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Pillole di cultura: Carusiello

a cura del prof. Luigi Casale

Non so se ci avete fatto caso: da qualche tempo alla radio e alla televisione stanno pubblicizzando il ritorno di Carosello.
Per la maggior parte di noi, il Carosello è quella trasmissione televisiva, abbastanza corta, diremmo quasi uno spettacolo, in cui mediante dei brevi filmati dalla durata di tre o quattro minuti le agenzia di pubblicità presentano dei marchi o dei prodotti. In altre parole si tratta di una rassegna di sette o otto scenette a sostegno della pubblicità di prodotti di marca. Non so se per “ritorno del Carosello” deve intendersi il ripristino di un modo di fare pubblicità applicato alle nuove esigenze, oppure una rivisitazione antologica dei filmetti d’epoca, con i loro personaggi, i loro eroi, i loro prodotti.
Ma che cosa significa la parola carosello? O, che cosa indicava questa parola prima che la televisione la utilizzasse per l’intervallo di pubblicità tra il telegiornale della sera e le trasmissioni per gli adulti della serata televisiva, quando c’era un unico canale?
Oggi “carosello” è la storica giostra dei carabinieri a cavallo nell’ippodromo di piazza di Siena di Villa Borghese a Roma. Ed è, per analogia, il turbinio di vetture della polizia o degli stessi carabinieri quando si danno all’inseguimento di vetture sospette.
Negli anni ’50, uno dei primi film a colori in cui si rappresentava attraverso una serie di canzoni la vita animata del popolo napoletano, si chiamava appunto Carosello Napoletano (1954). Dove, si sovrapponeva alla metafora della colorata vivacità del popolo la sequela delle canzoni che la rappresentavano e la sublimavano. Oggi si direbbe una commedia musicale. Per cui non si capisce se il “carosello” doveva essere la vita movimentata e avventurosa oppure la rassegna delle canzoni nelle quali essa veniva sintetizzata.

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Per lungo tempo si era creduto che la parola fosse di origine straniera. Forse francese: “carrousel”, che indica la giostra sfrenata di cavalli o di altri veicoli in un’area circoscritta; perciò come tale la si considerò derivata dal latino carru(m) (carretto) o, meglio ancora, currus (carro). Semplicemente perché le parole si assomigliavano; e anche i significati in qualche modo, ché nell’uno e nell’altro caso rimandavano ai carri.
Ma non si era preso in considerazione né l’area di diffusione della parola, né la sua storia legata a manifestazioni praticate (e perciò presenti) in certe realtà sociali.
Fu Benedetto Croce che mise in discussione la ricostruzione fatta da W. Meyer-Lübke nel Romanisches Etymologisches Wörterbuch (REW) giungendo ad altra conclusione, riconosciuta ormai anche dagli stessi dizionari francesi.
(Vedi: Dictionnaire de la langue française – Le Robert pour tous – [1994], secondo il quale “carosello “ è una voce di origine napoletana: “Nome di un gioco – da “caruso”, testa rasata – nel quale i giocatori si lanciavano delle palle dalla forma di teste”). Ho tradotto alla meglio.
A questo proposito mi piace riportare anche il lemma “carosello” del Dizionario della lingua italiana di Devoto e Oli (Firenze 1971).
<<Carosello s. m. 1. Specie di torneo o parata di cavalieri, con vari giochi ed esercizi, introdotto a Napoli dagli Spagnoli nel sec. XVI. 2. Giostra (per divertire i ragazzi nelle fiere). …. 3. Movimento vorticoso di vetture in uno spazio limitato. …. 4. Carosello tranviario, l’anello formato dai binari a un capolinea.
[Dal napoletano carusiello “palla di creta” (equivalente a “testolina di caruso” o ragazzo) perché i cavalieri giostranti si lanciavano reciprocamente palle di creta. ]>>
Fine della citazione.

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Nel Seicento quindi si praticava a Napoli, importato dalla Spagna – come detto – ma di origine araba, il gioco delle canne o dei cavalli, in cui dei cavalieri lanciavano punte di canne o palle di creta (“i carusielli”). Ancora oggi noi chiamiamo “carusiello” un identico oggetto di creta offerto ai bambini per custodirvi le poche monete risparmiate durante la giornata (come “il porcellino” o “il kirieleison”). Quindi il carusiello è una piccola testa rapata. Ma “testa”, prima di significare capo, significa terracotta: infatti oggi chiamiamo “testa” proprio il vaso di terracotta dove coltiviamo le piante ornamentali. Quindi se il coccio di terracotta è passato a significare anche capo è solo perché già nell’antichità si producevano terrecotte a forma di capo umano (o per le statuette votive o per le urne cinerarie, oppure per conservare le immagini di persone trapassate).
Concludiamo: carusiello = vaso di terracotta dalla forma di testa rapata, da carosare o carusare (tosare), a sua volta dal latino cariosu(m) (corroso).
E rimando alla voce siciliana: “caruso” (ragazzo).
Una volta quando c’era il barbiere di quartiere all’angolo della strada tutti i ragazzi fino ad una certa età portavano il “caruso”, forse per necessità pratica (o più esattamente igienica).
Ma ancora mio padre usava il termine “scaruso” per dire che ero uscito senza aver preso il cappello.
Prima di siglare questo articolo vorrei segnalare la pagina di lettura da cui ho tratto la maggior parte di queste informazioni, diciamo: da dove ho tratto lo spunto per parlarne. L’opera è L’ETIMOLOGIA di Alberto Zamboni, Ed. Zanichelli (Bologna 1979). Basta andare a pagina 160. Con questo voglio dire ai lettori e ricordare a me stesso che non sempre quello che produco è farina del mio sacco; mentre invece è tutta mia la sensibilità, insieme ad alcune argomentazioni.

L.C.