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Viviani: Il fatto di cronaca che ispirò Padroni di Barche

a cura di Cristian Izzo

È recentissimo il dibattito acceso, riguardante un particolare genere di prodotto televisivo di tendenza in questo momento, sul tema della influenza reciproca tra la realtà e la trasposizione in artificio di vicende reali.

Diremmo, pertinentemente, che, se quando si tratta di cinema o televisione (essendosi questi mezzi da sempre auto-attribuiti un fine documentaristico ed imitativo – basti pensare che il cinema nasce dalla fotografia) l’ambiguità dilaga e la confusione conduce a cortocircuiti e circoli viziosi che esasperano vicendevolmente tipi ed atteggiamenti (reali o di fiction), per quanto riguarda il teatro le nebbie sono meno fitte.

Di fatti, in palcoscenico, tutto quanto è mito o parodia e qualsiasi avvenimento (soprattutto reale o verosimile) ha da tradursi nella sua trasposizione scenica in epos, in lirica, in mito, scapolando così da qualsiasi chance imitativa ed iniziando quel grande miracolo interiore che è la catarsi.

la tribuna illustrata anno XL n. 13 27 marzo 1932 (coll. Gaetano Fontana)

la tribuna illustrata anno XL n. 13 27 marzo 1932 (coll. Gaetano Fontana)

Ne è esempio più che lampante Raffaele Viviani, il cui teatro (post-avanspettacolo) fortuitamente e sapientemente e necessariamente assemblato per vicissitudini storiche, rappresenta un unicum che lo strappa via sia alla tradizione del suo tempo, che a quella a cui noi ci rivolgiamo.
Se, infatti, con Scarpetta si assiste al vaudeville francese di ambientazione napoletana e con Eduardo al dramma borghese, di chiara matrice pirandelliana con influenza della inestirpabile ironia napoletana di derivazione paterna, Viviani è un teatro (dico “è un teatro” e non “rappresenta un teatro” per motivi chiarissimi) totalmente diverso e non riconducibile a questo contesto.

Non lo si può dire “prosa” (seppur per necessità storica così egli stesso lo definì), per la presenza di versi e musica; e fanno rabbrividire tutti coloro che lo definiscono antesignano del “musical” all’americana.

L’unica cosa a cui Viviani è riconducibile è il teatro lirico, nella sua definizione e nella ricerca che egli fece di un “teatro totale”. E se la sceneggiata fu definita da qualcuno “opera lirica del popolo”, Viviani è quel punto di mezzo tra la sceneggiata e l’opera lirica.

Lo possiamo vedere questo in “Padroni di barche”, lavoro del 1937, fino ad oggi solo per supposizione ispirato a fatti realmente accaduti nella nostra città, in cui il dramma è interamente ambientato, secondo alcune fonti per commissione del comune di Castellammare e come atto d’amore da parte del Viviani per la sua città natale, all’epoca fiorente e frequentata (soprattutto in estate) da grandi intellettuali napoletani come lo stesso Viviani, Eduardo, Bovio ecc.

Ho scritto “fino ad oggi solo per supposizione ispirato a fatti veramente accaduti in città”, perché oggi le supposizioni vengono dissipate dal ritrovamento di questo documento: un articolo di un giornale dell’epoca, riporta la cronaca (a posteriori) di una faida spietata tra due proprietari di vapori che collegavano il porto di Castellammare con Napoli. Continua a leggere

Raffaele Viviani

Raffaele Viviani

Un nostro commento sulla genialità di Viviani sarebbe superfluo e, forse, persino irriverente, perché la sua opera parla da sé, con una forza espressiva che attraversa il tempo senza perdere di significato.

Vorrei solo sottolineare quanto questo suo stupendo scritto sia ancora straordinariamente attuale, segno di una visione acuta e di una sensibilità senza tempo.

Spero vivamente che le sue parole possano offrire a tutti noi un momento di riflessione profonda, aiutandoci a cogliere non solo l’essenza del suo messaggio, ma anche a interrogarci su quanto poco, in fondo, siano cambiate certe dinamiche nella nostra Castellammare.

Maurizio Cuomo

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Raffaele Viviani

Raffaele Viviani

da: “Padroni di barche

Sulo pe’ ll’acqua,
Castiellammare avarrì’ a tene’ furtuna!
Io fino a chest’età,
nun so’ trasuto maie dint’a na farmacia.

Qualunque disturbo,
trovo ll’acqua adatta;
e ‘o disturbo passa!

Embé a ggente va all’ati pparte,
e nun vene ccà!
E che ce vuò fa’?

Le nostre acque so’ comm’ a chelli signurine
ca nun ghiesceno ‘a dint’ ‘a casa;
o al massimo fanno dduie passe
‘a dummenica pe’ dint’ ‘a Villa, cu ll’uocchie ‘nterra.

E quanno so’ ‘e nnove già stanno dint’ ‘o lietto
e cu ‘a capa sott’ ‘e ccuperte.
Chi ‘e ccunosce? Chi nne parla? Nisciuno!

Ll’acqua ‘e ll’ati paise, invece,
so’ signurine evolute, attrezzate al commercio,
‘a comme se vestono a comme se presentano;
chiene d’etichetta.

Nun stanno ‘mbuttigliate:
appena se fanno cunoscere, se fanno sbuttiglià!
E, comme oggette ‘e lusso,
ogne surzo, sette e nuvantacinque!

E ll’acque noste? Niente!
Eppure è ricchezza ca scorre!
Esce d”a terra benedetta
pe gghì a fernì pe’ tre quarte dint’ ‘e ffogne!

E’ quase nu sacrilegio! N’offesa a Ddio!
E comm’a ffiglio ‘e Castiellammare,
è na cosa ca nun ce pozzo penzà!
St’acqua mm’è ssanghe, mme coce!