
I genitori quasi sempre ebbri, avevano caricato delle proprie responsabilità, la vita ormai in declino della nonna dei bambini, la quale provvedeva ai miseri pasti e a qualche bottiglia di vino prostituendosi; Ecco così sono venuti su i fratellini del “marciapiede” che del resto il Centro Antico non aveva ancora conosciuti.
Un giorno ce li trovammo davanti con le arcate sopraccigliari squarciate e ricucite, che macabro spettacolo e che pena, gli assistenti sociali del Comune, decretarono allora di togliere le due piccole vittime a quei poveri disgraziati.
Successivamente, l’opera pia di Suor Giovanna, che credo abbia levigato diversi scalini nei palazzi del mio quartiere, portò uno zefiro di ossigeno a questi miseri figli di Dio, che dunque rimasero lì dove andavano a coricarsi la sera.
Il mio Parroco, mi raccontò che nel trascorso del padre di Giancarlo e Mario, faceva bella mostra di sé, un primo anno di medicina, che abbandonò prima di sposare la moglie. A distanza di anni gli piacque cimentarsi nelle basilari arti dei figli di Esculapio, ma a crudo sulla pelle dei figli e con mezzi di fortuna; anche qui la strada stavolta provvida di batteri divenuti anticorpi nelle viscere dei due fratelli, non permise una tragedia, anzi, agì sulle vistose ferite, da antibiotico naturale.
Dodici anni e tanta strada tra gli uomini quella che poi intercorse e quindi mi capitava di vederli assai raramente, il loro riconoscermi ancora e salutarmi mi faceva piacere, era segno di ricordi di vite che in passato si erano incrociate, ma ahimè, una volta vedevo Mario e una volta vedevo il piccolo Giancarlo.
L’estate scorsa a Castellammare era il primo di Agosto, insieme con mia moglie sedevamo su quella gelida e passionale ringhiera del lungomare, che ancora oggi coccola molti giovani stabiesi e fu un attimo, Mario mi riconobbe e mi corse incontro, avevo lasciato un ragazzo ritrovavo un uomo, due loschi giovinastri facevano brutta mostra di sé, al suo fianco, mi parlò di una vita sbagliata, piena di errori, della ferrea volontà di riabilitarsi e lavorare, ma doveva attendere che il “piccolo” Giancarlo uscisse di prigione per portarlo via da tutto quel lerciume.
Lo vidi allontanarsi per l’ultima volta e mi parve già morto, il giorno 2 Agosto, con la mia famiglia ripartii per Roma, mia sorella mi raccontò al telefono che Mario Calvo detto “ ‘o Vichingo ”, era morto a soli 28 anni per un incidente stradale, circa una settimana dopo il nostro incontro, il tempo di un saluto.
Sono certamente pochi gli occhi che si sono bagnati, non sarà mancata qualche maledizione sul tuo feretro mentre percorrevi la strada del tramonto degli uomini; ma sono certo che lacrime silenziose siano cadute sul cuscino di una cella di prigione e vengono custodite come quelle reliquie dei santi che tanto vi stupivano da bambini. Buon viaggio ragazzi!

29 Settembre 2014

Giuseppe Zingone.

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