Pillole di cultura: Messa

a cura del prof. Luigi Casale

Andare di palo in frasca alla scoperta delle parole, è quello che di solito facciamo in questo spazio virtuale del Libero Ricercatore: tra detti e motti cerchiamo parole comuni e parole dotte.

Il titolo dell’intervento di oggi ci propone la parola “messa”. Se la leggiamo, nella sua strutturazione italiana, come participio del verbo “mettere” significa: “appoggiata”, “adagiata”, “depositata”, “conservata”, a seconda dell’oggetto, del contesto comunicativo, dell’avverbio con cui l’accompagniamo. “Ho messo l’orologio”; “ho messo da parte un piccolo risparmio”; “mettere tutto in ordine”; “mettere in evidenza”; e così via. Ma se la leggiamo come sostantivo, cioè con un articolo davanti: “la messa”, allora essa significa tutt’altra cosa. Significa: “celebrazione eucaristica”; assemblea domenicale dei cattolici intorno all’altare. La santa Messa, insomma. “Dire la messa”; “partecipare alla messa”; “la messa della mezzanotte di Natale”; “una messa solenne”; ecc. … Mentre, nel primo caso “messa” è uguale a “deposta” oppure semplicemente “posta”. Tutto quello che può significare, insomma, il verbo “mettere”: come abbiamo detto.

Per chi ricorda quel po’ di latino scolastico che ancora manteniamo nella mente, è evidente che il verbo italiano “mettere” – dal punto di vista del significante – è la naturale trasformazione del verbo latino “mittere” (paradigma: mitto, misi, missum, mittere). Da “missum” (supino) deriva il participio “missus”; al femminile “missa”. Solo che nei duemila anni trascorsi dal tempo di Cesare e Cicerone fino ad oggi, il “mittere” dei latini ha cambiato significato, mentre cambiava la forma fonica. All’origine “mittere” era mandare. Qualche cosa di diverso del nostro “mettere” (che gli antichi Romani dicevano “pònere”). Anche se, con un piccolo ulteriore sforzo di comprensione (intuizioni, deduzioni, e controdeduzioni) potremmo facilmente riconoscere una certa affinità semantica tra i due significati d’uso: cosa che ci può fare immaginare la causa di questo scivolamento di significato.

Se “mittere” significa mandare – vedi le parole italiane che da questo verbo si sono formate, come: missione, missiva, mittente, messo [comunale], commesso, commissione – perché mai la messa (cerimonia religiosa dei cristiani) si chiama così? Intanto mi preme ricordare che la maggior parte delle parole significative del linguaggio della religione cristiana sono parole greche o latine, mai modificate nel corso dei secoli, oltre alle pochissime di derivazione ebraica. Si sa anche che geograficamente le origini del cristianesimo sono nel medio-oriente, poi in Grecia, e in seguito a Roma, in un’epoca in cui la cultura è caratterizzata da un fenomeno che gli studiosi chiamano “ellenismo” in conseguenza del fatto che in tutto il mondo conosciuto (ecumène = terra abitata) si diffonde la parlata greca, fino a quando lo stesso mondo non sarà conquistato da Roma; e allora insieme al greco si parlerà anche il latino: un bilinguismo diffuso, con preferenza del greco in oriente e del latino in occidente. Chi pratica il culto cattolico e va a messa, sa che alla fine della celebrazione liturgica, il celebrante saluta i fedeli con questa espressione: Andate, la messa è finita! Questa è la traduzione della formula finale latina: “Ite, missa est”, che fin dall’antichità si è conservata intatta nella forma, avendone mutato il significato. In quanto, effettivamente, la traduzione letterale di “ite missa est” è “andate, è stata mandata”. Infatti “missa est” è la terza persona singolare del perfetto (corrispondente al nostro passato prossimo) della diàtesi passiva (la forma passiva della coniugazione del verbo) di “mìttere”. Cioè: E’ stata mandata. Essendo “missa” un femminile. Ma qual è il soggetto del mandare? Qual è la cosa che è stata mandata? Qui rimangono incertezze anche tra gli storici. Certamente è l’ostia consacrata, l’eucaristia, che “era mandata” alla fine della celebrazione della commemorazione liturgica; e la comunicazione all’assemblea da parte del celebrante dell’avvenuto invio dell’ostia, indicava appunto la conclusione del rito; una specie di saluto di commiato, quasi a dire: “Arrivederci alla prossima riunione”.

Secondo questa interpretazione, due sono le ipotesi: o l’eucaristia, consacrata nelle catacombe o in una casa privata, era inviata ai cristiani nelle carceri e alle persone che per sicurezza personale non si dichiaravano apertamente come cristiani; oppure – in epoca posteriore – essa veniva mandata attraverso i diaconi alle comunità periferiche che non avendo la presenza del presbitero (= anziano: il sacerdote consacrato, da cui la parola: “prete”) non potevano celebrare l’Eucaristia.

Un’altra interpretazione è quella secondo la quale ad essere mandata era, in generale, l’offerta sacrificale (in latino “hostia” = la vittima). In questo caso “Ite, missa est” era un vero saluto per dire “la funzione è finita”, letteralmente: L’offerta del sacrificio è stata inviata al cielo, alla divinità, a Dio. E allora la formula potrebbe valere anche per il sacrificio pagano, in cui la vittima (hostia) era un animale.

Da qui probabilmente la spiegazione della traduzione moderna, molto approssimativa, ma che dà un senso al saluto: “Andate (la vittima) è stata mandata (offerta)” , e di conseguenza “Andate il rito è terminato”.

Ite missa est.

L.C.

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