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Venditore fichi d’India (antichi mestieri)

Antichi mestieri stabiesi

Conoscere il micro-passato (il normale quotidiano soggettivo) può essere utile a capire la crescita economica e culturale di una intera popolazione. Questa modesta ricerca degli antichi mestieri (estinti e sopravvissuti), potrebbe aiutare a delineare con più chiarezza una parte dimenticata di vita stabiese vissuta.

Maurizio Cuomo


Venditore di fichi d’India
( a cura di Gioacchino Ruocco )

Venditore fichi d'India

Ieri, al supermercato, tra la frutta in vendita, vicino al banco delle noci fresche, ho trovato anche i fichi d’India. C’erano confezioni da quattro fichi e da sei, per i più voraci. Dalle nostre parti questo frutto nel dialetto parlato è identificato con il nome di figurina. Negli anni vissuti in campagna, presso i nonni materni, nel periodo della sua maturazione ci attrezzavamo per asportare i frutti dalla pianta e consumarli a volontà anche se le raccomandazioni di evitare di farne un’indigestione sopravanzavano quelle di non rovinarci le mani con le spine che li rivestono, quasi a proteggerli contro l’ingordigia di noi ragazzi. Al di là dei semi contenuti al suo interno, che possono piacere o meno, la polpa, quando il frutto è maturo, risulta gustosissima.
Il ricordo delle piante dietro la casa di mia nonna è ancora vivo: le pale, come mani enormi cariche di doni, si protendevano nell’aria per inebriarsi al sole e come tutte le piante succulente, producono un lattice che è un toccasana contro le scottature e le irritazioni; rinfresca la pelle e quasi la rigenera.
Dopo la fine della guerra, col trasferimento definitivo alla casa natia di Vicolo Sorrentino a Mezzapietra, dove i miei abitavano dal giorno del loro matrimonio, la vita nel ritornare al suo tran tran naturale faceva affacciare anche nel vicolo i mestieranti della strada che portavano a domicilio il frutto delle loro iniziative praticate un giorno dopo l’altro per sbarcare in qualche modo il lunario.
Così un giorno vi si affacciarono anche quelli che vendevano i fichi d’india. Erano per lo più dei ragazzi che trascinavano su carrettini di legno che avevano per ruote cuscinetti a sfera, cassette di fichi d’india che vendevano sia singolarmente, sia ad “appizzare”, una sorta di acquisto/lotteria che consisteva nel far cadere il coltello verticalmente con la punta in avanti sopra i frutti deposti nella cassetta per prelevarne tutti quelli conficcati sempre che non si sfilavano dalla lama che doveva restare sempre e comunque perpendicolare alla cassetta. Le prestazioni erano diverse con costi diversi. Per un numero illimitato di “appizzate”, fino a quando l’ultimo frutto sollevato non si sganciava dal coltello, vi era un prezzo, oppure si pagava per il numero di colpi che si desiderava effettuare.
Il coltello era sempre di peso modesto, con la punta acuminata e a lama liscia, senza seghettature che potevano facilitare il cliente nell’asporto. Il coltello non sempre riusciva a penetrare nei frutti per cui il più delle volte si riusciva a prelevarne ben pochi. Quando non si riusciva a prenderne nemmeno uno il ragazzo ne offriva sempre qualcuno come consolazione per la perdita.
Quando invece le cose andavano a sfavore del venditore sorgevano animate discussione sul modo con il quale si era riusciti a sollevare il coltello dalla cassetta con i frutti infilzati. Le chiacchiere continuavano anche dopo quando il venditore usciva dal vicolo quasi sconfitto e si aspettava baldanzosi il prossimo per una nuova scorpacciata.
Il Paliotti nella sua storia a fascicoli della “Canzone Napoletana”, nel fascicolo n. 9, pubblica una stampa a colori di Pasquale Mattei del sec. XIX), ma il soggetto che vi è rappresentato, è lontano mille miglia da quelli che arrivavano nel mio vicolo, dalla loro vivacità e della loro furbizia.
Oggi, a distanza di tanti anni, debbo riconoscere che avevano un carattere eccezionale, una determinazione che il sottoscritto, invece, ha acquisito soltanto nell’età adulta e messa alla prova quando ormai era indispensabile ed ineluttabile.
Comunque i fichi d’india hanno sempre lo stesso fascino e lo stesso sapore, certo, oggi, arrivano in commercio emendati dalle spine e non devi prendere più tante precauzioni nel maneggiarli. Aprirli per consumarli e assaporarli è come aprire uno scrigno dove ci sono sogni che non ti danno requie.

Venditore di frutta secca e semi abbrustoliti (antichi mestieri)

Antichi mestieri stabiesi

Conoscere il micro-passato (il normale quotidiano soggettivo) può essere utile a capire la crescita economica e culturale di una intera popolazione. Questa modesta ricerca degli antichi mestieri (estinti e sopravvissuti), potrebbe aiutare a delineare con più chiarezza una parte dimenticata di vita stabiese vissuta.

Maurizio Cuomo


Venditore ambulante di frutta secca e semi abbrustoliti
( a cura di Gioacchino Ruocco )

bancarella semi abbrustoliti

“‘O fummo… ‘o fummo…” il grido a voce stesa non importunava i passanti o quelli che percorrevano il lungomare avanti e indietro, ma erano gli umori che provenivano dall’involucro di latta nel quale venivano tostate le noccioline americane: spandendosi nell’aria a secondo dell’andamento della brezza investivano in maniera allettante le narici di quelli che si approssimavano al carrettino dove l’apparecchio era installato. ‘O fummo…. ‘o fummo… Non era quello delle sigarette, che pure se ne consumavano parecchie percorrendo e ripercorrendo il lungomare, ma quello che un nostro compaesano (che un giorno apparve sul lungomare come un fulmine a ciel sereno, quasi vicino alla cassa armonica con carrettino sul quale esponeva la sua mercanzia), produceva con la macchinetta che utilizzava per tostare gli arachidi, le cosiddette noccioline americane durante la fase di tostatura. Il piano del carrettino era organizzato in riquadri, realizzati con cantinelle di legno, in modo da separare un prodotto dall’altro. La frutta secca anch’essa in vendita, veniva protetta dalle mosche e dalla polvere con un velo bianco. I semi in vendita (tostati e semitostati) andavano dai pistacchi alle noccioline americane, dalle fave ai ceci, dai semi di zucca alle carrube, agli stecchi di liquirizia, dalle castagne secche o piste a quelle del prete, alle nocciole sgusciate, ecc. ecc., senza dimenticare i lupini e il cocco ‘mmunnato e buono” con tutti gli eccetera che possono ancora seguire. All’inizio si presentò con un banco modesto che venne modificato nel tempo per ospitare altri prodotti, l’ambulante che aveva una stazza superiore alla media, aveva i capelli leggermente ondulati che coprivano tutta la testa e lo rendevano più imponente di quello che in realtà era. La sua divisa da lavoro era un golf di lana a maniche lunghe che indossava su una camicia quasi sempre di colore chiaro, per difendersi dalle brezze della sera che nella postazione che ormai aveva conquistato assumevano un moto convettivo più veloce e si facevano sentire fino a pizzicare la pelle mettendo anche qualche brivido addosso. ‘O fummo…. ‘o fummo… Fino a che son rimasto a Castellammare, cioè a casa, in quanto non avevo ancora trovato un posto a terra (come uno del nautico era solito dire), lo ricordo nei pressi della cassa armonica o un po’ più avanti, quasi di fronte alla sede della Juve Stabia. Le chiacchiere ci riempivano la testa, come sanno bene i miei compaesani, come pure ha raccontato Michele Prisco nel romanzo “Figli difficili” ambientato nel dopo guerra a Castellammare di Stabia, ma i semi scalmando i morsi della fame rappresentavano un rifornimento assicurato che ritrovavi al ritorno (se ancora ne avevi voglia), utile ad alleggerire le tensioni che le parole inevitabilmente producevano senza una soluzione immediata al problema in discussione. I soldi erano ben spesi in quanto i prodotti erano sempre di giornata, mai una volta che c’era da scartare qualcosa e i prezzi modesti. Quel carrettino era diventato soggetto del paesaggio serale, dall’imbrunire a sera inoltrata e la domenica orario speciale e prolungato. Non ho mai saputo di che rione fosse: a fine serata scompariva nel buio della prima traversa come nel nulla. Da quando me ne partii non ho avuto più modo di passare una sera sul lungomare nonostante i miei ritorni e, quindi, non so se c’è ancora qualcuno che vende frutta secca e semi tostati gridando di tanto in tanto: “ ‘O fummo… ‘o fummo…”.
Sicuramente, oggi, la voce di richiamo dovrebbe essere diversa in quanto ‘o fummo richiama alla mente altri prodotti che “non sono mica noccioline”.

Panzaruttaro

Antichi mestieri stabiesi

Conoscere il micro-passato (il normale quotidiano soggettivo) può essere utile a capire la crescita economica e culturale di una intera popolazione. Questa modesta ricerca degli antichi mestieri (estinti e sopravvissuti), potrebbe aiutare a delineare con più chiarezza una parte dimenticata di vita stabiese vissuta.

Maurizio Cuomo


‘o Panzaruttaro
( a cura di Gioacchino Ruocco )

Già all’epoca dei romani c’era la consuetudine di consumare cibi per strada acquistandoli nelle botteghe sottocasa o posti sui decumani; peccato che a quei tempi dalle nostre parti si ignorasse ancora l’esistenza della patata (importata per la prima volta in Europa nel 1535, dallo spagnolo Francisco Pizarro, quando al suo rientro in patria da un viaggio in America, ne fece dono ai regnanti), un particolare questo che di certo ha negato ai nostri avi il piacere di degustare qualsiasi stuzzicheria a base di questo tubero.

cuoppetiello di frittura

Personalmente ho visto per la prima volta un panzaruttaro ambulante, all’età di dieci anni, quando i miei genitori mi permisero di andare a cinema assieme ai ragazzi più grandi che abitavano nel vicolo. All’uscita dell’allora cinema “Nazionale” dove avevamo assistito, credo, al film dal titolo “La cena delle beffe” con Amedeo Nazzari, l’odore del fritto mi attirò inevitabilmente perché era tardi pomeriggio ed incominciavo ad avere fame, “tenevo na lopa”, come si diceva allora, quando Mc Donalds non era ancora arrivato dalle nostre parti. Dietro al banchetto c’era un uomo che riduceva , di volta in volta, un impasto informe in piccole palle che poggiava su un panno bianco per dar loro, successivamente, la forma di sigari girandole velocemente tra le mani. Nella parte del banchetto vicino alle stanghe, che servivano per guidarlo nelle fasi di trasferimento, era alloggiata una caldaia in rame stagnato per la cottura del prodotto che non era l’unico, vista la varietà di cibi di strada presenti nel repertorio culinario napoletano, come le palle di riso, i carciofi fritti, la pizza fritta, gli scagliuozzi e le crocchette di patate, che noi in dialetto chiamiamo panzarotti senza dimenticare quelli che hanno la forma di mezza luna e vengono riempiti con mozzarella e pomodoro, ecc. Bastarono due di essi a calmare il borbottio dello stomaco anche perché il costo di ognuno di loro non mi consentiva di comprarne di più con i soldi che mi erano stati assegnati. Il carrettino poggiava su due ruote e su un puntale dalla parte delle stanghe, in modo da avere un assetto stabile in fase di fermo, in più presentava una copertura per proteggere il piano di lavoro contro la piaggia e dei ripiani vetrati che consentivano all’avventore di guardare il prodotto disponibile ma di non toccarlo: unica garanzia di igiene alimentare che all’epoca veniva offerta. Nelle mie escursioni saltuarie a Castellammare, l’ultima volta che mi è capitato di vederlo è stato una decina di anni fa. Di sera il carrettino veniva illuminato con una lampada ad acetilene che nel tempo lasciò, per la sua pericolosità esplosiva, il passo a quelle alimentate da GPL (gas di petrolio liquefatto). E’ vero che le perdite e le scomparse ci fanno recriminare contro il progresso o le norme che vietano la produzione di beni con le condizioni di igiene descritte, ma non ho mai saputo di qualcuno che abbia sofferto per i panzarotti così prodotti. I mestieri scomparsi nella pratica sono tanti, basta riandare alle pubblicazioni che ne trattano, fortunatamente per i golosi del fritto, questo mestierante ambulante è ancora attivo in diverse zone di Castellammare. La ricetta dei panzarotti (crocchette di patate) che ho rintracciato nell’Enciclopedia della donna (ed. Fabbri) e in altre pubblicazioni, prevede necessariamente le patate, il parmigiano, le uova, la noce moscata, sale quanto basta e olio per friggere. Le patate, le uova e il sale sicuramente c’erano nell’impasto di allora; il parmigiano e la noce moscata non credo proprio. Il pepe, estraneo alla ricetta, era sicuramente presente perché, profuso in abbondanza, dava fastidio allo stomaco. Il resto, nella mia prima volta, lo fece l’appetito, la fantasia e la temperatura calda del prodotto che fu divorato caldo, come raccomandava il panzaruttaro e l’autore del ricettario.

Torino immagine tratta dal Web

I miei anni a Torino

I miei anni a Torino

di Gioacchino Ruocco

Torino immagine tratta dal Web

Torino immagine tratta dal Web

Gentile signor Nocera, approfittando della sua risposta (rif.: rubrica “Lettere alla Redazione” – 30 agosto 2009), vorrei portare alla luce alcuni aspetti della vita che, negli anni della mia permanenza a Torino, conducevano i nostri compaesani meno abbienti, mentre noi, più fortunati, avevamo la nostra isola, quieta e rassicurante, sulla quale vivere e consolare la nostra emigrazione.
Perché mi trovavo a Torino: avevo smesso di navigare e cercavo un posto a terra quando alcuni colleghi mi parlarono di un ente di diritto pubblico che assumeva personale per lo svolgimento dei compiti ispettivi di natura tecnica. Fra i tanti riuscii a spuntare come destinazione Torino che avevo conosciuto letterariamente attraverso i libri di Cesare Pavese. M’innamorai perdutamente di questa città e del Piemonte: il lavoro mi permetteva di girare in lungo e in largo e visitare tanti paesi che fino ad allora per me non erano mai esistiti. Mi innamorai così del Canavese e delle Langhe. Arrivavo per il mio lavoro fino a Ceresole reale nel parco del Gran Paradiso lontano dalle nebbie e dalle diatribe della pianura, ma tra le tante esperienze mi capitò di incontrare anche nostri paesani. Inizialmente pensavo che a Torino, di Castellammare, ci fossero soltanto il sottoscritto e il compagno d’avventura Fortunato Setale, impegnato nello stesso lavoro fino a quando non mi capitò di recarmi, per motivi di lavoro, in un palazzo di via Cibrario, dove per poco non andavo al manicomio. Varcando il portone d’ingresso, come a volte capita, mi trovai in una realtà diversa da quella che mi ero lasciato alle spalle soltanto qualche metro prima. Le voci che percepivo, e non una, ma tante, si rincorrevano all’interno di quella realtà, erano di gente che parlavano il mio dialetto, quello di Castellammare e quando il portiere che mi stava aspettando si rese conto che io ero un suo paesano, dal centro del cortile grido a tutti: “L’ispettore è paisano nuosto. E’ de Scanzano!” Le voci che prima interloquivano in maniera evidente e rumorosa zittirono di colpo e i volti appesi alle ringhiere, assieme ai panni messi ad asciugare, diventarono tanti. Odori di sugo, di verdure, di fritti. Dopo lo stupore, mille domande: come mi chiamavo, a chi appartenevo, fino a quando non spuntò uno di loro che, colpo di scena, mi conosceva. Mi guardò con occhi sorridenti e increduli, come per dirmi: “Ma non mi riconosci?” Poi quando mi disse il suo cognome Sorrentino, mi sembrò impossibile di aver ritrovato Carlo e la sua chitarra, con quale avevo composto qualche canzone giù al Centro sociale INA CASA del San Marco. Durante il servizio militare l’avevo perso di vista, anche se lui attraverso la radio privata dove lavora mi aveva cercato per propormi come autore e collaboratore. Dovetti accettare per forza un invito a pranzo e promettere di ritornare con mia moglie a far loro visita. Cosa che avvenne regolarmente per qualche tempo e mi toccò, per riconoscenza, dare una mano a chi me la chiedeva. Da quel momento i miei compaesani saltavano fuori da ogni dunque facendomi scoprire nuove isole, nuove assembramenti in cerca della sopravvivenza. Erano come i girasoli della cicoria in mezzo ai campi, ne cercavi uno e, dopo un attimo ne trovavi cento: a Nichelino, a Favria, a Moncalieri. A Ciriè, mi dicevano, c’erano più gragnanesi che piemontesi e non mancavano presenze in altre località. Molti amavano mimetizzarsi, poi, al dunque, si manifestavano con tutta la loro natura appena percepivano la voce di un loro paesano. Ho conosciuto molti piemontesi innamorati del nostro paese. Se ne erano innamorati sentendone parlare. Dopo due anni a Torino andai a vivere a Settimo Torinese per permettere a mia moglie di stare vicino alla scuola che aveva scelto come sede definitiva ed anche lì apparvero altri compaesani, ma di diversa estrazione e con pretese di sistemazione, con retribuzioni stratosferiche, senza vergognarsi di dirmi in faccia che, secondo loro, tutti ex marittimi, conducevo una vita modesta. Certe volte non sapevo se era meglio negarmi o accettare comunque questi rapporti, per rendere meno pesante la vita dei miei compaesani nei primi approcci con Torino e le problematiche che come “terroni” affrontavano per trovare una casa, per farsi capire, ecc. ecc.
Io non ho mai rinunciato al mio dialetto, anzi la mia biblioteca era abituata da anni ad ospitare Pavese accanto a Pasquale Ruocco, Fenoglio accanto a Ferdinando Russo, Raffaele Viviani, Chiurazzi, Di Giacomo, Galdieri, scrittori italiani accanto a scrittori russi, americani, spagnoli, ecc.
Anche io avevo la mia isola paesana. Mia moglie aveva dei parenti in Piemonte che erano arrivati per altre strade di lavoro, ed ogni settimana era un obbligo riunirsi a turno presso uno di noi per il pranzo della domenica e per raccontarsi vita, morte e miracoli di parenti, amici, conoscenti e per sentire la voce dei genitori, ma mia moglie pensava sempre di ritornare. Le riunioni acuivano questo desiderio e la mancanza del paese diventava più forte nei giorni di nebbia e di freddo, anche se intorno a lei crescevano la stima e la simpatia, i favori dei locali che apprezzavano il suo impegno professionale.
Io, invece, a dire il vero, mi stavo integrando anche se il cuore desiderava il contrario. Vivere di malinconia non mi è mai piaciuto, ma essendo stabiese nell’animo e nella mente non potevo venir meno alla mia individualità ed indipendenza per cui nel 1972 lasciai Torino per Roma. Al di là delle mie peripezie, sento che chi è stabiese non può vivere altrove perché non sa o non vuole dimenticare l’appartenenza alle proprie origini tanto da fargli rispondere sempre e comunque allo stesso modo, a chi gli chiede: “Sei di Napoli?” – “No, so’ ‘e Castiellammare”, che resta l’unico teatro possibile delle rappresentazioni delle sue gesta.

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Scanzano negli anni ’50

Scanzano negli anni ’50

di Gioacchino Ruocco

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Orologio a Scanzano

Premessa dell’autore
Non so se chi vi comunica i soprannomi che pubblicate (nella rubrica dove ho ritrovato anche l’appellativo della famiglia di mia nonna “ ‘e Chiuvetielle” , che abitava a Vicolo Sorrentino, ‘ncopp’‘o Suppuorteco), vi fornisce anche una descrizione del soggetto di riferimento, che altrimenti potrebbe restare un nome astratto o solo di conoscenza di pochi. Nella vostra carrellata ho notato alcuni soprannomi a me noti da quando ero ancora presente a Castellammare, ma tranne che per pochi, non sono sicuro di aver individuato con certezza la persona alla quale è riferito. Per quelli che vi invio ho tracciato un cenno biografico che potrebbe costituire un inizio di identikit da ampliare in una eventuale vostra pubblicazione. A me per esempio, mentre frequentavo il nautico di Piano di Sorrento, affibbiarono il soprannome di ‘o Poeta, perché scrivevo poesie in napoletano che vennero pubblicate sul giornale locale “La voce di Stabia”, ma non so quanti si ricordano di queste pubblicazioni.
A seguire metto alla vostra attenzione alcuni soprannomi storici, i personaggi e gli usi e costumi relativi al territorio di Scanzano negli anni ’50.

Personaggi di Scanzano

‘O Sissante (padre) aveva un asino con il quale effettuava trasporti di non so che genere e ‘a Sissantella (figlia) così appellata per la sua modesta altezza per l’età che aveva.

Gennaro ‘o purchiaccone che aiutava Giusuppina ‘e Milano nella fattura del pane durante la notte e durante la giornata metteva a disposizione la sua modesta abitazione di chi nel gioco delle carte dilapidava i modesti guadagni dietro modeste ricompense. Aveva litigato, forse per il vizio del gioco, con tutta la famiglia e da quel momento aveva eletto a suo esilio ‘o Suppuorteco. Un giorno mi disse che erano venti o trent’anni che non scendeva a Castellammare. Nei momenti d’ozio si sedeva vicino all’ingresso del tabaccaio e vi passava diverse ore interloquendo con tutti quelli che passavano.

Teresa ‘a lacertesa fruttivendola di modeste pretese che integrava con la sua attività i guadagni del marito che faceva il cocchiere. Viveva a piano terra nel Vicolo Sorrentino.
L’unica figlia era andata in moglie a Pauluccio ‘e maccarone, da alcuni definito guappo per i suoi comportamenti spavaldi. Abitavano nelle prossimità dell’Istituto Diocesano di Scanzano (zona “California”).

Biasina invece aveva una pasticceria su via Micheli, nella sua bottega di dolci, produceva caramelle di zucchero di forma quadrangolare di colore giallastro(1), il cui aroma adesso non so definire, forse alla camomilla.

Giggino ‘o russo negli anni cinquanta (quando il sottoscritto abitava ancora nel vicolo Sorrentino), per modificare la sua condizione che lo poneva tra chi non aveva ne arte ne parte, espatriò in Brasile con altri connazionali. Frequentò i corsi di qualificazione senza i quali era impossibile espatriare.

‘O trippone di professione fruttivendolo ambulante, abitava a Privati, con il suo carretto carico di verdura acquistate al mercato ogni mattina permetteva alle famiglie, lungo il percorso di avvicinamento a casa, di rifornirsi a buon prezzo di verdura fresca di campagna. Alcuni suoi discendenti sono ancora presenti sul ponte di Varano.

Peppe ‘o pazzo così chiamato dai miei amici più adulti, era il centauro di Mezzapietra che in sella ad una motocicletta, marca Gilera, molto potente, percorreva a folle velocità quel tratto di autostrada dove noi giocavamo a palla (il traffico a quei tempi era ridottissimo): se non era soddisfatto del modo come aveva affrontato la curva in prossimità del ponte di Mezzapietra, Peppe tornava indietro per riprovarci con maggiore velocità. Dicevano pure che aveva un negozio di moto.

‘O zione era un tipo grande e grosso che aveva una rivendita di vini gestita prima del ponte di Mezzapietra. Per chi si fermava a bere, a richiesta preparava anche delle merende “p’appuggià ‘o bicchiere ‘e vino”, che, a detta di molti, era veramente buono.

A stuccaiola la cui famiglia aveva un negozio di stoccafisso tra piazza Orologio e ‘a Scala ‘e Tatone (forse per questo l’avevano soprannominata con quell’appellativo), era un bel pezzo di ragazza: alta, formosa e appariscente. Negli anni Cinquanta si era data allo spettacolo esibendosi al Salone Margherita di Napoli con incerta fortuna.

(1) “le caramelle gialline, a quadrettini di cui parla il signor Ruocco, le chiamavamo, ‘e caramelle e sciuscelle” (e-mail del 6 agosto 2009, a firma di Frank Avallone – stabiese in Florida).

Cosa mangiavamo

Come mangiavano gli italiani negli anni Cinquanta, immagine presa dal web

Come mangiavano gli italiani negli anni Cinquanta, immagine presa dal web

Ricordo il pane caldo di forno ‘e Giusuppina ‘e Milano con sugna, al posto del burro, e alici salate che, anni dopo, mi ritrovai a consumare durante una delle prime colazioni a bordo di un dragamine del Gruppo Dragaggio di Napoli al Molo San Vincenzo;

‘E menuzzielle, che erano le teste degli spaghetti, che utilizzavamo per la pasta e fagioli i cui avanzi venivano consumati il giorno dopo averli ripassati in padella dopo che si era formata per effetto dello strutto di maiale una crosta (‘e scurzetelle).

‘E purchiacchielle, che oggi vengono vendute in vaso come piante di arredamento per terrazzi, che messi ad asciugare al sole venivano consumati nel periodo invernale assieme ad altre risultanze (melanzane, ecc.) anch’esse seccate che in famiglia chiamavamo “pacche secche” (vedi ricetta già pubblicata dal sito) con aggiunta di peperoncino e pomodori (tipo buttiglielle) conservati appesi fuori al balcone o nel sottotetto in forma di “spugnielle”.

Altro sfizio che andava di moda a Scanzano erano le briosce prodotte da un panettiere che esercitava nella zona chiamata “Abbasci’‘o Santo”, località ad alta frequentazione del “Munaciello”, come certe signore raccontavano.

Altri ricordi

Quanti ricordi affiorano alla mente, ma sento di essere stato fortunato di averli vissuti. Sull’autostrada tra località California e Vicolo Sorrentino giocavamo a pallone che più di una volta dovemmo recuperare nel rivolo che passa per la Caperrina, scavalcando la recinzione di qualche giardino per arrivare col cuore in gola al recupero non sempre fortunato della sfera che l’incosciente di turno faceva volare oltre gli ostacoli abituali.

Ricordo pure che nel mio vicolo c’era un giovane falegname che ogni anno in occasione della festa di San Nicola di Mezzapietra tappezzava la strada con un’infiorata. Guardandola dal mio balcone era uno spettacolo che m’incantava.
Lo chiamavano Filotino, ma non ricordo più il suo cognome e il suo vero nome. La casa dove abitava esiste ancora e affaccia sulla circonvallazione nel tratto in corrispondenza con Vicolo Sorrentino dove sono nato ed ho abitato fino al 1954.