Scanzanesi in fuga da Sparanise

nei ricordi di Raffaele Cimmino

Mi chiamo Rafele e sono figlio di Mariuccia ‘e Tittone, abitavo a Scanzano a Via Santa Caterina n. 2 nel primo palazzo sulla destra dopo il largo “Miezo ‘a guardia”, con mia madre e mio fratello Peppe. Mia madre era vedova del marito Antonio dal 1923 e si arrangiava a lavorare saltuariamente nella fabbrica dell’olio. Mio fratello, invece, era muratore; dopo essere stato a lavorare ad Adissa Abeba come operaio militarizzato dopo il servizio militare nella Regia Marina. Era del 1910 e allo scoppio della guerra non fu richiamato perché dall’Africa si era portato una lieve forma di malaria. Io sono del 4 gennaio del ‘17 e, dopo il servizio di leva, sempre nella R.M., fui trattenuto fino all’armistizio. Avevo una sorella, più grande di me, si chiamava Teresa e si era sposata con Ciccio del rione spiaggia e abitava a Via Partoria angolo Vico Trecase. Dal loro matrimonio era nata mia nipote Cristinella. Il padre Ciccio, assieme ai fratelli Antonio e Ferdinando, a Giacomino ‘e Giacobbe ed altri, lavorava nella “carovana” della ferrovia, una specie di cooperativa di scaricatori dei treni merci. Anche lui era stato in Marina sul cacciatorpediniere Scirocco, ma non era stato richiamato forse perché sposato e con prole. Mio cognato era un tipo dritto, era tra quelli che avevano protestato contro la guerra a Castellammare nel 1943 prima dell’armistizio. A lui ero particolarmente legato sia perché più grande di me e sia perché marito della mia unica sorella, punto di riferimento in assenza di mia madre spesso al lavoro. Si era a metà del mese di settembre 1943 e a Castellammare erano successe cose turche.

 Cantiere navale di Castellammare (veduta d'insieme della distruzione)

Cantiere navale di Castellammare (veduta d’insieme della distruzione)

I tedeschi avevano ucciso dei marinai e altri militari e distrutto il cantiere navale ed altre fabbriche, nonché ammazzate molte persone. Durante il saccheggio della Cirio, non riuscii a prendere nulla perché la notizia era arrivata tardi a Scanzano. Ero da poco scappato da Gaeta dopo l’8 settembre e mi stavo godendo, pur tra i disagi i giorni di libertà dopo 7 anni di militare.
Alla notizia che i tedeschi stavano prendendo i giovani per deportarli in Germania, assieme a mio fratello Peppe pensammo di scappare a Pimonte per Via Privati e, attraverso i Canti e Tralia, di arrivare ad Agerola dove ci dissero, stavano già gli americani.
Ma il nostro progetto andò in fumo quando mia sorella Teresa venne piangendo dicendo che suo marito Ciccio era stato preso dai tedeschi e stava assieme ad altri a Castellammare in villa comunale in attesa di essere deportati in Germania. Ci pregò di andare a vedere e di stargli vicino. Scegliemmo l’affetto familiare e ci presentammo in ottemperanza al bando, dopo aver distrutto la mia divisa che avevo conservato in casa. In villa c’era una confusione enorme, donne che piangevano, i pochi tedeschi incazzati che urlavano e davano spintoni alle persone per farle salire sui camion. Trovato mio cognato Ciccio, io e Peppe riuscimmo a salire sullo stesso camion zeppo di persone; un tedesco sedeva accanto all’autista ed un altro in fondo al camion vicino alla sponda. Entrambi armati.
Tra i rastrellati imbarcati sul camion c’era anche il mio amico e compaesano di Scanzano Gennaro ‘e piscialluongo con il quale ero stato a Spezia durante la guerra. Gennaro era sempre stato un tipo risoluto e appena lasciata Castellammare mi disse: “Rafè, quanno arriviamo in aperta campagna, tu e Ciccio saltate addosso al tedesco sulla sponda, io acchiappo per la gola quello accanto all’autista, poi fujmmo…”. Ad udire queste parole, la maggior parte dei presenti, si ribellarono temendo una rappresaglia. Non se ne fece nulla.
Dopo diverse ore giungemmo a Sparanise in provincia di Caserta. A fianco della stazione ferroviaria era stato allestito un enorme campo di concentramento circondato da filo spinato e da cavalli di frisia. Fummo fatti scendere dal camion in malo modo e sempre sotto la minaccia delle armi. Ognuno cercò parenti ed amici; c’erano molte persone di Castellammare e di Scanzano. Trovammo Gennarino ‘e zì Cuncetta, più piccolo di noi e mingherlino e ci meravigliammo del suo rastrellamento.
Tra i compaesani c’era anche un certo Desiderio titolare di una grossa falegnameria a Castellammare; essendo esperto in materia, fu messo dai tedeschi a costruite delle baracche di fortuna con il legname e le “chiangarelle” presi dalla ferrovia. Il poveretto fu deportato in Germania e, seppi poi, che era riuscito a salvarsi e tornare a casa.
Non c’erano gabinetti e i bisogni si dovevano fare a qualche metro dal recinto di filo spinato sempre sotto gli occhi di sentinelle armate. Un fetore terribile. Mancava l’acqua potabile che si andava a prendere fuori dal campo in una cisterna. Le “comandate” erano composte da due prigionieri per parte, sorvegliate dai tedeschi; si metteva una “varra” tra una maniglia di ferro di una botte e la si appoggiava alle spalle. Al ritorno c’era l’assalto alla baionetta per prendere l’acqua mentre i tedeschi davano mazzate alla cieca per disciplinare l’afflusso. Così come facevano quando arrivava il pane. La fame era grande, eravamo tutti giovani. Le donne di Sparanise, sfidando le urla e le minacce delle sentinelle, ci gettavano attraverso il filo spinato: pane e frutta.
Occupammo una baracca e ci procurammo un bidoncino di acqua. La notte non si dormiva per la fame e per i pidocchi che incominciavano ad infestare i nostri indumenti. Una mattina Peppe fu sorpreso a sciacquarsi gli occhi e Ciccio lo redarguì dicendogli: “’A casa non ti lavi quasi mai e mò stai sprecanno ll’acqua”. Nel campo c’erano diversi cespugli di figurine e io, per prendere quelle più mature, mi riempii di spine. Per alleviare il prurito mi tolsi la maglietta e girovagavo a petto nudo per il campo. Ero giovane e abbastanza robusto. Mi fermò un tedesco accompagnato da un ragazzo italiano che faceva da interprete.
Mi chiesero che mestiere facessi. Io sapendo che davano la precedenza per la Germania agli operai con qualche qualifica, da buon scanzanese vissuto in mezzo alla strada, risposi: “Vaco vennenno ‘e frutti c”a carrettella”. Il ragazzo tradusse e il tedesco passò oltre.
I treni partivano spesso carichi di prigionieri sui carri merci e decidemmo di scappare anche se le fughe si concludevano spesso tragicamente. Tutti i giorni ci offrivamo per le comandate dell’acqua. Un giorno, chissà perché, non c’era il tedesco di guardia. Ciccio ed io, Peppe e Gennaro, appoggiate sulle spalle le sbarre delle botti, uscimmo dal campo avviandoci verso la cisterna.
Ad un’intesa data, ci demmo a gambe levate verso i campi, meravigliati di non udire gli spari delle sentinelle. Scampati dalla guerra, sorte volle che scampassimo anche dalla prigionia.
Fattasi sera e fattoci coraggio ci presentammo ad una masseria. La vecchia padrona, già sapeva che eravamo scappati dal campo; ci disse che aveva dato i vestiti del defunto marito a diversi militari qualche giorno prima. Sentendo che eravamo stati nella Regia Marina – aveva un figlio imbarcato di cui non riceveva notizie da mesi – ci offrì pane, noci e un fiasco di vino. Ma cosa ancora più gradita ci fece bollire in un bidone i nostri indumenti per tentare di uccidere i pidocchi.
All’alba ringraziammo la padrona ci avviammo in direzione del Vesuvio. Attraversando un ponte, vedemmo in lontananza un tedesco che, invece di spararci contro, scaricava il suo mitra in aria e facendoci segnali di correre. Scappammo e poco dopo il ponte, minato, saltò.
Si vede che anche tra i tedeschi c’era qualcuno che conservava un poco di umanità.
Non trovammo più tedeschi fino a Ponticelli. Qui c’erano molte persone armate e un tizio, fattoci una specie di interrogatorio, sapendo che eravamo ex marinai, ci disse: “Guagliù, vu vulite armà, stammo caccianno ‘e tedeschi”. Dopo seppi che erano scoppiate le Quattro Giornate.
Ma non volemmo rischiare e sfidare ulteriormente la sorte. Salutati i napoletani (ci diedero anche delle sigarette), ci avviammo verso Castellammare passando per i piedi del Vesuvio.
Fattosi scuro, sempre affamati e con la barba lunga, trovammo rifugio in una specie di grotta ricavata dalla lava, con un ingresso molto basso. All’interno era alquanto spazioso, c’era della paglia ed alcune botti rovesciate. Forse era un deposito dei contadini della zona. Peppe si accomodò in una botte e noi tre sulla paglia. Alle prime luci dell’alba notammo, all’uscita bassa della grotta, due stivaloni e una canna di fucile. Peppe ebbe un’altra delle sue infelici trovate: “Chi va là?!” disse. Un brivido ci prese per la schiena, se gli stivaloni e il fucile appartenevano ad un tedesco, per noi era finta. Per fortuna ci affacciò uno del posto e meravigliato disse: “Ma chi sfaccimmo site?”. Dopo avergli raccontato la nostra avventura, questi affermò che i tedeschi erano andati via e che gli americani erano arrivati a Torre Annunziata. Scendemmo verso il mare. A Torre Centrale incontrammo le prime camionette americane e i grossi cari armati. C’erano soldati dappertutto. Alcuni di essi a Peppe gli ricordavano di quando era stato in Africa in mezzo ai neri. Mi avvicinai ad un gigantesco sergente e con la cicca in mano gli feci cenni di volerla accendere. Per tutta risposta, forse vedendoci così combinati, con un gesto della mano disse: “Facoff!”. Sicuramente mi aveva mandato a fare in c…, Ciccio rispose: “Chisti so’ peggio ‘e chilli ca se ne so’ jute!”.

Alleati a Castellammare (Anno 1943)

Alleati a Castellammare (Anno 1943)

Accelerammo il passo e finalmente arrivammo felici a Castellammare. Ci incamminammo quasi di corsa per Scanzano salendo per il mulino e, all’altezza del crocifisso posto al bivio con Via Munaciello, ci fermammo un attimo, Gennaro disse: “Mò chi ‘o dice ‘a zì Cuncetta che Gennarino sta ancora a Sparanise o, peggio, è stato purtato in Germania oppure è muorto?”. Mogi mogi percorremmo l’ultimo tratto ma, all’altezza del cancello di Marc’Antonio, ci venne incontro proprio Gennarino gridando: “Guagliù, ma quantu tiempo ci avite miso pe’ turnà?”. Contenti di averlo rivisto, ci raccontò come era scappato, e come era riuscito a tornare a Scanzano qualche giorno prima. Così terminò la nostra fuga da Sparanise: “Felici e tuculiate, loro allerta e nuie assettate”.

2 pensieri su “Scanzanesi in fuga da Sparanise

  1. vincenzo

    U’avventura straordinaria, superata con tanto amore di famiglia e tanto coraggio,con lieto fine, e coraggiosi scanzanesi.Vivo a Torino da molti anni,ma il mio cuore è stabiese,sono nato a scanzano via partoria nel vicolo fissale, nel lontano 1949.Vi seguo sempre.Saluti.

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