Contratto d’Area torrese stabiese (parte IV)

di Raffaele Scala

Eccoci alla quarta puntata. Mi avvio lentamente alla conclusione. Non so se questa storia ha trovato riscontro nei nostri lettori, in quanti si sono o meno appassionati a queste vicende di venti anni fa e che a loro modo hanno determinato, nel bene e nel male, la storia della nostra Città. Di sicuro all’epoca vi fu una larga partecipazione di popolo alle vicende sindacali, in molti credettero che la svolta fosse possibile, che la rinascita di Castellammare potesse concretizzarsi, grazie alle lotte, spesso violenti, della classe operaia. Così non è stato. Perché questo è accaduto proveremo a dirlo nella puntata finale di questa storia.

Ringraziandovi come sempre per la vostra preziosa disponibilità. Raffaele Scala.

Notturna sui cantieri

Notturna sui cantieri (foto Giuseppe Zingone)

Storia del Contratto d’Area torrese stabiese. 1991 -1996

Capitolo Quarto:

Le elezioni politiche del 21 aprile 1996

Quanto più si magnificavano i progetti, tanto più esplodevano le polemiche e l’ultima di quel febbraio ’96 fu ancora una volta tra la Fiom e il Segretario della Camera del Lavoro. Catello Di Maio continuava a denunciare la carenza di piani industriali e Giovanni Zeno accusava a sua volta il segretario dei metalmeccanici comprensoriali di porsi (…) fuori della linea di ricerca che i diversi soggetti sociali e di governo stanno compiendo in questa fase (…). Le sue dichiarazioni, secondo Zeno alimentavano soltanto pericolose contrapposizioni. In realtà nulla di quanto si andava sottoscrivendo corrispondeva a fatti concreti ravvicinati e, al di fuori dei proclami, ci si dibatteva quotidianamente con disoccupati organizzati sempre pronti a occupare ora le sedi sindacali, come la Camera del Lavoro oplontina, ora i municipi delle due più importanti città industriali dell’area, Castellammare e Torre Annunziata. Si alzavano tende e si facevano digiuni per protestare contro tutto e tutti, mentre i lavoratori in cassa integrazione vivevano in un disagio sempre maggiore, sconcertati dai mille progetti reclamizzati e nessuno dei quali realizzati. Cominciavano così ad affiorare primi pesanti attacchi contro le organizzazioni sindacali, ritenute corresponsabili del mancato decollo industriale. L’11 marzo i lavoratori dei Cmc occuparono la sala consiliare del comune di Castellammare per protestare contro i ritardi istituzionali, mentre riprendeva il duello sulle diverse visioni, rispetto agli obiettivi da raggiungere, fra Zeno e la Fiom. Le polemiche apparvero sulla stampa, dove si scriveva di scontro nel sindacato, di spaccature nella Cgil stabiese, di scintille tra la Fiom e la Cgil sui progetti produttivi. La Fiom continuava a chiedere garanzie per le industrie metalmeccaniche e questo trovava il sostegno del suo Segretario Generale nazionale, Claudio Sabbatini (1938 – 2003), venuto il 18 marzo a Castellammare per partecipare a un convegno appositamente indetto dai metalmeccanici comprensoriali. Nella polemica s’inseriva Catello Agretti, Responsabile zonale della Uil e un ventennio di storia metalmeccanica alle spalle, sostenendo le stesse posizioni della Fiom. Dalla sua trincea, irremovibile, Zeno accusava gli altri dirigenti sindacali di avere una visione miope della strategia sindacale, di accontentarsi di governare l’ordinario, senza guardare lontano, al disegno più ampio di ricostruzione e rilancio del territorio. In lui era forte la convinzione di poter andare oltre gli insediamenti industriali annunciati, convinto della possibilità di allargare gli orizzonti economici, valorizzando le varie potenzialità offerte dall’area, da quelle archeologiche, turistiche alberghiere, al terziario.

Intanto si tenevano in aprile le elezioni politiche e per la coalizione di Centro sinistra, raggruppata sotto il simbolo dell’Ulivo guidata da Romano Prodi, il profumo della vittoria era nell’aria. Di questo erano consapevoli tutti i maggiori dirigenti e la stessa base ne era convinta e sosteneva con nuovo entusiasmo le parole d’ordine lanciate dai loro leader sul labour day, l’appuntamento nazionale dell’Ulivo lanciato in 400 piazze e Castellammare scelta come simbolo del riscatto del Sud in lotta contro la disoccupazione e la camorra.1 La sera del 14 aprile, in diecimila riempirono i viali alberati della villa comunale per applaudire i comizi di Romano Prodi, Walter Veltroni e Antonio Bassolino. Porteremo al Governo il mondo del lavoro, diceva Bassolino. Vi garantisco che quello dell’Ulivo sarà il governo del lavoro e del riscatto del Mezzogiorno, replicava Prodi tra gli applausi frenetici dei suoi elettori.2 In quelle settimane che precedettero le elezioni politiche il nome del Segretario Generale comprensoriale della Cgil entrò ancora una volta nel vortice delle candidature possibili e c’era chi ipotizzava un seggio al senato in sostituzione dell’uscente Enrico Pelella, (1942 – 2010) eletto nel collegio di Torre del Greco nelle precedenti elezioni tenute il 5 aprile 1992. Non a caso nelle ultime settimane i rapporti tra i due erano diventati improvvisamente tesi, al limite della rottura, ma questa volta le probabilità di successo delle ambizioni del sindacalista si rivelarono ancora più deboli, completamente prive di consistenza perché non sostenute in nessuna autorevole sede, se non da qualche dirigente politico provinciale incapace di dirgli di no.

Mentre il 21 aprile Romano Prodi vinceva le elezioni portando con sé, per la prima volta nella storia d’Italia, gli eredi del Pci al governo con il piccolo contributo della vecchia Stalingrado del Sud, generosa di voti a favore della coalizione di Centro sinistra,3 i 127 lavoratori dei Cmc, guidati dal loro leader di fabbrica, Ciro Macera, uno scaltro rappresentante sindacale della Fiom, cui non mancavano arguzia e furbizia, da anni alla testa di tutte le lotte metalmeccaniche della sua fabbrica, occuparono il municipio, alla vigilia della festa del primo maggio, con l’intenzione di restarvi fino a quando il ministro del lavoro, Tiziano Treu, non avesse sbloccato i fondi previsti dalla legge 236/93, per consentire l’acquisizione degli ultra centenari Cantieri Meridionali Castellammare (CMC), da parte della Tess e fare avviare i progetti previsti sull’area. Da mesi gli operai della fabbrica specializzata nella costruzione di carri ferroviari e di proprietà della Fervet di Bergamo, non percepivano il sussidio della cassa integrazione e gli animi erano esacerbati. Il sindaco, Catello Polito, comunicò ai lavoratori tutta la propria solidarietà e sottolineando come la responsabilità dei ritardi non era da imputare alla sua amministrazione. Soltanto nella tarda serata del 3 maggio, dopo quattro giorni d’occupazione dell’aula consiliare, di blocco degli uffici e delle attività municipali, gli scioperanti lasciarono l’antichissimo Palazzo Farnese, con la garanzia avuta dai parlamentari del collegio della prossima firma del decreto di stanziamento dei 19 miliardi della legge 236/93.

Il IV Congresso comprensoriale della Camera del Lavoro nel 1996

Il 23 e 24 maggio si tenne all’Hotel Oriente di Vico Equense il IV e ultimo congresso comprensoriale della Cgil, dovendosi sancire lo scioglimento delle strutture comprensoriali e l’unificazione con Napoli, ripristinando la Camera Confederale del Lavoro provinciale entro i successivi sei mesi. Il clima nel sindacato comprensoriale era incandescente, tra incomprensioni, divisioni e rotture violente tra Zeno e gli altri componenti della segreteria.  Consapevole della definitiva chiusura di una lunga fase, quella dell’unità dei gruppi dirigenti sindacali locali, Zeno cercò nuove alleanze nei gruppi legati all’area d’Alternativa Sindacale, la componente di sinistra nata dalle ceneri di Essere Sindacato, politicamente legata, nelle idee e nella strategia al partito di Rifondazione Comunista, ma contemporaneamente cercò di legarsi anche all’eterogeneo raggruppamento sindacale coalizzatosi, nella fase precongressuale, contro la forte maggioranza detenuta da Michele Gravano e Antonio Crispi, Segretari generali di Napoli e della Campania. Purtroppo per Zeno entrambi i gruppi di cui cercò l’alleanza, probabilmente senza crederci molto, erano molto deboli a Castellammare, potendo contare quasi esclusivamente sulla Filcams guidata dal fedelissimo Antonio Aprea, su una parte dello Spi, il potente sindacato dei pensionati, sulle simpatie sparse fra alcuni delegati di fabbrica e d’enti pubblici, compresi fra questi quelli facenti capo ad Alternativa Sindacale.

A queste condizioni la sconfitta congressuale fu inevitabile e vide la personale umiliazione di Giovanni Zeno sotto il profilo dei consensi ottenuti nei voti scaturiti dal segreto dell’urna nella elezione finale per eleggere i delegati ai congressi provinciale e regionale. A rendere ancora più insopportabile la sconfitta fu lo scandire continuo della lettura dei voti sui nomi di Raffaele Scala e Alfonso Natale, sui quali si concentrò la maggioranza assoluta dei voti, anche grazie al voto compatto dei delegati di Torre Annunziata sul Segretario della loro Camera del Lavoro, provocando nuove tensioni e la rottura insanabile con Zeno. Giovanni assisteva, pallido, silenzioso e impassibile, alla sua sconfitta, constatando che alla fine non arrivò neanche terzo, superato da Giovanni Di Lauro, un impiegato comunale di Boscotrecase, attivo militante e dirigente della potente categoria della Funzione Pubblica Cgil, che per qualche tempo aveva diretto, con Acanfora, la stessa Camera del Lavoro di Torre Annunziata e da Catello Di Maio, che si era mostrato il più feroce antagonista di Zeno in quegli ultimi mesi, con violenti scontri verbali, al calor bianco. Il voto negativo impedì quindi la riconferma di Giovanni a Segretario Generale, congelando la stessa segreteria trasformata in Coordinamento nell’attesa dei successivi sviluppi. A Napoli erano invece rieletti senza problemi Michele Gravano e Antonio Crispi nelle rispettive cariche di Segretari Generali di Napoli e della Campania. Quello stesso pomeriggio Giovanni dimostro tutto il suo sangue freddo quando, finito il congresso e andati via tutti i delegati, rimase a godersi l’ultimo sole sul terrazzo dell’Hotel con il ristretto gruppo dirigente del comprensorio, gli stessi che gli avevano voltato le spalle e votato contro. Lo scenario che si presentava a un eventuale spettatore esterno era quello di un gruppo di amici che si godeva un pomeriggio di sole, senza sapere come tutto era invece quasi irreale. Una decina di dirigenti sindacali, tra cui gli stessi Alfonso Natale, Raffaele Scala, Giovanni Di Lauro e Catello Di Maio, seduti a cerchio sulle rispettive sedie su quel terrazzo assolato, a mangiarsi un gelato offerto dallo stesso Zeno. Con lo stesso sconfitto segretario a tenere come sempre banco, parlando del più e del meno, senza nessuno accenno a quanto era accaduto. Neanche il suo leale compagno di sempre, Antonio Aprea, seduto al suo fianco, proferì parola che non fosse di scherzo, reprimendo il probabile fuoco che gli covava dentro, la voglia, forse, di gridare il suo sdegno, probabilmente suggerito dallo stesso Zeno. Completavano quella singolare compagnia, in quello strano pomeriggio di maggio, Pasquale Nigro della segreteria della Fillea, Pasquale Petrazzuolo, Alfonso Selleri e Antonio Santomassimo. I gentlemen della più raffinata scuola inglese non avrebbero saputo sfoggiare un miglior savoirfaire, mostrando, rimanendo sul francese, da parte di più d’uno, un inaspettato e insospettabile, savoirvivre, a riprova di come cinismo e ipocrisia siano i pilastri sui quali si reggono le umane convivenze e i rapporti sociali, individuali e di gruppo.

Le vicende interne della Cgil non potevano naturalmente portare al blocco delle iniziative e il 1° e il 4 luglio, dopo una lunga serie di riunioni tecniche, alle quali non partecipava il sindacato, era sottoscritto a Napoli, nella sede della Regione Campania, l’Accordo di Programma per la reindustrializzazione dell’area Dalmine di Torre Annunziata, prevedendo un investimento di almeno 100 miliardi di lire e 631 nuovi posti di lavoro da ridistribuire nelle nuove 12 aziende da collocare sull’area dell’ex Tubi Dalmine Ilva, una delle due aziende in cui si era suddivisa la Dalmine nell’ambito della riorganizzazione dell’Ilva fin dal 1991. Il 30 luglio se ne prendeva atto e si informavano ufficialmente le organizzazioni sindacali in una riunione tenuta in Task Force a Roma. Il suo Presidente, Gianfranco Borghini, si ritrovò, forse per la prima volta, a tenere un incontro sereno tra le mille infuocate riunioni che da sempre caratterizzavano quelle tenute per l’area torrese stabiese. Lo stesso Verbale sottoscritto azzardava la possibilità di avviare finalmente a soluzione i problemi dell’emergenza occupazionale fin dal successivo ottobre, con i primi insediamenti derivanti dai piani di reindustrializzazione scaturiti dall’Accordo di Programma.

Naturalmente, ancora una volta, niente era più lontano dalla realtà, di quell’incauta affermazione, se ancora nel marzo 1999 erano soltanto due le aziende effettivamente collocate sulle dodici previste e con poche assunzioni effettuate. L’accordo, salutato così entusiasticamente dai suoi firmatari, non vedrà mai la sua piena realizzazione perché anche quando le aziende, alcune delle quali diverse da quelle in principio progettate, riusciranno effettivamente a insediarsi, andranno poi in crisi subito dopo, provocando un nuovo terremoto fin dall’inizio del nuovo secolo. Un terzo millennio iniziato, come meglio vedremo, all’insegna di nuove, solitarie lotte operaie, per difendere il proprio posto di lavoro, senza il respiro largo di un progetto ormai scomparso, come il sogno svanito di una stagione irripetibile e pertanto destinato a una inevitabile, dura sconfitta.

Qualche giorno dopo, l’8 agosto, una delibera del Cipe, il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica, apriva la strada verso la realizzazione di nuove iniziative produttive con la stessa partecipazione di minoranza della Gepi. Ancora una volta l’euforia si sparse e Catello Polito, ancora una volta, non seppe frenare la propria enfasi dichiarando

Oggi è il giorno della soddisfazione, abbiamo raggiunto un tassello fondamentale, quello che realmente fa tornare gli operai in fabbrica e darà una risposta anche alla disoccupazione intellettuale.

Altri, presi dall’ingordigia dei 200 miliardi di lire piovute sulla Tess, furono presi da parossismo campanilistico: Chiediamo che siano messi alcuni fondamentali paletti – gridava Catello Dello Ioio, un consigliere comunale stabiese, assurto a Presidente delle Terme Stabiane nel novembre 2010, ex democristiano, passato col Centro cristiano democratici (Ccd), uno dei tanti partiti nati dall’implosione della Democrazia Cristiana e fondato da Pier Ferdinando Casini, Clemente Mastella e Francesco D’Onofrio, rifiutando di aderire al neonato Partito Popolare entrambi sorti il 18 gennaio 1994

Primo fra tutti quello di capire che ruolo avrà Castellammare in tutti i progetti Tess. In sostanza quanti di questi miliardi resteranno nella nostra città e quanti altrove. Non dimentichiamo che tutto il discorso è nato a Castellammare, città che ne dovrebbe essere anche la principale protagonista (…).4

Già vaccinati contro le docce fredde delle passate esperienze, le rappresentanze operaie invitavano invece alla cautela. Non avevano torto gli operai. Nel 1993 si era parlato di dare soluzione ai problemi del territorio inventandosi l’Area di crisi Torrese stabiese, con una pioggia di miliardi prossimi a venire, di cui nessuno aveva mai visto l’ombra, poi nel 1994 si era pubblicizzato il Protocollo d’Intesa, sottoscritto il 19 dicembre con Silvio Berlusconi, 19 progetti e un altro mare di miliardi rimasti sulla carta, infine ci si era inventati il Contratto di Programma aperto, istituito con la programmazione negoziata nel 1995, facendo gridare al miracolo dei 200 miliardi e dei mille posti di lavoro in quel bollente agosto 1996. Ma non si era ancora spenta l’eco di questa nuova magica formula, quando nei primi giorni di settembre si cominciò a vociferare di una nuova intesa tra Governo e Cgil Cisl Uil nazionali, di un Patto in grado di favorire investimenti e lavoro, inventando un nuovo strumento di sviluppo dell’area al fine di creare occupazione:

Via libera alla flessibilità salariale e di orario nelle aree di crisi. Governo, sindacati e confindustria hanno raggiunto ieri, durante l’incontro sull’occupazione a Palazzo Chigi, un’intesa di massima su un nuovo strumento contrattuale da applicare nelle aree a più basso tasso di sviluppo e a maggiore tensione occupazionale a partire dal Mezzogiorno.5

Era il Contratto d’Area, da sperimentare in tre delle aree più disastrate del sud, sulle 62 già censite a livello nazionale dalla Task Force: Crotone, Manfredonia e area torrese stabiese. Il 24 settembre, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Sergio Cofferati, Sergio D’Antoni e Pietro Larizza, sottoscrivevano il Patto per il Lavoro, impiantato sulla flessibilità del lavoro e la deregulation, con Romano Prodi, aprendo la strada a nuove e più feroci liberalizzazioni del mercato del lavoro perseguite dalla destra e non osteggiate da una sinistra sempre più dimentica delle sue origini. Seguivano le firme di altre 18 sigle di organizzazioni sindacali di lavoratori e imprenditori. Il Patto sarebbe stato accompagnato dall’impegno di tenere una Conferenza nazionale sul lavoro da tenersi a Napoli, ma dopo numerosi rinvii non se ne sarebbe fatto più niente, nonostante i reiterati impegni formali assunti dallo stesso Prodi.

L’accordo non era stato ancora firmato e già Ersilia Salvato, la stabiese fondatrice di Rifondazione Comunista, Vice presidente del senato, parlava di colonialismo, di ritorno alle gabbie salariali, d’offesa alla dignità dei lavoratori.6 Anni dopo il Patto per il lavoro sarebbe stato messo in soffitta da un altro più micidiale strumento di riforma del mercato del lavoro, trasformato in legge nel 2003 dal secondo governo Berlusconi, la cosiddetta Legge Biagi, costata la vita al suo autore, consulente del Ministro del lavoro, assassinato il 19 marzo 2002 dalle Brigate Rosse. La legge 30, di fatto, regolarizzò e istituzionalizzò la precarietà del lavoro giovanile, in particolare nel Mezzogiorno, dove, per molti, troppi imprenditori, le Leggi, spesso, più che rispettate sono interpretate a proprio uso e consumo.

Nata per far emergere il lavoro nero, liberando il mercato del lavoro da eccessive rigidità, la legge 30 del 2003 di fatto restringerà di parecchio le porte per accedere al lavoro a tempo indeterminato, facendo dilagare, in particolare nel Mezzogiorno, il lavoro grigio con centinaia di migliaia di nuovi precari, in particolare giovani, per i quali sarà vietato programmare il futuro. Infatti le aziende troveranno molto più comodo assumere giovani utilizzando le numerose tipologie contrattuali offerte dalla nuova legge, tutte rigorosamente precarie: dal lavoro a termine, prorogabile oltre misura, al contratto d’inserimento in sostituzione del vecchio contratto di formazione, al lavoro intermittente, realizzando il sogno di ogni datore di lavoro, quello di avere i lavoratori solo quando servono e per il resto a casa, collaborazioni a progetto dietro i quali si nasconde lo sfruttamento più vergognoso come potrebbero dimostrare le migliaia di ragazze assunte presso i call center e non solo, somministrazione a tempo determinato in sostituzione del lavoro interinale e, infine, nuove forme di part time consentite perfino nel settore edile per la gioia di tutti quegli imprenditori truffaldini che stanno assumendo operai edili pagandoli part time, ma facendoli lavorare, naturalmente, otto o più ore giornaliere.

  Contro questa nuova forma di sfruttamento legale, la Cgil, in disaccordo con Cisl e Uil, proclamerà inutilmente lo sciopero generale e numerose proteste, ma il nuovo gelido vento di destra e il declino economico e civile attraversato dall’Italia saranno formidabili deterrenti capaci di frenare le pur appassionanti lotte della sinistra sociale e politica. Un freno tanto più micidiale quanto la profonda, irreversibile crisi politica della sinistra, in particolare quella comunista, sempre più litigiosa e frammentata al suo interno, priva di idee, di programmi e di leader capaci di indirizzare il movimento operaio verso una nuova e più moderna prospettiva di lotta e di governo.

La contraddizione più grande si avrà nel luglio 2007 quando al governo del Paese ci sarà nuovamente il centro sinistra di Romano Prodi. In 32 pagine scritte dal ministro del lavoro, Cesare Damiano, ex sindacalista della Cgil, sono riformate le pensioni volute dal precedente ministro leghista, Roberto Maroni, gli ammortizzatori sociali e confermato sostanzialmente l’impianto complessivo della legge Biagi con palese soddisfazione di Cisl e Uil, mentre un’imbarazzata Cgil guidata da Guglielmo Epifani si accontenterà di una ripulita delle questioni più controverse legate alle forme flessibili del mercato del lavoro disegnate dalla  legge 30, in precedenza tanto ferocemente combattuta.

In ottobre si avviarono nella Cgil napoletana le prime riunioni per consentire la costituzione della Camera del Lavoro Metropolitana, con il completamento della segreteria provinciale e regionale. Quasi contemporaneamente avvenne una sorta di scissione nell’area di Alternativa Sindacale campana. Da un lato si costituiva l’area Programmatica dei comunisti della Cgil, composta dai duri e puri iscritti a Rifondazione Comunista guidata da Giuseppe Di Iorio, dall’altra, e in contrapposizione alla prima, nasceva l’Area di Alternativa Sindacale, ala dei comunisti moderati facente capo a Luigi Servo.

Si aprì una fase complessa, di rotture tra le due aree, ma soprattutto nei confronti della maggioranza che governava la Cgil a livello campano e napoletano, sfociando, il 5 novembre, nell’occupazione della stanza di Antonio Crispi, Segretario Generale regionale da parte di un gruppo dell’ala filo bertinottiana. A causare la ribellione era stata l’esclusione di ogni loro rappresentanza dal costituente Comitato direttivo della nascente Federazione di secondo livello per le politiche formative e di ricerca, così come era stato stabilito dal Direttivo confederale della Cgil regionale. Qualche giorno dopo, l’eccentrico e furbo Renato Sellitto, antico operaio e delegato di fabbrica dell’Italsider, segretario provinciale dei chimici (Filcea Cgil) e della Camera del Lavoro negli anni Settanta, uno dei leader dei comunisti programmatici eletto dallo stesso direttivo del 5 novembre nel Comitato dei Saggi, strumento congressuale per consultare i membri del direttivo per completare l’elezione della nuova segreteria, si dimetteva dall’incarico per protesta e in segno di solidarietà contro l’esclusione dei comunisti programmatici.

Sulla stampa locale iniziava, intanto, il balletto sulle candidature nelle due segreterie, quella napoletana e quella regionale. Il direttivo campano pose fine a ogni polemica il 16 di quello stesso mese eleggendo nella segreteria regionale Massimo Angrisano, Vito Barile, Maria Giuliano e Paolo Giuliano, aggiungendosi ad Antonio Crispi, Gianni De Luca e Claudio Refuto, originario quest’ultimo di Torre Annunziata, già segretario provinciale e regionale della Filziat, il sindacato degli alimentaristi, eletti direttamente dai delegati del congresso tenutosi a giugno. Più complesse le vicende della Camera del Lavoro di Napoli, perché fu necessario attendere maggio 1997 per arrivare a definire la nuova segreteria provinciale con l’ingresso di Alfonso Natale dell’area torrese stabiese. Negli oltre cinquant’anni di storia repubblicana della Cgil napoletana, soltanto altri due stabiesi avevano avuto la possibilità di essere eletti in una segreteria provinciale della Camera del Lavoro, ed erano stati Gennaro Ricolo, tra la fine degli anni ’40 e gli inizi degli anni ’50 e Luigi Alfano tra il 1968 e il 1972.

Intanto il nuovo strumento individuato per risollevare le sorti delle aree di crisi, il Contratto d’Area, rimaneva ancora una vuota formula e inutilmente in un seminario proposto dall’Istituto Nazionale di Urbanistica e dalla Cgil campana il 17 gennaio 1997, all’Hotel Stabia di Castellammare, Angelo Airoldi si sforzava di dimostrare come su quest’area vi fosse la massima attenzione nazionale sia da parte del sindacato sia dello stesso governo. Non la pensavano allo stesso modo gli operai delle fabbriche in crisi e non a caso, appena cinque giorni dopo, organizzarono una manifestazione conclusasi con un’assemblea aperta nella Tecnotubi con la partecipazione dello stesso sindaco di Torre Annunziata, Francesco Maria Cucolo e i tre responsabili confederali dell’area, Scala, Vitagliano e Agretti. Partivano da qui nuove richieste d’incontro verso la Presidenza del Consiglio, nuovi appelli a fare presto, a non lasciare nella disperazione centinaia di lavoratori sempre più senza speranza. Seguiva una nuova riunione in Task Force con l’ennesimo verbale di riunione farcito d’impegni riguardanti lo stato d’attuazione dei progetti di reindustrializzazione, di reimpiego e ridefinizione della necessità di misure di sostegno al reddito in scadenza, ma senza nessuna effettiva garanzia di ottenere nuove proroghe.

L’incertezza degli eventi provocò una nuova violenta reazione dei lavoratori con l’occupazione dell’aula consiliare del comune di Torre Annunziata. Nella stessa giornata il sindaco Cucolo scrisse al sottosegretario al Bilancio, Isaia Sales, al presidente della Task force, Gianfranco Borghini, al Ministro del Lavoro, Tiziano Treu e al Prefetto di Napoli, Achille Catalani, facendo presente quanto accadeva nella sua città e chiedendo di rimuovere le difficoltà che ostacolano la convocazione dell’incontro necessario alla definizione dei programmi d’investimento e alla realizzazione dei progetti industriali interessanti il territorio e il reimpiego di tutti i lavoratori del territorio esclusi dalla produzione (…) drammatiche sono le tensioni sociali che si possono produrre inrelazione al fatto che sono in scadenza gli istituti di sostegno al reddito, il cui rinnovo va strettamente collegato ai processi di deindustrializzazione da tempo annunciati e propostidalle imprese e dalla Tess (…).

Dello stesso tenore la richiesta d’incontro urgente da parte delle tre organizzazioni sindacali confederali territoriali, Cgil Cisl Uil.

Gli operai delle diverse fabbriche metalmeccaniche e delle costruzioni ebbero appena il tempo di abbandonare l’aula consiliare, quando questa fu occupata da un gruppo di disoccupati organizzati in segno di protesta contro la Giunta comunale perché, a loro dire, si consentiva di spendere alcune decine di milioni di lire per manifestazioni in concomitanza con il carnevale, lasciando senza sussidio le famiglie povere della città, non a caso considerata la capitale dei disoccupati e dei cassaintegrati. La protesta si allargò contro le organizzazioni sindacali accusate di tutelare soltanto chi aveva già un lavoro.

Triste destino quello del Palazzo Comunale di Torre Annunziata, diventato terra di nessuno, alla merce di chiunque, gruppo, corporazione o altro avesse rivendicazioni da fare, a qualunque titolo, giustificato o meno. Davvero divenne, l’antico Palazzo Criscuolo, il municipio più assaltato d’Italia, conquistando un primato paradossale perché frutto dell’idea di poter chiedere a un’istituzione come quella comunale, risposte che non poteva dare se non molto parzialmente.  Sui giornali si sprecavano intanto i titoli: L’area torrese stabiese ad un passo dalla rivolta, scriveva il Globo nella sua pagina napoletana il 12 febbraio. A nulla serviva un comunicato della Tess annunciante la firma della convenzione con il ministero del lavoro per l’erogazione dei 19 miliardi necessari per acquisire le aree dismesse e l’assegnazione di ulteriori 9 miliardi dai fondi Fesr (Fondi Europei di Sviluppo Regionale) e Ministero del Lavoro per la formazione professionale di cassintegrati e disoccupati di lunga durata. Il tempo delle parole si era da tempo consumato. Gli operai gridavano, Roma, Roma, nelle sempre più infuocate assemblee alle quali partecipavano ormai non più soltanto i dirigenti sindacali ma perfino i due sindaci più esposti tra i 12 comuni dell’area Tess, Polito e Cucolo, e spesso gli stessi parlamentari della zona, Salvatore Vozza, Gianfranco Nappi ed Enrico Pelella, trascinati in un vortice dal quale nessuno era più in grado di uscire e sembrava ora inghiottire tutti, senza salvare nessuno, colpevoli e innocenti.

E venne il tempo di Roma, quando, il 20 febbraio, 400 scatenatissimi operai, residui delle otto fabbriche interessate alla reindustrializzazione, attraversarono le strade della capitale d’Italia. Inutilmente le forze dell’ordine provarono a fermarli. Quando si resero conto di trovarsi di fronte operai decisi a tutto, probabilmente avvertiti dalla stessa Questura di evitare guai maggiori, si rassegnarono ad aprire loro la strada, indirizzandoli prima verso la sede della Task Force e poi verso Palazzo Chigi. Lì si strappò un nuovo impegno per il 26, guadagnando una settimana di respiro, di pace sociale, cercando una soluzione impossibile a trovarsi. Ma sei giorni sono meno di un respiro per chi deve risolvere impegni mancati, false promesse, bugie inventate fondando su queste la propria carriera. E ricominciò il nuovo tour de force con i protagonisti di sempre, quattrocento disperati guidati dai loro dirigenti sindacali, delegati di fabbrica e segretari territoriali, raggruppati in una folta delegazione per un faccia a faccia con i sottosegretari al lavoro, Federica Rossi Gasparrini e Antonio Pizzinato, conoscendo momenti di altissima drammaticità difficilmente narrabili. Catello Monaco, detto Zacchiello, leader degli ultras della squadra di calcio locale, consigliere comunale del Partito Popolare, capopopolo riconosciuto, uno dei delegati sindacali più duri e violenti e per questo temuto negli stessi palazzi del potere romano, mostrò l’intero suo repertorio di chiassosa violenza verbale, controllando a stento la rabbia fisica, scaricata su una sedia schizzata via. Ma nonostante tutto, com’era nelle cose, non ci fu soluzione ai problemi esposti comunque con grande dignità, pur tra momenti di panico e di dura tensione emotiva. Fu necessario un nuovo incontro, il giorno dopo, ma soltanto per strappare un impegno sulla proroga della cassa integrazione, ai sensi del comma 21, art. 4, legge 608, numeri diventati familiari alle centinaia d’operai perché a quel comma, a quell’articolo, era ormai legata la speranza per continuare a credere nel loro domani. Dai comunicati stampa emessi sia dalle organizzazioni sindacali, sia dal ministero del lavoro, non emergeva, se non tra le righe, quanto alta era stata la tensione durante quei due turbolenti giorni romani. Se la proroga della cassa integrazione straordinaria per altri sei mesi servì a quietare, momentaneamente, gli animi, non un solo passo in avanti facevano tutte le altre questioni. Anzi, in alcuni casi si aggravavano con le dimissioni del terzo amministratore delegato della Tess, Giacinto Giardini. Subentrava nei primi giorni di maggio un nuovo funzionario targato Gepi, l’ingegnere Francesco Porfilio, sul quale molte polemiche saranno sollevate durante tutto il suo mandato.

Il 13 maggio si tenne una riunione in Task Force per prendere atto della richiesta avanzata dalle rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro per l’attivazione del contratto d’Area Torrese Stabiese e per constatare se vi erano i requisiti previsti dalla delibera Cipe del 21 marzo scorso. In questa delibera si dettavano le tre condizioni preliminari per accedere al Contratto d’Area:

  1.  avere le aree attrezzate per i nuovi insediamenti produttivi
  2.  possedere i progetti d’investimento
  3.  avere il soggetto intermediario

Con l’attivazione del nuovo strumento di programmazione negoziato si riaprirono le danze degli incontri istituzionali con i Comuni, la Provincia, la Regione e la Prefettura.

I lavoratori guardavano con sempre maggiore scetticismo quanto avveniva intorno a loro, incapaci talvolta anche di protestare, di reagire a stanchi rituali ripetuti all’infinito. Adagiati tra la cassa integrazione e i lavori socialmente utili, con i quali integravano lo scarso reddito, presso i comuni di Castellammare e Torre Annunziata, l’Asl 5, il Parco del Vesuvio e Iacp di Napoli, le ormai ex tute blu attendevano gli eventi tra rassegnazione e pregiudizi. A tenere desta l’attenzione venne, nei primi giorni di giugno, l’allarme da parte del sindacato unitario dei metalmeccanici, di una possibile chiusura dell’Avis, lo storico stabilimento stabiese specializzato nelle riparazioni delle carrozze ferroviarie per conto delle Ferrovie dello Stato. Di proprietà della Finmeccanica, l’Avis aveva conosciuto antichi splendori e aveva dato lavoro a oltre mille operai, ma di questi ora rimanevano soltanto 217 dipendenti, dopo la fuga in massa dei lavoratori in possesso de requisiti per ottenere il prepensionamento, approfittando dei benefici della legge sulla dismissione dell’utilizzo dell’amianto, per quanti ne avessero avuto contatto. Ci fu poi l’allarme della esclusione dall’area di crisi di tutti i comuni circondari di Castellammare e Torre Annunziata, con i quali si era dato vita alla Tess, pur come soci di minoranza. Questa notizia provocò in particolare l’ira dei sindaci di Pompei e Gragnano, Sandro Staiano e Sergio Troiano, tra i più attivi nella presentazione di progetti riguardanti il loro territorio.

Firma del preliminare del Contratto d’Area

Il 2 luglio conobbe invece un nuovo lampo di belligeranza da parte dei 400 lavoratori più esposti delle otto aziende in crisi irreversibile. Chiamati a manifestare contro la Regione Campania da Cgil Cisl Uil, i cipputi dell’area torrese stabiese non si tirarono indietro e portarono i loro mai esausti striscioni sotto il palazzo della Giunta regionale, teatro di mille manifestazioni. A causare l’ennesima protesta era stata la mancata convocazione, per un incontro richiesto ripetutamente fin dal 19 maggio dalle organizzazioni sindacali, da parte del Presidente della Giunta regionale, Antonio Rastrelli e dell’assessore, Francesco D’Ercole. Da qui la rumorosa marcia operaia su Santa Lucia, sede presidenziale della Giunta regionale. Da quell’incontro nessuno si aspettava risposte concrete, così come, infatti, accadde, e tutto si risolse con l’impegno di una nuova convocazione allargata ai sindaci, Tess, Provincia, Spi e Gepi. Di nuovo, pochi giorni dopo, venne la sottoscrizione in prefettura del protocollo sulla legalità, ultimo atto del Prefetto uscente, Achille Catalano, in procinto di essere sostituito da Giuseppe Romano. In quattro articoli si definivano gli interventi in materia di ordine e sicurezza sui territori dell’area torrese stabiese. In realtà uno dei tanti inutili documenti sottoscritti e rinnegati, senza nessuna reale applicazione per l’assoluta mancanza di volontà delle parti firmatarie. Nessuna esclusa. Avevano invece un’improvvisa accelerazione gli incontri istituzionali tesi ad approdare alla firma del Contratto d’Area, accompagnati da una campagna di stampa in cui si magnificava la rivoluzione di un esperimento primo in Italia, capace di modificare l’economia di un territorio attraverso agevolazioni fiscali, forme di flessibilità e incentivi a investimenti pubblici e privati. Cinquecento miliardi di lire, 15 nuove aziende e 2mila nuovi posti di lavoro, si scriveva a caratteri cubitali sulla stampa non soltanto locale, già dimentichi delle cocenti delusioni di quegli ultimi cinque anni.

Quando il 29 luglio si sottoscrisse l’attivazione del Contratto d’Area, in realtà un preliminare da sottoporre alla firma del Ministero del Tesoro, Bilancio e Programmazione Economica, in cui si prendeva atto delle positive caratteristiche del territorio torrese stabiese, con il solito orribile burocratico linguaggio:

Con riferimento all’esistenza di aree industriali attrezzate per insediamenti produttivi, di una pluralità di progetti di investimenti significativi, di un soggetto intermediario avente i requisiti per attivare una sovvenzione globale da parte dell’Unione Europea

Non mancarono, come sempre, le polemiche di rito. La rottura nacque subito, in piena riunione, perché oltre i soliti impegni ripetuti all’infinito, sembravano venir meno atti concreti che dessero il senso della svolta reale. Sotto accusa furono messi la Tess, la Regione e la stessa Task Force ritenuti incapaci di portare avanti quei progetti di cui da anni si parlava senza mai trasformarli in piani operativi. Nei giorni seguenti furono firmati gli altri due contratti preliminari per Crotone e Manfredonia e l’estate trascorse con Cgil Cisl Uil, locali e nazionali, a polemizzare al loro interno sulla flessibilità da concedere e sulla riduzione dei minimi salariali, salvo poi trovare unità d’intenti su altri fronti come quello sulla mobilitazione contro il secessionismo paventato a più riprese dalla Lega di Umberto Bossi, realizzando il 20 settembre le grandi manifestazioni tenutesi a Milano e Venezia.

Gli scontri sulle diverse vedute ripresero in ottobre, amplificate dai giornali e come sempre fu la Fiom comprensoriale a far sentire ancora una volta tutto il malessere della sua base sulle mille difficoltà in cui navigavano i piani di reindustrializzazione con un convegno tenuto il 14 di quel mese, mentre la Fillea si chiedeva quale fine avessero fatto piani e progetti sulle infrastrutture concordate e riconosciute da tutti come propedeutiche per qualsiasi sviluppo dell’area. Nelle stesse ore altre polemiche esplodevano sulla Erregi, la prima azienda nata dall’Accordo di Programma sulla Dalmine del 1° luglio 1996. Ancora prima d’insediarsi l’Erregi, azienda del gruppo Metecno, il cui progetto prevedeva la produzione di pannelli metallici per l’edilizia e l’assunzione di 70 dipendenti di cui 26 da reimpiegare dalla ex Tubi Dalmine, aveva provveduto a dieci nuove assunzioni inviandoli poi a Milano per un corso di formazione. Le proteste scaturivano per alcune assunzioni fatte a favore di persone provenienti da altre province e non, come prevedevano gli accordi sottoscritti, dagli esuberi fuoriusciti dalle fabbriche in crisi e, in subordine, dagli Uffici di collocamento dell’area torrese stabiese. Le accuse di clientelismo e di infiltrazioni camorristiche infiammarono gli animi di dirigenti sindacali e politici. Le prime accuse erano state lanciate dal Segretario della Camera del Lavoro di Torre Annunziata, Raffaele Scala, già il 24 settembre sul periodico locale, Metropolis, poi riprese sullo stesso giornale da Matteo Vitagliano, Responsabile locale della Cisl. Nella intervista rilasciata al periodico locale, Vitagliano, in polemica con il sindacalista della Cgil, escludeva a priori ogni ingerenza camorristica, calcando invece la mano su una pesante ipoteca clientelare di natura politica. In realtà le due ipotesi non si escludevano a vicenda.7

Intanto i parlamentari, Salvatore Vozza, Gianfranco Nappi ed Enrico Pelella scrivevano a Prodi chiedendo un suo intervento per superare la fase di stallo in cui era nuovamente precipitato il processo di reindustrializzazione dell’area e individuavano nei conflitti di competenze per le diverse autorizzazioni, nelle eccessive rigidità delle norme urbanistiche, nella mancanza di chiarezza sui progetti da realizzare e sugli investimenti da utilizzare i ritardi che, di fatto, impedivano l’effettivo decollo del Contratto d’Area. A ruota seguiva una denuncia di Cgil Cisl Uil, rivolta allo stesso Presidente del Consiglio, richiamando alle proprie responsabilità tutti i soggetti istituzionali coinvolti, ricordando gli impegni assunti da ciascuno, e non mantenuti, per garantire il rapido avvio del processo di sviluppo nell’area di crisi. A rinforzare il lamento sui ritardi accumulati, scendeva in campo Mario Rosanova: l’imprenditore di Sant’Antonio Abate aveva presentato un progetto per la realizzazione di un polo agro alimentare, in cui si prevedevano cinque nuove aziende e un investimento di cento miliardi, tali da garantire lavoro a 312 nuovi dipendenti. Cosa importa se il piano era reale o meno, l’importante era partecipare alla grancassa, far sentire la propria voce, far capire di esserci e di voler contare qualcosa.

Vere o presunte le proteste e i piagnistei, la situazione non si spostava di una virgola e a niente servirono, naturalmente, una riunione in Regione Campania il 5 novembre, con tutte le parti interessate e la successiva ricognizione di rito fatta il 10 in Task Force. L’ultimo incontro, se non altro, servì ad accelerare il provvedimento di proroga della cigs per altri otto mesi, riguardante 2.700 lavoratori delle diverse aree di crisi, tra cui Crotone e Manfredonia, oltre i 400 del torrese stabiese.

Continua…

 

N.B.: chiunque possa e voglia fornire notizie e foto utili all’approfondimento dei temi trattati può contattarmi tramite la mail raffaele_scala@libero.it. Grazie.


Note: 

  1. L’Unità del 12 aprile 1996: Il Laburday sbarca in 400 piazze d’Italia
  2.  Il Mattino del 14 aprile 2006: Più lavoro al Sud se perde la camorra, art. di Franco Mancusi
  3. Il candidato dell’Ulivo, Salvatore Vozza, già membro del Comitato Centrale del Pci dal 1986 e del Consiglio Nazionale del PDS dal Congresso costitutivo tenutosi nel 1991, ebbe il 54,95% contro il 40,93% di Massimo De Angelis del Polo della Libertà e il 4,11 di Massimo Laureano, candidato del Movimento Sociale Tricolore, nel proporzionale il PDS conquistò nel collegio di Castellammare il 24,26% dei consensi, seguito da Forza Italia fermo al 23,36% , cfr. l’Archivio storico del Ministero dell’Interno
  4. Il Mattino del 28 luglio 1996: Tess, ora fatti non più parole, art. di Giuliana Caso
  5. Il Mattino del 7 settembre 1996: Arrivano al Sud i salari flessibili, art. di Giusy Franzese
  6. La Repubblica, 8 settembre 1996: Ersilia Salvato: colonialismo, di Antonio Ragone
  7.  Metropoli, anno IV, n. 40 del 15 ottobre 1997: Dalmine, l’accusa dei sindacati, art. di Emanuela Cirillo

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