Il marinaio Silurista Mario Cascone

(le avventure veneziane del marinaio silurista Mario Cascone)

Mario Cascone

Mario Cascone

Mi chiamo Mario Cascone e sono nato il 22 febbraio 1923 a Torre Annunziata, in periferia ai confini con Trecase. Sono il terzo di 5 fratelli ed una sorella, dei quali Gennaro era Maresciallo della Regia Marina, Umberto emigrato in Argentina subito dopo la guerra e Gabriele, docente di Istituto Tecnico. All’età di 13 anni mio padre mi iscrisse alle scuole industriali ad un corso per operai specializzati. Nel frattempo a Castellammare di Stabia, nello stabilimento dei Cantieri Metallurgici Italiani, nell’approssimarsi della guerra si incominciarono a costruire proiettili e fu chiesto alla scuola ove mi trovavo, di inviare degli allievi per divenire apprendisti meccanici. Fui scelto ed inviato a Castellammare; imparai il mestiere e divenni un bravo meccanico. Continuai a lavorare nella cittadina stabilmente anche allo scoppio della guerra pur frequentando le attività paramilitari obbligatorie. Nel mese di novembre del 1942 la mia classe fu chiamata alle armi. Nella retorica dell’epoca, ci dissero che i giovani del ’23 erano la classe di ferro, quella che doveva vincere la guerra. Tale fandonia fu subito sfatata non appena ci imbattemmo con la triste realtà della vita militare e con le esperienze raccontate dai marinai più anziani che ben sapevano decifrare i bollettini di guerra, che si stava perdendo su tutti i fronti.

Corso siluristi (Mario Cascone è il quarto in piedi da sinistra; il quinto marinaio è Pinuccio di Palermo)

Corso siluristi (Mario Cascone è il quarto in piedi da sinistra; il quinto marinaio è Pinuccio di Palermo)

Dopo un periodo di addestramento a Taranto ove fui classificato “silurista”, nonostante i miei tentativi di essere inquadrato come “meccanico”, fui inviato alla scuola di specializzazione siluristi prima a Venezia e poi a Pola; in questa città esisteva una grande scuola CREM per sommergibilista (1).
Mi ricordo che la zona prospiciente la caserma era frequentemente attaccata dai partigiani jugoslavi (noi li chiamavamo “ribelli”) per cui spesse volte dovetti montare la guardia in garitte isolate disseminate sul perimetro della zona militare. Per timore di essere ucciso dai partigiani, io che non avevo mai fumato, incominciai a consumare pacchetti di sigarette in continuazione in modo da prendermi una specie di avvelenamento da fumo. Gli ufficiali medici si accorsero del mio maldestro tentativo di marcare visita e mi fecero punire per aver simulato una malattia. Successivamente fui assegnato al sommergibile Fratelli Bandiera e con questo battello compiemmo numerose esercitazioni nell’Adriatico (2).
Molti marinai, come me, non avevano nessuna esperienza di bordo e, spesso, le esercitazioni non raggiungevano risultati soddisfacenti, ma la guerra incalzava e bisognava andare a combattere comunque.

Il sommergibile Fratelli Bandiera in navigazione

Il sommergibile Fratelli Bandiera in navigazione

Ci dissero che dovevamo andare nell’Oceano Atlantico e imbarcammo 12 siluri da 533 mm. Preparato il battello per la lunga navigazione, ci recammo a Fiume per completare l’armamento. In questa città ci colse l’armistizio dell’8 settembre del 1943. Il giorno dopo ci convocò l’ufficiale in seconda e ci disse che il comandante del Bandiera era irreperibile da tre giorni, forse già era a conoscenza dell’armistizio firmato qualche giorno prima a Cassibile. Ci disse che aveva, inutilmente, cercato di mettersi in contatto con Supermarina di Roma per avere ordini. Non sapendo rispondere alle nostre domande, disse: “Ragazzi, non so cosa dirvi, ognuno faccia quello che meglio crede”. Era un esplicito invito a ritornare a casa. Io ed un mio amico di nome Pinuccio, figlio del proprietario di un piccolo cantiere navale di Palermo, preso i nostri bagagli, ci imbarcammo sul piroscafo passeggeri Eridania, una nave requisita che, ci dissero, doveva portare a Brindisi, ove si era rifugiato il re, e tutti i militari sbandati (3). Mentre la nave faceva rotta per il Sud, il pomeriggio del 13 settembre, sotto la minaccia di tre veivoli Stuka tedeschi, fu costretta a dirigersi prima a Sebenico e poi nel porto di Zara. Catturata dai tedeschi il 15 settembre che la spogliarono di ogni materiale bellico o di guerra che poteva loro servire, le fecero fare la spola tra Fiume, Pola e Venezia.

Mario Cascone a Venezia

Mario Cascone a Venezia

Mario Cascone a Venezia

Mario Cascone a Venezia

A bordo, con migliaia di altri marinai e soldati, eravamo alla mercé dei tedeschi diventati, ormai, nostri acerrimi nemici. Finalmente la nave attraccò al porto di Pola, nelle acque di Veruda, ma il 7 ottobre fu silurata dal sommergibile polacco Sokol (4). Affondata, la nave portò in fondo al mare centinaia di persone, principalmente soldati che non sapevano nuotare. Fortunatamente io e Pinuccio ci salvammo e riuscimmo a guadagnare la riva. Trovandoci sbandati, senza documenti e con al sola divisa addosso, ci sentimmo perduti. Pinuccio allora si ricordò che a Fiume abitava certo conte Mirko che aveva conosciuto prima della guerra a Palermo e che gli aveva sempre chiesto di andarlo a trovare nel caso si fosse trovato al nord. Pinuccio disse che il conte possedeva una villa nella periferia della città. Arrivati a Fiume, dopo aver domandato in giro, fu facile trovare la sua abitazione perché questo personaggio era molto conosciuto. Quando incontrammo il conte, questi abbracciò e baciò affettuosamente Pinuccio, in modo non proprio paterno o fraterno, ma in quel momento ci offriva un rifugio sicuro. Dopo diversi giorni di permanenza nella villa del conte, ci dissero che in città i tedeschi avevano affisso dei manifesti in cui si intimava, pena la fucilazione, di denunciare militari sbandati e di non dar loro nessun tipo di aiuto. Il conte ci disse che avrebbe corso il rischio, ma io risposi che non me la sentivo e gli chiesi di procurarmi dei documenti. Dati i suoi buoni uffici in città, il conte mi fece avere una tessera di identità dal comune di Fiume. Pinuccio decise di restare anche perché parlava bene il tedesco ed aveva ancora sentimenti filofascisti. Disse che i tedeschi cercavano degli interpreti. Li salutai – non ho più visto né sentito Pinuccio – e mi diressi, con mezzi di fortuna a Venezia. Nella città lagunare, durante la mia precedente permanenza presso la scuola per siluristi, avevo conosciuto una contessa di origine ungherese, moglie di un generale italiano da tempo disperso in Russia. Eleonora, così si chiamava, mi aveva preso a ben volere, le piacevano i napoletani, che, secondo quanto affermava, avevano in corpo il fuoco del Vesuvio. La contessa possedeva una bella villa nei pressi del Lido e per non farla confiscare dai tedeschi si era messa anche con un loro ufficiale. Da questi mi fece dare un tesserino dell’Organizzazione Todt che mi permetteva di muovermi in città. Nonostante la guerra e le distruzioni, conducevo una bella vita, in tutti i sensi, nella villa della contessa Eleonora. Durante un rastrellamento, però, a piazza San Marco, fui preso dai tedeschi perché il permesso Todt era scaduto e, con altri giovani sbandati, fui portato su un autobus a Verona. Qui in un campo di smistamento, tutti i militari sbandati furono costretti a scegliere tra l’arruolamento nelle brigate nere della Repubblica di Salò, il lavoro coatto o l’invio nei campi di concentramento in Germania. Dopo qualche giorno pensai di tornare a Venezia nascondendomi sotto un sediolino del pullman che faceva la spola per trasportare gli sbandati. Tutti mi diedero del pazzo considerando l’impresa un sicuro suicidio. Ma ero giovane e non me la sentivo di andare nei campi di concentramento i Germania. Così feci, ma l’autobus era presidiato da due tedeschi che si accorsero della mia presenza e, strattonandomi mi tirarono da sotto il sediolino e mi fecero sedere accanto all’autista. Questi mi prese a male parole dicendomi che avrebbero fucilato anche lui come mio complice. Durante il tragitto di ritorno, il pullman si trovò diverse volte sotto i bombardamenti alleati. La vettura sobbalzava allo scoppio delle bombe e per la strada dissestata, l’autista più volte mi faceva segno con la testa indicandomi la porta socchiusa della vettura. Finalmente capii e, durante un altro bombardamento, nei pressi di Mestre, mi lanciai dall’autobus e, come una lepre, mi nascosi in un cespuglio. I due tedeschi fecero fermare la vetture e presero a perlustrare il ciglio della strada con le lampade ma, per fortuna, non mi trovarono. Ancora una volta mi salvai la pelle e mi recai di nuovo dalla mia protettrice, la contessa Eleonora. Questa mi rimproverò della mia superficialità di non aver controllato la scadenza del permesso Todt e me ne fece avere un altro. La bella vita continuò. Intanto era trascorso molto tempo e la guerra volgeva al termine. Agli inizi del 1945 fui contattato da un brigadiere dei carabinieri, anch’egli meridionale, che era in buoni rapporti con i partigiani della zona di Venezia. Questi cercavamo ex militari per adibirli a presidiare l’arsenale che, in ogni momento, poteva essere distrutto dai tedeschi in ritirata.

Il partigiano Mario Cascone

Il partigiano Mario Cascone

Così divenni partigiano. Mi diedero un fucile e feci la mia parte per difendere gli impianti industriali della città. Dopo la guerra ho saputo che, all’atto dell’armistizio, si erano installati a Venezia ben diciassette sedi di comandi politico-militari tedeschi, nazisti e fascisti. Grazie all’intervento del Comitato di Liberazione Regionale Veneto-Esecutivo Militare, furono organizzate delle azioni, si verificarono scontri armati con spargimento di sangue. Durante la notte tra il 7 e l’8 luglio, furono uccisi cinque cittadini antifascisti, il 28 luglio vennero trucidati tredici prigionieri politici, a causa di un attacco partigiano a Ca’ Giustinian, inoltre dopo l’uccisione di una sentinella della marineria tedesca, furono fucilati sette prigionieri nella Riva dell’Impero in seguito chiamata Riva dei Sette Martiri (5). Durante la mia attività da partigiano, mi trovai a partecipare all’ultimo tentativo dei tedeschi di distruggere l’arsenale; furono circondati da diversi gruppi di partigiani. Visto l’inutilità della lotta e, forse, stanchi anche loro di fare la guerra, si addivenne ad un accordo: avrebbero abbandonato la città se fosse stata fatta salva la loro vita. Al nemico che fugge, ponti d’oro. Il comandante partigiano acconsentì e Venezia si liberò dell’inquietante presenza tedesca. Tutta la città festeggiò la liberazione, partigiani armati giravano dappertutto applauditi dalla popolazione. Consegnai il fucile e ripresi la mia attività nella villa. La guerra era finita e la mia vita continuava nella villa della contessa; ero diventato capo giardiniere e vivevo come un pascià. Il pensiero di tornare a casa a Torre Annunziata e lavorare nei Cantieri Metallurgici di Castellammare, non i sfiorava mai per la mente. Intanto era trascorso un anno e tutto filava liscio come l’olio. Nel 1946 arrivò a Venezia mio fratello Gennaro, sottufficiale di Marina e chiese alla contessa di lasciarmi partire perché i miei genitori desideravano vedermi. Mio fratello, nei pochi giorni che restò a Venezia mi raccontò che, durante la guerra, come radiotelegrafista, era stato imbarcato ed affondato sul cacciatorpediniere Cassiopea e su altri piroscafi armati dei convogli per l’Africa settentrionale. Per il suo comportamento era stato promosso sottufficiale e destinato sul Giulio Cesare. Dopo l’armistizio Gennaro assieme a buona parte dell’equipaggio, non voleva consegnare la nave agli Alleati e pensarono di autoaffondarla; scoperti fuono denunciati alla giustizia militare e considerati traditori (6). Mio fratello Gennaro non si riprese mai da questa accusa che considerava ingiusta ed infamante. Ma questa è un’altra storia. Abbandonata a malincuore Venezia e lasciata la contessa, tornai a casa. Mio padre tramite i buoni uffici del collocatore Labriola, mi fece riassumere presso di CMI di Castellammare di Stabia che, intanto erano impegnati nella costruzione di 200 carri ferroviari ordinati dall’America per la zona occidentale della Germania. Il direttore dello stabilimento ing. Chiesa riuscì a prendere dagli americani questa commessa, dando a garanzia del Banco di Roma il patrimonio di sua moglie a Gravedana di Como. I carri furono consegnati in tempo rispetto al contratto e con i dollari ricavati, fu comprato l’impianto per la banda stagnata che, però, per contrasti con “la Commissione” interna, fu sistemata a Napoli.

Mario Cascone- a sinistra - con Falck dei CMI

Mario Cascone- a sinistra – con Falck dei CMI

Mi ero comprato una Vespa e continuai la bella vita anche a Castellammare perché, per fortuna, mio padre non aveva bisogno del mio stipendio. Durante un’occupazione di fabbrica nel 1949, un operaio di Castellammare di nome Alfonso Romano si faceva portare il mangiare da sua figlia Gianna, una bella ragazza della quale mi innamorai. Ci sposammo nel 1950 nella cappella di San Catello della cattedrale, ed andammo ad abitare nella sua casa di piazza Amendola, davanti al cantiere navale. Sono andato in pensione nel 1984. Dopo essere stato nominato “maestro del lavoro” mi sono sempre occupato e mi occupo anche oggi di turismo, in qualità di volontario. Mi ha fatto molto piacere conoscere il vicepresidente dell’ANMI che mi ha sollecitato a raccontare la mia storia per inserirla in una raccolta di altre storie di marinai di Castellammare e dintorni.


Note:
(1) La Scuola C.R.E.M. di Pola era una grande struttura rilevata dall’Aeronautica Militare e poteva ospitare fino a 2.800 Allievi e 250 Sottufficiali.
Alla Scuola vennero assegnati ben otto sommergibili, che costituirono il GRUPSOM 12, e un paio di navi appoggio/bersaglio. L’attività didattica iniziò nel settembre del ’40 sotto il comando del Capitano di Corvetta Folco Buonamici. L’attività addestrativa, teorica e pratica, si articolava su diverse linee: tirocini di comando, tirocini per ufficiali di SM, per ufficiali GN e Direttori di Macchina, per sottufficiali, per marinai, per timonieri orizzontali. Per questi ultimi, nel settembre del ’40, si prese in considerazione l’acquisto di un certo “apparecchio tedesco per l’istruzione e l’allenamento dei timonieri agli orizzontali”, forse un antesignano del nostro allenatore d’immersione, ma del quale non si hanno ulteriori notizie. Nel febbraio del ’42 la Scuola si ampliò riorganizzandosi su due componenti: la Sezione didattica (che rimase a Pola) e la Sezione tattica (che aprì i battenti a Fiume) dove era più agevole svolgere l’attività lancistica.
Nei primi tre anni di vita la Scuola addestrò circa 700 ufficiali e oltre 5000 militari di tutti i gradi.
L’attività didattico-formativa continuò anche durante il II conflitto mondiale.
All’armistizio la Scuola Sommergibili venne spostata a Taranto ove si era ricostituito il Comando Sommergibili, riprendendo le attività nel dicembre del ’43.

(2) Il sommergibile Fratelli Bandiera entrò in servizio nel 1930 e fu dislocato a Massaua per verificare le capacità operative in climi caldi, all’entrata in guerra fu dislocato a Trapani. Effettuò numerose missioni in Mediterraneo centrale e occidentale, venuto più volte a contatto con il nemico lanciò numerosi siluri senza risultati certi. Nella primavera del 1942 venne inviato a Pola alla Scuola Sommergibili. L’ 8.9.1943 si recò a Taranto e fino alla fine della guerra venne impiegato come mezzo addestrativo per le unità antisom italiane e alleate. Al termine del conflitto fu radiato e demolito. Il battello era lungo metri 69,8 largo 7,22 e con un’immersione di 5,18. Il suo dislocamento era di 933 tonnellate in superficie e 1.142 in immersione. L’apparato motore era composto da motori diesel da 3.000 cavalli e motori elettrici da 1.300 cavalli; la sua velocità era di 15,5 nodi in superficie e 8,2 in immersione. L’armamento era composto da 1 cannone da 102 mm , 2 mitraglie da 13,2 mm e 8 tubi lancia siluri da 533 mm ( 4 prora e 4 a poppa).

(3) Piroscafo passeggeri di 7095 tonnellate di stazza lorda, fu costruito nel 1916, appartenente alla Soc. An. di Navigazione Lloyd Triestino con sede a Trieste. Iscritto nel Compartimento Marittimo di Venezia con la matricola n. 301. Fu requisito dalla Regia Marina il 22 dicembre 1942 fino all’8 settembre 1943.

(4) I sommergibili polacchi, malgrado alcune perdite, riuscirono a prendere il largo e si rifugiarono in Gran Bretagna continuando a combattere. Il sommergibile Sokol ( falcone in polacco) fu varato nel 1940 per la Marina inglese con il nome di HMS Urchin ma, nel gennaio del 1941, fu assegnato alla Marina polacca in esilio.
Era un battello costruito dalla ditta Vickers-Armstrong di 730 tonnellate, lungo 58,11 metri e largo 4.90 armato con 4 tubi lanciasiluri da 533 mm , 1 cannone e 3 mitraglie. Nella sua attività bellica, svolta principalmente nel Mediterraneo con base a Malta, affondò o danneggio ben19 navi tra cui la motonave Città di Palermo, danneggiata al largo di Ischia il 21 ottobre 1941; il piroscafo da carico Balilla, danneggiato il 2 novembre 1941 al largo di Capo San Vito; il Cacciatorpediniere Aviere, danneggiato 19 novembre del 1941; il motoveliero da carico Giuseppina di 992 tonnellate, affondato a cannonate il 12 febbraio 1942 al largo di Tunisi; il motoveliero da carico di 64 tonnellate Argentina affondato a silurate l’11 novembre 1943 nell’Egeo. Il Sokol tornò alla Royal Navy il 27 luglio del 1945.

(5) La sera del 12 marzo 1945 vi fu un’operazione di guerra da parte di uomini provenienti dalle formazioni di montagna e di pianura e del Fronte della Gioventù, al Teatro Goldoni: alle 21,16 precise, mentre andava in scena una rappresentazione di Luigi Pirandello “Vestire gli Ignudi”, un gruppo di partigiani mascherati e con armi in pugno, entrarono in scena e uno di loro incitò: “Veneziani, l’ultimo quarto d’ora per Hitler e i traditori fascisti sta per scoccare. Lottate con noi per la causa della Liberazione nazionale e per lo schiacciamento definitivo del nazifascismo. La Liberazione è vicina! Stringetevi intorno al Comitato di Liberazione Nazionale e alle bandiere degli eroici partigiani che combattono per la libertà d’Italia dal giogo nazifascista. Noi lottiamo per poter garantire, attraverso la democrazia progressiva e l’unità di tutti i partiti antifascisti, l’avvenire e la ricostruzione della nostra Patria. A morte il fascismo! Libertà ai popoli! Viva il Fronte della Gioventù!”. In seguito fecero distribuire dei volantini di propaganda antifascista. Questa operazione è conosciuta come la “Beffa del Teatro Goldoni” che aiutò la popolazione veneziana in un periodo di depressione a scuotere gli animi ormai assopiti dalla continua pressione nazifascista riaccendendo così la fiamma della speranza di una possibile e concreta Resistenza contro il regime totalitario.

(6) A seguito delle clausole armistiziali, il 9 settembre 1943 ricevette l’ordine del Re di consegnarsi a Malta insieme al resto della flotta e nel pomeriggio mosse per la sua destinazione scortato dalla torpediniera Sagittario e dalla corvetta Urania. L’equipaggio, rendendosi conto della destinazione, guidato da alcuni ufficiali e sottufficiali tentò di impadronirsi della nave, per riportarla indietro ed autoaffondare la nave. Il comandante dell’unità, il Capitano di fregata Vittore Carminati dopo una notte di trattative, riuscì a riprendere il controllo della situazione e alle 12.45 del giorno seguente il Giulio Cesare si ricongiunse con la nave appoggio Miraglia proveniente da Venezia e dopo avere respinto nella mattinata dell’11 settembre un attacco aereo tedesco raggiunse Taranto alle 14:00 dello stesso giorno per poi proseguire per Malta insieme alle corazzate Doria, e Duilio. Successivamente il Giulio Cesare venne ceduto, nel 1949, all’Unione sovietica in ottemperanza alle clausole del Trattato di pace come risarcimento per danni di guerra e ribattezzato prima con la sigla Z11 e poi Novorossijsk. Anche per questo episodio i marinai italiani tentarono di autoaffondare la loro nave.

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