Storia del Contratto d’area torrese stabiese (Parte II)

di Raffaele Scala

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Cantiere navale di Castellammare (foto Fontanella)

Dopo la pubblicazione dell’articolo “All’origine del contratto d’area torrese stabiese (1991 – 1994)” in questo secondo capitolo della “Storia del Contratto d’Area torrese stabiese” conosceremo i dettagli di una piccola lotta per il potere all’interno della Cgil comprensoriale, affronteremo la tragedia dei morti di camorra che insanguinò Castellammare, compreso quello, cosiddetto eccellente, del consigliere comunale del PDS, Sebastiano Corrado, la crisi infinita delle nostre industrie, i primi licenziamenti, uno dei quali portò al suicidio dell’operaio Antonio Ferrara, le lotte dei lavoratori ed infine il primo riconoscimento come area di crisi nel 1993.

Prima di lasciarvi alla lettura di questa storia vera, che si legge come un romanzo, vorrei fare un appello a chiunque possa e voglia fornire notizie e foto utili all’approfondimento dei temi qui trattati. Il vostro contributo è il benvenuto, potete contattarmi all’indirizzo e-mail: raffaele_scala@libero.it.

Capitolo secondo:

La Carta rivendicativa

Il Congresso della Cgil si chiuse con la riconferma dei gruppi dirigenti, alcuni dei quali rinnovati soltanto da pochi mesi, ma non si dormì sugli allori. Le riunioni con le diverse categorie e in particolare con la Fiom, la Fillea, la Filcams e la Funzione Pubblica erano praticamente quotidiane. Si ricostruirono le cause delle cicliche crisi di ogni singola azienda, la loro storia, i fallimenti, le possibilità di ripresa, gli eventuali finanziamenti pubblici già stanziati a favore di opere, progetti e ristrutturazioni. Si preparavano schede, si stilavano primi appunti, cercando di dare corpo a un’idea, sostanza a un progetto il cui contenuto prendeva sempre più forma e avanzava, seppure lentamente in ognuno dei dirigenti sindacali. Per dare maggiore rigore al lavoro in atto fu chiamato l’ingegnere Roberto Gerundo, un professore universitario già impegnato in passato con la Cgil napoletana. Gerundo a sua volta si avvalse di un gruppo di giovani collaboratori con i quali andò elaborando il documento finale, dandogli un respiro più ampio e meglio definendo i vari capitoli: dal piano di riassetto territoriale a quello regionale dei trasporti, con particolare riferimento alle necessità dell’area torrese stabiese. Impossibile dimenticare le lunghe estenuanti discussioni, fino a tarda ora, sulle possibilità dell’area, sul riassetto del territorio, sulle infrastrutture progettate e mai realizzate e riesumando quelle recuperabili da inserire nella piattaforma sindacale. Si individuavano i fattori di sviluppo attraverso il riassetto urbanistico, la valorizzazione dei beni artistici e ambientali, la riqualificazione dell’apparato produttivo. Alla fine ne venne fuori un elaborato di ventisei pagine, presentato ufficialmente il 18 novembre alle forze politiche e istituzionali locali e alla stampa, presso l’Hotel Medusa di Castellammare, con tanto di premessa e capitoli

Intorno a questa nuova piattaforma lo scetticismo non mancava: troppe erano state le illusioni seguite dalle inevitabili delusioni negli anni ’80, troppi gli scioperi spesi, gli impegni assunti e non mantenuti per credere a un possibile, effettivo cambiamento. Ma la crisi industriale mordeva e gli effetti nefasti dei processi di deindustrializzazione cominciavano a farsi sentire pesantemente sulla pelle degli operai, mentre gli iscritti nelle tre circoscrizioni del collocamento dell’area torrese stabiese, diventate quattro nel 1987, con la divisione dell’area tipicamente stabiese dai comuni della penisola sorrentina, crescevano irrimediabilmente, passando dagli 89.826 del 1986 ai 111.468 registrati nel 1994.

Un’operazione ritenuta necessaria fu quella di restituire dignità alla Camera del Lavoro di Torre Annunziata, da circa un decennio ridotta a sportello di servizio, nominando un responsabile che assumesse la direzione politica della Zona torrese. Era questo uno dei tanti impegni mancati, assunti in un recente passato dalla Cgil comprensoriale e non mantenuti. C’era, infatti, chi ancora ricordava la Conferenza d’organizzazione dell’area torrese stabiese tenutasi a Castellammare il 7 novembre 1988 e dove si era deciso (…) un’assunzione di responsabilità, in primis del gruppo dirigente comprensoriale (…), come ebbe ad affermare Alfonso Natale, nella sua qualità di Responsabile organizzativo, nella relazione introduttiva a lui affidata. In realtà tutto si ridusse alla nomina di un coordinamento guidato da Andrea Fiorillo, responsabile del patronato Inca di Torre Annunziata, con due delegati di fabbrica, Cesare Ciaravola, impiegato della Dalmine e Giuseppe Maresca, operaio dell’azienda farmaceutica Ciba, poi Novartis. Un coordinamento che per oggettive difficoltà operative non ebbe mai modo di funzionare.

In quell’autunno del ’91 si aprirono subito feroci polemiche e rivendicazioni municipalistiche da parte dei dirigenti delle fabbriche e del Pds di Torre Annunziata, sul nome del nuovo segretario della Camera del Lavoro oplontina, Stanchi di subire il colonialismo da parte della vicina Castellammare, così almeno si esprimevano diversi dirigenti locali sindacali e di partito. In questa delicata fase il nuovo Segretario Generale della Cgil comprensoriale commise il suo primo gravissimo errore, mai più perdonato, quello di alimentare tra i gruppi dirigenti di Torre Annunziata, di partito e di fabbrica, la convinzione di poter scegliere autonomamente il Responsabile di Zona della Camera del Lavoro. Questi avviarono, con scrupolosa serietà, al loro interno un’estenuante trattativa, fino a restringere la rosa di nomi a un paio di nominativi e infine avanzarono allo stesso Zeno, in via informale, una prima candidatura. L’approvazione da parte del Segretario Generale autorizzò il Comitato formatosi per l’occasione a proseguire in quella direzione per la nomina finale.

Nel frattempo altri fatti accadevano: il Congresso comprensoriale della Funzione Pubblica, nella primavera del ’91, aveva sancito il cambio di guardia del Segretario Generale della categoria, dal pidiessino Giuseppe Acanfora, chiamato ad assumere un nuovo incarico a Napoli, nell’ambito della stessa organizzazione, al socialista Antonio Santomassimo. In quei mesi trascorsi a Napoli, Acanfora si era sentito come emarginato dalla categoria o forse più semplicemente non si era adeguato al suo nuovo incarico e quindi a più riprese aveva chiesto di rientrare a Castellammare. Dalla Cgil stabiese, da parte di un gruppo di compagni, nacque allora l’iniziativa di proporre il suo rientro per affidargli il nuovo incarico in discussione. Giuseppe Acanfora era originario di Pompei, zona rientrante nell’area sindacale di Torre Annunziata. Zeno si convinse ben presto che questa poteva essere effettivamente la soluzione migliore: affidare la Camera del Lavoro di Torre Annunziata a dirigenti senza nessuna esperienza di direzione sindacale, se non di ambito aziendale, poteva rappresentare un problema in più da gestire nella particolare e delicata fase in cui ci si stava muovendo per il rilancio del territorio, mentre Giuseppe Acanfora vantava una lunga esperienza di direzione nella Funzione Pubblica ed era un dirigente di provata capacità. Una volta convintosi della bontà dell’operazione, Giovanni Zeno comunicò la nuova e definitiva decisione assunta ai gruppi dirigenti di Torre Annunziata, dimentico dell’impegno che con loro aveva assunto, provocando un immediato pandemonio.

Il fatto grave accadde la sera di venerdì 13 dicembre, quando fu teso un vero e proprio agguato al Segretario generale della Cgil comprensoriale. Giovanni fu invitato a partecipare a una riunione nella sede sindacale di Torre Annunziata per chiarire le diverse posizioni. La riunione si rivelò in realtà una trappola perché, ancor prima d’iniziare una qualunque discussione, fu letteralmente aggredito e picchiato da Pasquale Popolo, il mancato responsabile della Camera del Lavoro, un dipendente comunale figlio di un carismatico dirigente locale del Pci scomparso nella primavera del 1976. Nell’aggressione furono coinvolti Alfonso Natale e Giuseppe Mogavero, i quali si erano offerti di accompagnare Zeno a Torre Annunziata perché messi in guardia da qualche sospetto. Non a caso Alfonso era un profondo conoscitore della realtà torrese e dei suoi gruppi dirigenti. I tre sindacalisti furono aggrediti dallo stesso Pasquale e da suo fratello Agostino. Al momento dell’aggressione nella Camera del Lavoro si trovavano Michele Perfetto, ex delegato sindacale della Dalmine, ora dirigente cittadino del Pds e Andrea Fiorillo, Responsabile del patronato locale dell’Inca Cgil e dotato di un certo ascendente sui compagni della sinistra di Torre Annunziata. Entrambi si trovarono a rivestire il disperato ruolo di pacieri in una situazione sfuggito a ogni controllo. Qualche giorno dopo, Agostino Popolo, consigliere provinciale del Pds, già inserito alla vigilia di quelle elezioni amministrative in una sorta di lista nera redatta dal Prefetto sui candidati dei vari partiti, rispose sulla stampa alle accuse lanciate dalla Cgil.

In realtà a provocare sono stati i vertici comprensoriali, infatti, alla carica di Segretario della Camera del Lavoro doveva essere eletto mio fratello, ma loro hanno fatto proposte alternative che non avevano il consenso della base. Antidemocratici saranno perciò Zeno e la segreteria comprensoriale. [1]

Il 14 gennaio 1992 arrivò al comune di Torre Annunziata la comunicazione della sospensione dalla Cgil del dipendente comunale, Pasquale Popolo.

Negli stessi giorni Acanfora rientrava nella segreteria comprensoriale della Funzione Pubblica e, ormai superato lo scoglio delle ostilità originate dalla mancata nomina di Pasquale Popolo e con ogni velleità, definitivamente affossata dalla inopinata aggressione a Zeno, a scavalco ricopriva anche il ruolo di segretario confederale con l’incarico di Responsabile della Zona sindacale di Torre Annunziata. Giuseppe Acanfora si mise al lavoro con l’entusiasmo dei suoi 37 anni e una gran voglia di mettersi ancora una volta alla prova. In quello stesso mese fu prodotto un documento di Lineamenti e indirizzi di quadro generale per la costituzione di una proposta di sviluppo dell’area torrese e un successivo Documento organizzativo di costituzione della Zona torrese, per dare il senso della svolta e del lavoro concreto che si intendeva svolgere su quel territorio.

Il 1992 era iniziato all’insegna della lotta operaia con i 470 dipendenti della Dalmine di Torre Annunziata, entrati in sciopero il 7 gennaio per protestare contro il pericolo della cassa integrazione e il mancato rispetto di un accordo in cui era stato previsto il rilancio dell’azienda, mentre a Castellammare continuava da mesi la protesta degli operai delle Raccorderie Meridionali. Nel 1990 l’azienda era stata ceduta dalla Falck alla Prinefin di Bergamo, un gruppo finanziario che aveva rilevato lo stabilimento di Castellammare con l’intenzione di avviare una nuova produzione passando dai raccordi in ghisa, prodotto in cui da sempre era specializzato, al vetro soffiato e agli oggetti in ceramica.

Questa riconversione non vedrà mai la luce, continuando invece a produrre raccordi per conto della Falck. Nel dicembre 1991 la mancata corresponsione della tredicesima mensilità aveva fatto precipitare la situazione provocando la reazione dei 145 lavoratori con la ripresa degli scioperi. Si mobilitarono le organizzazioni sindacali e le stesse confederazioni, consapevoli di trovarsi a fronteggiare una vertenza, la cui importanza andava oltre il mancato rispetto della paga, ma riguardava il futuro della stessa azienda, non offrendo la nuova proprietà prospettive sicure, avvolta com’era in una profonda crisi finanziaria. La richiesta d’incontro inviata al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Nino Cristofori, non trovò immediata accoglienza, provocando una più rabbiosa risposta dei lavoratori, occupando il 18 dicembre l’aula consiliare. L’intenzione era di rimanervi fino a quando non fosse giunta la convocazione da parte del governo. A sua volta, la Prinefin, dimostrando tutto il proprio disinteresse per l’azienda stabiese, rispose con l’abbandono dello stabilimento. La notizia della convocazione da parte della Presidenza del Consiglio giunse alla vigilia di Natale, ma l’incontro avutosi l’8 gennaio 1992 si rivelò interlocutorio con i rappresentanti del gruppo bergamasco venuti alla riunione soltanto per ribadire il loro progetto di riconversione industriale, da realizzare a condizione di un finanziamento da parte del ministero dell’industria, da tempo richiesto e mai ricevuto. Il sottosegretario s’impegnò, a sua volta, a seguire personalmente l’intera vicenda.[2]

A essere in crisi era l’intero apparato industriale del comprensorio come dimostrarono gli scioperi delle settimane successive, a partire dai Cmc e dall’Avis, le due aziende impegnate nel settore delle riparazioni ferroviarie, dove da tempo si parlava unicamente il linguaggio della cassa integrazione e della riduzione dell’occupazione, se non addirittura di chiusura per entrambi gli stabilimenti. Il 31 gennaio e il 13 febbraio si rivelarono due giornate campali con centinaia di lavoratori trasformati in muraglia umana per paralizzare il traffico cittadino con i loro lunghi cortei, così come si fecero di nuovo sentire i dipendenti delle Raccorderie di fronte all’ennesimo mancato impegno della Prinefin, a corto di denaro per pagare gli stipendi. Febbraio trascorse tra minacce di licenziamenti, blocchi stradali, occupazione dell’aula consiliare e manifestazioni varie da parte dei lavoratori delle tre fabbriche metalmeccaniche. A queste condizioni la proclamazione dello sciopero generale cittadino per il 6 marzo fu soltanto lo sbocco naturale di una tensione accumulata da troppo tempo, rappresentando l’avvio della mobilitazione dei lavoratori dell’area a sostegno della vertenza territoriale. A tenere il comizio finale fu Natale Forlani, segretario nazionale della Cisl.

Alcuni giorni prima il 26 febbraio, c’era stato l’omicidio di un commerciante durante una rapina e questo aveva provocato tra i cittadini uno sdegno senza precedenti, con l’immediata risposta delle organizzazioni sindacali e della stessa Ascom, portando oltre 5mila persone a partecipare ai suoi funerali il sabato successivo.  Sull’onda della protesta popolare l’associazione dei commercianti proclamò per il 4 marzo la serrata cittadina, invitando la popolazione a partecipare alla manifestazione per contrastare il fenomeno delinquenziale che stava uccidendo il commercio. Il corteo, composto da migliaia di persone, partì da via Tavernola, dov’era il negozio del commerciante Michele Cesarano, barbaramente assassinato ad appena 51 anni per essersi opposto al tentativo di rapina, snodandosi per le strade della città fino a Piazza Municipio, dove intanto era stato convocato un consiglio comunale aperto, dove una delegazione di commercianti consegnò un documento circostanziato con le varie richieste, utili secondo l’Ascom, a contrastare la criminalità diffusa e la micro delinquenza. Il documento approvato dal consiglio comunale fu consegnato al Presidente della Commissione Antimafia, Gerardo Chiaromonte.

Oltre diecimila furono invece i partecipanti allo sciopero generale del 6 marzo, rinverdendo i migliori giorni della vecchia Stalingrado del Sud, capace di riempire le strade e le piazze cittadine in una due giorni di straordinaria mobilitazione popolare contro la criminalità e la violenza quotidiana ormai insopportabile.

Si apre – ricordò il segretario comprensoriale della Cgil, Giovanni Zeno nel suo comizio in villa comunale – con lo sciopero di oggi una vertenza complessa di lungo periodo, che richiede un impegno da parte del governo, della Regione e della Provincia. E’ necessario riorganizzare per Castellammare un sistema di servizi, sanità e delle pubbliche funzioni, della viabilità, dei trasporti e dei parcheggi. Tutto, naturalmente, presuppone che tutti, lo Stato, i lavoratori, gli imprenditori, le associazioni giovanili, quelle religiose diano il massimo impegno nella lotta contro la criminalità diffusa e per la sicurezza dei cittadini. [3]

Ma contro la violenza diffusa prevaleva l’impotenza e a nulla servivano le marce di proteste, gli scioperi, le grida di dolore di quanti chiedevano una presenza più capillare dello Stato, una più rigorosa applicazione delle leggi vigenti, punizioni esemplari per quanti si macchiavano dei reati più gravi. Perfino le baby gang si facevano beffa dello Stato pestando e disarmando un poliziotto intervenuto per fermare una ventina di ragazzi intenti a lanciare pietre contro le auto che transitavano per via Bonito, sul lungomare stabiese, nella notte dell’otto marzo. All’intimazione di farla finita i giovani teppisti lo assalirono, in particolare due sedicenni continuarono a pestarlo fratturandogli il setto nasale e procurandogli diverse contusioni, scappando poi via con la pistola d’ordinanza dell’agente. [4] Un’arroganza che non si fermava di fronte a niente e a nessuno, arrivando a chiedere la tangente perfino all’impresa che doveva realizzare il palco con relativo altare da realizzare per la visita del Papa, Giovanni Paolo II prevista per il 19 marzo a Castellammare, lasciando interdetta la stessa Santa sede e provocando la sdegnata reazione dell’Osservatore Romano.

Di per sé piccoli fatti di cronaca, poca cosa rispetto a quanto stava accadendo negli ultimi anni, a quanto ancora doveva accadere. Infatti non si era ancora spenta l’eco dell’omicidio del negoziante di articoli sportivi, Michele Cesarano e della grande risposta civile data dalla città, quando, l’11 marzo, Castellammare ripiombò nel terrore con l’omicidio del consigliere comunale del Pds, Sebastiano Corrado. Figlio di un operaio comunista dei cantieri Metallurgici, da dodici anni dipendente dell’Usl 35, dove rivestiva il delicato compito di responsabile dell’economato e presiedeva la commissione d’appalto del servizio mensa, e lo smaltimento dei rifiuti e dei lavori interni all’ospedale,  Sebastiano Corrado era stato un militante del Partito Repubblicano fino al 1987, candidandosi l’anno successivo per le amministrative da indipendente per il Pci conquistando 1.200 preferenze, secondo tra gli eletti della sua lista. Il primo dei suoi due figli era Nicola Corrado, studente universitario impegnato in una associazione anticamorra e attivo militante del circolo della Sinistra Giovanile del Pds. Tre anni prima, il 31 luglio 1989, con una lettera al Presidente della Giunta Regionale della Campania, unitamente agli altri membri comunisti, aveva dato le dimissioni da consigliere dell’Usl 35 del comprensorio di Castellammare di Stabia. Tale gesto si è reso necessario per denunciare nel modo più clamoroso lo sfascio cui è giunta la gestione della sanità nella nostra zona (…).[5]

La notizia del barbaro omicidio conquistò immediatamente le prime pagine dei giornali nazionali, dall’Unità alla Repubblica, dalla Stampa al Corriere della Sera e da tutti fu rappresentato come un eroe dei nostri tempi, un martire sacrificatosi per i suoi ideali, un onesto, un uomo semplice e bravo e a suffragare questo diluvio di aggettivi positivi fu lo stesso commissariato di polizia facendo trapelare la figura esemplare di Sebastiano Corrado, un uomo che stava dalla parte giusta.  Quindi per tutti fu un omicidio di camorra contro una persona perbene e ancora una volta, appena il giorno dopo l’efferato delitto, giovedì 12, la Castellammare civile e democratica fece sentire la sua voce, la sua protesta, con una straordinaria, indimenticabile marcia anticamorra in cui, ancora una volta sfilarono oltre 10mila cittadini. La testa del corteo, il cui concentramento era stato stabilito a Piazza Spartaco, l’antica largo Fusco, fu lasciata ai ragazzi dell’Associazione I care guidata da Nicola Corrado. Seguivano i parlamentari del Pds, Giorgio Napolitano, della Dc, Flaminio Piccoli (1915 – 2000) e il vice segretario della Cgil, Ottaviano Del Turco.

A rendere omaggio alla famiglia della vittima vennero il Segretario generale Aggiunto della Cgil, Ottaviano del Turco, oratore nel comizio in Piazza Municipio, durante lo sciopero generale del 12 marzo, il Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, venuto a Castellammare in visita privata per chiedere scusa alla famiglia a nome della nazione, Il mio tremendo pellegrinaggio laico di dolore, di sdegno, di condanna, di solidarietà e di incitamento, dichiarò poi alla stampa. E nella città stabiese venne anche il segretario dei Pds, Achille Occhetto, spintosi a denunciare Il martirio di un onesto, colpito perché in prima fila contro la camorra. [6]

L’ultimo omaggio, prima che la verità cominciasse a venire a galla, fu dell’organo ufficiale della Santa sede, l’Osservatore Romano, inserendolo il 18 aprile in un elenco di servitori dello Stato uccisi da una criminalità sempre più proterva, a fianco di uomini come il giudice Rosario Levatino, ucciso dalla mafia a 38 anni, il sovrintendente di polizia, Salvatore Aversa e tanti altri giudici, poliziotti, carabinieri e per ultimo l’esponente politico stabiese, Sebastiano Corrado. In realtà non ci fu neanche il tempo di seppellirlo e già cominciarono a circolare le prime voci, le prime insinuazioni, i primi sospetti. Lo scandalo venne fuori, giorno dopo giorno, quando si cominciò a scoprire come l’integerrimo funzionario dell’Usl 35 ed ex sindacalista aziendale della Cgil, simbolo della lotta alla corruzione, era in realtà un boss delle tangenti ucciso perché non voleva spartire una mazzetta da 400 milioni. [7] Infine arrivarono le prove testimoniali di come Sebastiano Corrado, era organico a un sistema di tangenti che ruotava intorno all’Usl 35[8] Il 19 giugno ci fu il primo di una serie di blitz dei carabinieri con l’arresto di 54 indiziati, tra loro sindacalisti, consiglieri comunali, ex parlamentari, imprenditori senza scrupoli, alcuni dipendenti della stessa Usl. Tra gli arrestati della tangentopoli campana i nomi eccellenti dell’ex senatore Francesco Patriarca e Vittorio Vanacore

per un trentennio padrone incontrastato della sanità stabiese, prima come Presidente dell’ospedale San Leonardo, poi ex Presidente del Comitato di gestione dell’USL e infine dell’assemblea dei garanti. Da quattro mesi è latitante. [9]

Poi arrivarono i primi pentiti a scoperchiare la fogna infinita degli appalti truccati e l’inizio di un processo senza fine per i 38 rinviati a giudizio nell’aprile del 1993.

In questo drammatico contesto la visita ampiamente e lungamente programmata per il 19 marzo di Papa Giovanni Paolo II, il polacco Karol Wojtyla (1920 – 2005) sembrò portare, almeno per quel giorno, una ventata di pace e di serenità agli oltre 50mila accorsi ad ascoltarlo, riempiendo fino all’inverosimile la Villa Comunale. Memorabile la sua visita nella fabbrica simbolo di Castellammare, la Fincantieri, con l’intervento del Rappresentante di Fabbrica della Fiom, Francesco Avallone. Il delegato sindacale parlò della crisi delle fabbriche, della fame di lavoro, della necessità di difendere la dignità operaia. Grandi applausi, operai in lacrime, alcuni in ginocchio al suo passaggio verso il palco dove si teneva l’incontro con le maestranze, tutti estasiati dalla visita del papa venuto da lontano e già in odore di santità. Ma il papa andò via, una meteora passata senza lasciare nessuna traccia, mentre la crisi mordeva sempre più pesantemente.

Lo scioglimento del consiglio comunale di Castellammare di Stabia, deciso il 22 settembre dal Prefetto Umberto Improta, a seguito delle dimissioni di 39 consiglieri su 40, sembrò la decisione più giusta per chiudere una fase tremenda e iniziare un tempo nuovo. La città sarà affidata a Goffredo Sottile, affiancato, in virtù della complessa e particolare situazione stabiese, da tre funzionari, Pasquale Manzo, Maria Elena Stasi e Gaspare Mannelli.

Pochi mesi, il tempo di arrivare alle nuove elezioni amministrative del 13 dicembre, quando nuovi partiti si affacceranno alla ribalta della politica mentre la Democrazia Cristiana si sta avvitando nella spirale di una crisi senza ritorno portandola alla sua definitiva scomparsa, travolta da una tangentopoli nata sottovalutando la sua portata e invece porterà alla fine della prima Repubblica. Castellammare sarà una delle prime città sulla quale soffierà il nuovo vento favorevole alla sinistra, ritornata al potere dopo quindici anni, riuscendo a tenerselo stretto nei successivi venti anni, prima di perderlo per la sua incapacità di capire. Il 30 gennaio 1993 era eletto sindaco di una maggioranza di sinistra, il docente universitario, Catello Polito un 52enne eletto per la prima volta nelle file dell’ex Pci il 26 novembre 1972, assessore nelle diverse barcollanti Giunte di sinistra del socialista Flavio Di Martino tra il 1973 e il 1975, in quella guidata da Liberato De Filippo nel 1976 e da Giovanni La Mura nel 1978.

Alla testa di un pentapartito composta da Pds, Psi, Pri, Psdi e Verdi, mentre Rifondazione garantiva l’appoggio esterno inaugurando, quest’ultimo, un modo di fare politica poco consono alla storia del Pci, di cui pure si considerava l’unico erede e continuatore, Catello Polito affronterà la sua nuova avventura politica percorrendo una strada irta di difficoltà e trabocchetti, costringendolo a continue mediazioni tra le diverse anime dei partiti di maggioranza. Non a caso in questa sua prima consiliatura si avranno ben tre amministrazioni con un continuo turn over nei diversi assessorati, rimanendo ben saldo sulla poltrona di primo cittadino e diventando uno dei protagonisti della battaglia politica e sociale della Castellammare degli anni Novanta, in prima fila nelle numerose lotte operaie condotte da Cgil, Cisl e Uil comprensoriali.

Il riconoscimento dell’area di crisi

La venuta del papa con le sue parole di pace e di speranze non fermarono, neanche per un giorno la feroce guerra di camorra. A Castellammare ripresero gli omicidi degli affiliati tra i clan in lotta e tornarono le proteste dei lavoratori delle fabbriche, sempre più sotto l’incubo senza fine della cassa integrazione e dei licenziamenti: dai Cmc alle Raccorderie Meridionali, dall’Avis ai Cantieri navali. Non meno drammatica la situazione nella vicina Torre Annunziata con la Dalmine, la Deriver, l’ex Italtubi e la Scac in continua fibrillazione.

Le diverse articolazioni di lotte e manifestazioni culminarono nella proclamazione di due nuovi scioperi generali, il 26 novembre a Castellammare e il 1° dicembre di quel terribile 1992 a Torre Annunziata. A concludere la manifestazione dei diecimila, nella Villa Comunale stabiese, venne il segretario nazionale della Cgil, Angelo Airoldi (1942 – 1999), cogliendo un malumore operaio rivolto contro i vertici sindacali, incapaci di dare risposte alla drammatica situazione vissuta nelle fabbriche in crisi e sempre più senza prospettive. Di questo se ne resero ben conto i vertici della politica nazionale, giunti uno dopo l’altro nella Città delle Acque in occasione delle amministrative del 13 dicembre, Dal socialista Bettino Craxi, per la prima volta a Castellammare, al pidiessino Achille Occhetto, dal democristiano Mino Martinazzoli al comunista Sergio Garavini, da missino Gianfranco Fini, per finire con l’ex democristiano Leoluca Orlando, fondatore del movimento politico La Rete.

Un anno senza fine quel 1992, a suo modo spettacolare e terribile, un thriller mozzafiato ricco di colpi di scena, con riunioni annullate, impegni disattesi, e la samba infernale prodotta da una classe operaia esasperata ma non doma, tra marce, cortei, sit in, blocchi stradali e ferroviari, veglie laiche e religiose, fino agli scioperi generali proclamati ormai in serie per produrre il risultato di un’ultima e ormai obbligata tappa romana, con la convocazione a Palazzo Chigi del 3 dicembre, dove ad attendere le organizzazioni sindacali furono il sottosegretario alla Presidenza del consiglio, Fabio Fabbri, il sottosegretario all’Industria, Felice Iossa e il Presidente del Coordinamento delle Iniziative per l’Occupazione, Gianfranco Borghini. La neonata Task Force si era costituita in settembre, per volontà del Presidente del Consiglio, il socialista Giuliano Amato, con l’intenzione di creare uno strumento specifico in grado di seguire le situazioni di crisi delle aree industriali del Paese e darvi soluzione utilizzando misure eccezionali concordate con i diversi ministeri competenti e con lo stesso governo.

L’incontro era naturalmente interlocutorio, nonostante fosse seguito di persona dalle 145 unità lavorative delle Raccorderie Meridionali, accampate in strada ad attendere la conclusione della riunione. Questi sapranno poi come il piano presentato dall’industriale milanese, Rinaldini, non era stato ritenuto attendibile dal ministero dell’Industria e quindi invitato a ripresentarlo con maggiori garanzie, se voleva il finanziamento di 30 miliardi per produrre i suoi oggetti in porcellana. In successivi incontri si sarebbero poi affrontate le diverse questioni, riguardanti l’intero apparato industriale dell’area, attraverso un vero e proprio programma di rilancio. Un incontro interlocutorio quindi, ma anche l’instaurarsi di un rapporto costante, interrotto soltanto dal continuo defatigante ricambio di protagonisti per il continuo avvicendarsi nel complesso e complicato scenario politico italiano, ormai diviso fra centro destra e centro sinistra, in una contrapposizione che, di fatto, indebolì fino al naufragio il risanamento dell’area. Ben 12 governi in 15 anni, con sei Presidenti del Consiglio alternatosi tra loro, spesso annullando quanto fatto dal predecessore, rappresentano uno dei motivi dello sfascio, non solo economico e sociale, in cui precipiterà il Paese nel secondo decennio del XXI secolo, fino a mettere in discussione il suo stesso futuro.

Con il governo di centro destra uscito vincitore dalle elezioni politiche del 2001, il contratto d’area divenne un residuo di cui liberarsi al più presto, come meglio si vedrà in seguito. L’unico interlocutore stabile si rivelò Gianfranco Borghini, antico segretario regionale della Lombardia e membro del Comitato Centrale del Pci negli anni ’70, ora inossidabile Presidente della Task Force, passato indenne attraverso l’altalena dei governi che si susseguivano, indipendentemente dal loro colore politico.

Il 1993 iniziò come si era chiuso l’anno appena scomparso, con gli operai della Fincantieri in piazza, sempre più preoccupati per il loro futuro, al punto da picchettare il loro stabilimento con turni di squadre operaie, in una sorta di occupazione soft, come segnale all’azienda e al potere politico di non essere disponibili a cedere su nessun fronte. Non meno drammatica la situazione delle altre fabbriche storiche della Stalingrado del Sud, dall’Avis con la metà dei dipendenti in cassa integrazione, alle Raccorderie Meridionali, il cui piano di riconversione industriale per la produzione di porcellane, presentato da un imprenditore milanese era stato respinto dalla stessa Presidenza del Consiglio in quanto poco attendibile, mentre la stessa Cmc rimaneva in attesa di commesse dalle Ferrovie dello Stato. Ma le promesse erano destinate a rimanere tali nonostante gli impegni solenni dell’Amministratore straordinario delle Ferrovie dello Stato, Lorenzo Necci, chiamato a portare a compimento un severo piano di ristrutturazione e di ridimensionamento dell’ente, di assegnare nuovi lavori agli stabilimenti stabiesi dell’Avis e della Cmc, impegni formali li prese anche il Ministro dei Trasporti, Giancarlo Tesini, garantendo 450 miliardi a sostegno della cantieristica in attuazione della sesta direttiva Cee. Chi non aveva santi cui appendersi erano invece i 50 edili a rischio licenziamento della Cedelt, impresa appaltatrice dell’Enel. I dipendenti erano da diversi giorni in sciopero, ma la loro protesta sembrava non trovare sufficiente spazio, soffocati da vertenze più grandi di loro, ma non per questo si perdevano d’animo riuscendo a inscenare rumorose manifestazioni tra Castellammare e Centro Direzionale di Napoli, dov’era la sede centrale dell’Ente nazionale per l’energia elettrica.

Spirito d’iniziativa e fantasia che non mancava nemmeno agli operai della Fincantieri e delle altre fabbriche ormai boccheggianti, così si sprecarono le veglie con la presenza dello stesso vescovo Felice Cece, le marce, i presidi, i blocchi stradali e ferroviari, i negozi chiusi e le luci spente in segno di solidarietà e non si contavano i summit con i sindaci della zona, il Prefetto di Napoli, il Presidente della Regione Campania.

Tra gennaio e febbraio ci fu una lunga teoria di cortei e manifestazioni di protesta dell’Avis, della Fincantieri, dei Cmc, della Deriver. Per la prima volta alle manifestazioni dei metalmeccanici, da sempre protagonisti unici delle piazze di Castellammare di Stabia e Torre Annunziata, si vide la partecipazione compatta dei lavoratori edili, dipendenti delle più importanti imprese del settore delle costruzioni, come l’Elettrostabia e la Cedelt, specializzate nella costruzione e installazione di impianti elettrici per conto dell’Enel e consorzi edili operanti nell’ambito di grandi appalti pubblici come la Disa, impegnata nella realizzazione del depuratore alla foce del fiume Sarno, della Coop Sud, che stava realizzando la Strada SS 268, della Canalsarno, impegnata nella copertura del canale artificiale denominato Conte di Sarno. Alla pari delle leggendarie tute blu combattevano gli edili e lo stesso filo da torcere davano i lavoratori del settore del cemento e dei manufatti, come la Scac, la Tecnotubi, ex Italtubi e l’Imec.

Resi più forti da manifestazioni senza precedenti per partecipazione popolare, continuità e rabbia espressa, Cgil Cisl Uil denunciavano come nonostante

(…) l’intenso e serrato confronto sui problemi dell’emergenza industriale e occupazionale strettamente connessi alla configurazione di un piano di reindustrializzazione e rilancio produttivo dell’area torrese stabiese (…)

il confronto vivesse ormai un vero e proprio blocco. I sindacati denunciavano quindi (…) l’assenza sull’intera vertenza di scelte di politiche industriali nazionali. Da qui, in mancanza di risposte certe, la decisione di programmare un vero e proprio calendario di lotte, con protagonisti delle spettacolari, a volte drammatiche proteste, i lavoratori delle maggiori industrie delle due città e in particolare metalmeccanici e lavoratori del settore delle costruzioni, con l’occupazione dell’autostrada, dei binari della Circumvesuviana e delle Ferrovie dello Stato, assemblee permanenti delle fabbriche, veglie e preghiere pubbliche del Vescovo Felice Cece. Mentre vittime indifese e predestinate erano quasi sempre gli incolpevoli viaggiatori dei treni e i poveri automobilisti paralizzati dalle improvvise, rabbiose iniziative dei cipputi dell’area torrese stabiese.

S’intrecciavano ora gli incontri in prefettura, mentre saltavano i cosiddetti tavoli ministeriali, spesso alternati da riunioni fatte con i sindaci delle città interessate, con il Presidente della Provincia e con quello della Regione. Da ognuno una promessa senza possibilità di essere mantenuta, impegni quasi sempre cancellati dall’impossibilità di portarli a termine, provocando nuove ondate di protesta, in una sorta di tourbillon senza fine. L’incontro tanto agognato si tenne il 10 marzo con Fabio fabbri, sottosegretario del Presidente del Consiglio, Giuliano Amato. Tra impegni e promesse, il varo di un decreto legge, il 57/93, dove, per la prima volta si definiva questo territorio, Torrese Stabiese, riconoscendolo area di crisi e si stanziavano trenta miliardi di lire quale finanziamento straordinario per interventi sul territorio e a sostegno dell’occupazione. Durante la riunione nella sede del governo, dove erano presenti diversi ministri, molti parlamentari campani e lo stesso Prefetto di Napoli, per sostenere la gravità del momento, Cgil Cisl Uil territoriale presentarono i loro, Obiettivi di programma. Selezione rivendicativa per l’area torrese stabiese, con le proposte di ristrutturazione dell’apparato produttivo, delle infrastrutture da realizzare e poi più complessivamente i vari interventi necessari sull’ambiente e nell’economia per il risanamento e lo sviluppo di quella fascia costiera a sud di Napoli. Sette pagine dense di contenuto ma senza futuro. Un comunicato della Presidenza del Consiglio elencava gli impegni assunti, riconosceva la validità del documento sindacale, assicurava come (…) esso sarà utilizzato nell’ambito del lavoro preparatorio che è necessario iniziare immediatamente (…) e stilava un calendario di nuovi incontri.[10]

Le organizzazioni sindacali, invece, da un lato prendevano atto di un primo riconoscimento di un’intensa stagione di lotte, di proposte, di negoziati, ma dall’altro si rilevava come (…) queste misure governative recano ancora il segno di una vecchia pratica di distribuzione di risorse su aree di crisi senza una programmazione di sistema (…). Ancora una volta il documento unitario ripercorreva la necessità d’interventi globali che puntassero alle infrastrutture, all’ambiente, all’economia urbana, a una moderna rete informativa.

Le riunioni erano diventate quasi quotidiane, gli impegni assunti non si contavano, i progetti non mancavano e i finanziamenti neanche, eppure la situazione continuava a precipitare perché niente di quanto si diceva e scriveva era poi confermato dai fatti concreti. Solo la cassa integrazione era prorogata e anche questa, per averla, bisognava spesso lottare con i denti e con le unghie, mostrando la faccia cattiva e il cuore violento, soprattutto, per essere ascoltati, era obbligatorio infrangere la legge, causando problemi di ordine pubblico e disagi sociali, senza i quali la protesta era raccolta soltanto dal vento.

Il Decreto Legge fu reiterato per essere poi trasformato in L. 236 del 19 luglio ma non per questo la situazione andò modificandosi, anzi, gli Interventi urgenti a sostegno dell’occupazione, rimasero lettera morta, provocando nuove e più esasperate reazioni da parte dei lavoratori, con iniziative di lotta sfocianti nell’ennesima occupazione dell’autostrada Napoli – Salerno, delle stazioni ferroviarie dello Stato, della Circumvesuviana e della strada statale sorrentina. Il bivio di Pozzano era la vera arma segreta utilizzata dai lavoratori dell’apparato industriale stabiese per rivendicare i propri diritti calpestati. Un imbuto micidiale le cui conseguenze ricadevano per intero sugli incolpevoli automobilisti, turisti e pendolari che, a migliaia, su quell’unico, obbligatorio nastro di strada statale, Castellammare Sorrento e viceversa, rimanevano bloccati per ore a cuocere sotto il sole oppure a marcire al freddo. E spesso i lavoratori occupavano Palazzo Farnese, sede del municipio stabiese, governato, dopo le vittoriose elezioni amministrative del 13 dicembre 1992, da una coalizione di Centro sinistra, retta dal sindaco pidiessino, Catello Polito, vecchio militante del Partito Comunista Italiano, già assessore alle finanze in una Giunta di sinistra fra il 1973 e il 1977. Un’esperienza quella degli anni ’70 molto travagliata con tre sindaci – i socialisti Flavio di Martino e Antonio Capasso e il comunista Liberato de Filippo, ultimo sindaco del PCI nella Castellammare della prima repubblica – in successione tra loro nella stessa consiliatura.

La nuova primavera politica della sinistra continuerà nel giugno del 1993 a Gragnano, portando nuovamente al governo della città una Giunta di sinistra dopo l’unica breve esperienza del 1956. A essere eletto sindaco sarà Sergio Troiano, forte del 72% dei consensi conquistati alla testa di una coalizione comprendente Pds, Rifondazione comunista e una lista civica, Insieme per Gragnano, composta di verdi, retini, Acli e liberi professionisti, laici e cattolici.[11]

A rendere ancora più drammatiche queste giornate di lotte fu il suicidio di Antonio Ferrara, operaio della ditta di pulizia, La Fulgente, operante all’interno della Deriver. Ferrara aveva 45 anni ed era padre di quattro figli, rappresentante sindacale della Filcams Cgil, quando, temendo il licenziamento, s’impiccò nel bagno della direzione aziendale, il 18 marzo 1993. [12] Per testamento lasciò un messaggio che una società arida come la nostra non è in grado di cogliere e di trasmettere ed è pronta a dimenticare quasi subito, fino al successivo suicidio, producendo nuove lacrime di coccodrillo e così via in una spirale infinita dalla notte dei secoli: Senza lavoro non è possibile vivere. La solidarietà arrivò, naturalmente, dagli operai favorendo una raccolta di fondi da destinare alla famiglia.[13]  E ancora la mattina del 6 aprile, quando gli operai delle diverse aziende metalmeccaniche di Castellammare e di Torre Annunziata occuparono per 15 ore consecutive l’autostrada nei due sensi di marcia, all’altezza del casello di Torre Annunziata. La notte seguente una Renaut 21, dopo essere entrata sull’autostrada, nel senso inverso di marcia, andò a schiantarsi contro un carrello elevatore frontale, proprio quando gli operai, su sollecitazioni della polizia, stavano togliendo il blocco autostradale. A lasciarci la vita fu una ragazza polacca di 27 anni, Agatha Balka, mentre l’amico alla guida dell’auto, il 37enne Riccardo Della Gatta, rimase gravemente ferito.[14]

Nell’infernale black aut era rimasto bloccato nel traffico, tra gli altri, il senatore del Pds, Gerardo Chiaromonte (1924 – 1993), di ritorno da Napoli. Gravemente ammalato, il vecchio dirigente morirà quella notte stessa nella sua casa di Vico Equense. Feroci polemiche accompagneranno la sua morte, con l’accusa agli scioperanti di essere stati la causa indiretta del malore che avrebbe colpito il senatore, già in dialisi. La moglie, Bice Foà, anch’essa antica militante del Pci, in un’intervista alla stampa, prenderà le difese dei lavoratori in lotta, ponendo fine a ogni altra strumentalizzazione del caso.

L’estate e l’autunno trascorsero accompagnate dal martellante ma inutile lottare dei lavoratori delle diverse fabbriche. Manifestazioni operaie e incontri istituzionali erano ormai il binomio imprescindibile ma senza costrutto perché il loro unico valore era di calmare le acque per non più di due giorni, poi tutto ricominciava daccapo, come un vecchio ritornello, tanto più fastidioso, quanto più si presentava inconcludente. Il trittico era sempre lo stesso: assedi al municipio, blocco dei binari o dell’autostrada, incontro in prefettura. Questa routine cominciò a far perdere ogni giorno sempre di più la credibilità nei confronti delle istituzioni ma era ancora salda la fiducia nel gruppo dirigente sindacale. Si lottava per la proroga della cassa integrazione, per avere certezze sul futuro del proprio stabilimento, per chiedere chiarezza sui piani di risanamento, sui programmi di sviluppo, per dare forza al sindacato nelle sue richieste al governo, per dare finalmente una svolta alle questioni poste.

La situazione più drammatica era sempre rappresentata dai lavoratori delle Raccorderie Meridionali, azienda ormai abbandonata a se stessa da imprenditori felloni, di cui si erano perse perfino le tracce e da mesi, ormai, i dipendenti non percepivano neanche lo stipendio, esasperando oltre misura gli animi e provocando il primo strappo nei confronti del sindacato e in particolare della Cgil, anche da parte di militanti di profonda fede come Luigi Russo e Ignazio Longobardi, comunisti da sempre, da generazioni, dirigenti sindacali di provata fede e capacità. L’eresia avvenne il 20 maggio 1993, durante l’assemblea del Comitato direttivo della Cgil comprensoriale, con i lavoratori delle Raccorderie Meridionale che invasero pacificamente il salone delle riunioni prendendo la parola con Luigi Russo, egli stesso membro del direttivo e Rappresentante del Consiglio di fabbrica, usando parole dure sul modo di condurre la difficile vertenza.

Il giorno dopo la segreteria della Camera del Lavoro emise un duro comunicato indirizzandolo al Consiglio di Fabbrica delle Raccorderie:

Quanto avvenuto giovedì 20 u.s. costituisce un fatto di notevole gravità politica. La comprensibile esasperazione data dalle condizioni dei lavoratori delle Raccorderie Meridionali in prossimità di una scadenza che può risultare vitale per la concreta prospettiva di tante famiglie non giustifica il modo con il quale si è intervenuti nella riunione del comitato direttivo Cgil. Le ragioni espresse dal compagno Luigi. Russo non sono state motivate perché nel merito della vertenza specifica, delle scelte e dei comportamenti della nostra organizzazione e di quelli unitari si è chiarito e precisato nell’incontro avvenuto in prefettura lunedì 17 u.s. e poi nell’attivo dei delegati del 19 maggio (…).[15]

A Luigi, 43 anni di cui 22 trascorsi in fabbrica, altrettanti nel Pci e nella Fiom, rivestendo ruoli di primo piano a livello locale in entrambe le organizzazioni, l’Unità dedicò il titolo di un articolo definendolo la sentinella della fabbrica fantasma.

Luigi Russo fa l’operaio da più di vent’anni, ora la sua fabbrica è chiusa da un bel pezzo ma lui è ancora lì, aspetta che l’azienda riprenda a funzionare. I proprietari dell’azienda fantasma non possono sentire il suo nome, perché Luigi è un osso duro. Passa tutti i giorni negli uffici vuoti in compagnia di un amico e un cane, <Napolione>. E’ da maggio che lui e gli altri operai più nemmeno l’assegno di cassa integrazione.[16]

La svolta, dopo quella del riconoscimento dell’area di crisi e lo stanziamento dei 30 miliardi per incentivare gli imprenditori ad assumere lavoratori in cassa integrazione da reimpiegare in nuove attività produttive e i 19 miliardi per acquisire aree dismesse, sembrò essere quella del 5 novembre, quando, presso la Presidenza del Consiglio sarà sottoscritto il Protocollo d’Intesa con il quale s’intendeva dare priorità all’area torrese stabiese, insieme all’area orientale di Napoli e a quella di Bagnoli, attraverso iniziative

che si dovranno concentrare sul mercato del lavoro, sulla deindustrializzazione e sulle infrastrutture, anche attraverso un Consorzio di Promozione d’impresa, società a partecipazione mista pubblico privato, che dovrà coinvolgere, di volta in volta, i soggetti disponibili (regione, Comuni, Spi, Gepi, istituti bancari e altri).[17] 

Continua…

Note:

[1] Roma, del 15 dicembre 1991: Botte da orbi alla CGIL

[2]  Comunicato Stampa dell’8 gennaio 1992 della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

[3]  l’Unità del 7 marzo 1992: Castellammare è allo sbando. La città contro camorra e disoccupazione, art. di Vito Faenza

[4] l’Unità del 10 marzo 1992: Baby camorristi disarmano e pestano un poliziotto, di V. F.

[5] Ce ne andiamo, l’Usl 35 di Castellammare è allo sfascio, Lettera pubblicata sull’Unità dell’8 agosto 1989 e firmata dai consiglieri comunisti dell’Usl 35, Catello Chiacchio, Francesco Belviso, Sebastiano Corrado, Giuseppe D’Aniello, Alfonso Solimene, Aniello Somma e Fabiola Toricca.

[6] l’Unità del 12 marzo 1992: Denunciava i corrotti (in prima pagina) e, all’interno, Hanno assassinato un uomo onesto, art. di Vito Faenza e del 22 marzo: E’ stato un crimine contro lo Stato, art. di Vittorio Ragone

[7] La Repubblica del 23 giugno 1992: Era Corrado il boss delle tangenti, art. di Roberto Fuccillo e Giovanni Marino

[8]  Rapporto sulla camorra, relazione approvata dalla Commissione Antimafia il 21 dicembre 1993

[9]  Corriere della Sera del 27 novembre 1992: Assedio a Gava City, di Enzo D’Errico

[10] Cfr. Comunicato della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 10 marzo 1993

[11] l’Unità del 6 luglio 1993: La rivoluzione di Gragnano, regno di Patriarca, art. di Vittorio Ragone

[12]  La Repubblica, Edizione di Napoli del 19 marzo 1993: Licenziato, s’impicca, art. di Patrizia Capua

[13]  La Repubblica, Edizione di Napoli del 26 marzo 1993: Sono una persona onesta, non posso vivere più

[14]  Il Mattino del 7 aprile 1993: Automobilisti <sequestrati> sull’autostrada, art. di Bruno Abbisogno e Repubblica, Edizione di Napoli, stessa data, La guerra per il lavoro, art. di Maria Rosaria Marchesano

[15] Documento inedito della Cgil del Comprensorio Vesuviano Esterno del 21 maggio 1993

[16]  L’Unità del 25 febbraio 1994: Luigi, la sentinella della fabbrica fantasma, art. di Sandro Onofri

[17] Protocollo d’Intesa per la reindustrializzazione dell’area Torrese Stabiese del 5 novembre 1993

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