Gabriele De Rosa

Personaggi stabiesi

Gabriele De Rosa

a cura di Giuseppe Zingone

Gabriele De Rosa

Gabriele De Rosa

Nato a Castellammare di Stabia il 24 giugno del 1917, Gabriele De Rosa, fu uno scrittore, uno storico e un politico italiano.

Ho sempre sentito parlare di Gabriele De Rosa, ma non ho mai avuto né il tempo, né il coraggio di scrivere una sua biografia per Liberoricercatore. Troppo elevata la sua figura, inarrivabile, certamente tra le figure intellettuali più importanti del secondo Novecento italiano.


Eppure, senza una sua biografia, la galleria dei personaggi illustri di Castellammare, rimarrebbe decisamente monca ed incompleta.
Qualche giorno addietro, il dottor Carlo Vingiani, ha rifocalizzato la mia attenzione su Gabriele De Rosa, inviandomi un articolo del 9 dicembre 2021. Il testo era della professoressa Alba Lazzaretto, la testata era Vatican News, il titolo: Una grande scuola di storia, la lezione di Gabriele De Rosa.
L’insegnamento di Gabriele De Rosa è stato straordinario: ha saputo superare le ideologie nocive e distruttive del secolo scorso, tracciando un percorso nuovo, fondato sul dialogo e sulla comprensione.

Il De Rosa muore l’8 dicembre 2009 a Roma, ma ci ha lasciato, un’eredità ancora viva, che continua a parlare attraverso i suoi scritti, i suoi documenti e i semi di pensiero che, oggi, continuano a portare frutto.

Nel nostro piccolo, con umiltà e dedizione, anche noi di Liberoricercatore, da oltre vent’anni, offriamo ai cittadini di Castellammare di Stabia la nostra passione per la storia della città. Lo facciamo gratuitamente, sottraendo tempo alla famiglia, al lavoro, e talvolta affrontando spese personali. Oggi, con serena convinzione, sento che al professor De Rosa sarebbe piaciuto questo nostro impegno silenzioso e disinteressato.

Sulla scia di quell’articolo, mi è sembrato naturale contattare la professoressa Lazzaretto per chiederle il permesso di aggiungere il suo prezioso racconto alle nostre pagine. Ho chiesto “aiuto” a colei che ha saputo raccogliere e portare avanti l’eredità del maestro: l’opera di Gabriele De Rosa, protagonista indiscusso della storia del secondo Novecento italiano, la cui passione e visione restano vivissime, ben lontane dall’essere dimenticate.

Ecco la sua risposta (12 apr 2025, 19:00)

Gentile Prof. Zingone,
mi ha fatto piacere ricevere la sua mail: mi ha fatto ritrovare un mio ricordo di De Rosa di cui avevo proprio perso memoria!
Sono certamente contenta se lo vuole pubblicare nel “Libero ricercatore stabiese”, che mi sembra molto bello.
Da De Rosa e dai miei soggiorni nel Mezzogiorno ho ereditato un grande amore e una grande ammirazione per la civiltà e le bellezze delle vostre terre.

Qui, l’articolo della professoressa Alba Lazzaretto

Ricordo di un maestro: Gabriele De Rosa

Alba Lazzaretto

Alba Lazzaretto

 Mi capita spesso di attraversare il bellissimo parco che, a ridosso delle antiche mura scaligere di Vicenza, circonda il complesso monumentale della Chiesa e del chiostro cinquecentesco di San  Rocco.

 Ora qui, in una piccola parte di quell’antico convento con annessi alcuni edifici più recenti, è rimasta solo una scuola materna, dove accompagno le mie nipotine. E guardo con una buona dose di malinconia a quelle finestre vuote, a quel chiostro su cui si affacciavano le sale dell’Istituto di storia sociale e religiosa, fondato da Gabriele De Rosa nel 1975 e che per tanti anni, fino al primo decennio del XXI secolo, hanno accolto le sue iniziative culturali e la scuola dei suoi allievi.

Era una festa, quando arrivava “il capo”, così lo chiamavamo scherzosamente noi collaboratori, che venivamo da varie parti d’Italia per incontrarlo. Da Trieste, da Milano, da Padova, da Venezia, da molte città e paesi del Veneto, dal Piemonte – e spesso anche dal Centro e dal Mezzogiorno d’Italia, in una splendida fusione d’intenti – era tutto un accorrere come api sui fiori, per ascoltare Gabriele De Rosa, seguire i seminari che organizzava invitando i più noti storici italiani ed europei, pensare insieme a nuove ricerche, preparare nuove pubblicazioni.

Gabriele De Rosa exegit davvero – con l’aiuto dei suoi centri di ricerca tra Roma, Potenza, Salerno, Vicenza – un monumentum aere perennius: sono rimasti a testimoniarlo le centinaia di libri che coraggiosamente volle pubblicare, anche a costo di fare debiti, perché la cultura valeva più di ogni altra cosa.

Ma su di lui, sulla sua produzione scientifica e su quella della sua scuola, molto si è già scritto.[1.Mi limito a citare a citare: Liliana Billanovich, Gabriele De Rosa (1917-2009). Itinerario biografico e indirizzo di storia socio-religiosa: una ricostruzione, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 2011, n.1, pp. 3-30; Gabriele De Rosa tra Vicenza, Veneto ed Europa orientale. Ricordando alcuni itinerari di ricerca, a cura di Filiberto Agostini, Cleup, Padova 2012; Gabriele De Rosa. Un intellettuale del ‘900, a cura di Francesco Malgeri, Istituto Luigi Sturzo-Rubbettino, Roma-Soveria Mannelli (Cz) 2017; Gabriele De Rosa tra Vicenza, Veneto ed Europa orientale. Ricordando alcuni itinerari di ricerca, a cura di Filiberto Agostini, Cleup, Padova 2012.]

Qui vorrei ricordare soltanto cosa significava “vivere e lavorare” accanto ad un uomo straordinario, uno di quegli intellettuali ormai d’antan, come quasi non ce ne sono più, con una cultura profondissima, ma soprattutto con un’umanità che ha lasciato in chi lo ha conosciuto un segno ancora più profondo della formazione intellettuale ricevuta.

Era soprattutto un piacere, lavorare con lui. Si faticava assai, ore e ore, per più giorni di seguito, a seguire seminari, a dibattere e a interrogare, a “strizzare” il meglio dagli storici più famosi in Italia e in Europa, che egli invitava per noi: da Michel Vovelle, a Jacques Le Goff, a Francesco Margiotta Broglio, a Giuseppe Giarrizzo, a Rudolf Lill, a Giovanni Spadolini, a Giorgio Cracco, a Jean Delumeau, per citare solo pochi tra i tantissimi che vennero nelle luminose sale dell’Istituto, trovandovi un clima sereno e fattivo, una gran voglia di conoscere, di battere nuove piste storiografiche: e De Rosa sapeva invogliarci a percorrerle, queste strade.

Quello che stupiva e attraeva un po’ tutti era il “clima”: laborioso ma anche scherzoso, con i seminari che non si concludevano a fine giornata, ma continuavano all’osteria, o in qualche trattoria veneta, davanti a un buon bicchiere di vino con “polenta e soppressa” (un insaccato saporitissimo), oppure con il famoso “baccalà alla vicentina”.

Si discuteva di tutto, dalla storia alla politica, soprattutto quando Gabriele divenne parlamentare, e ci raccontava i retroscena del “transatlantico” di Montecitorio o delle sale senatorie.

Ma quello che ci affascinava di più erano i suoi ricordi di vita vissuta in momenti tragici e cruciali della storia italiana: l’esperienza del disastro di El Alamein, da cui fortunosamente riuscì a sopravvivere, la risalita della penisola a fianco degli alleati, l’incontro con Gabriella, la sua prima moglie, gli anni del primo dopoguerra, il suo lavoro di corrispondente estero dell’«Unità», la sua uscita dalla redazione del giornale quando venne a conoscere i fatti e i misfatti accaduti in Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, e il suo travaglio ideologico, tra la “Sinistra cristiana” e i “Cattolici comunisti”. Furono anni di difficoltà economiche, ci raccontava, perché rinunciò al lavoro avendo già una famiglia da mantenere. Gli prospettarono un “ravvedimento” alle Frattocchie, per conservare il posto, ma De Rosa preferì raccogliere carta da vendere, piuttosto che recedere da quanto gli imponeva la sua coscienza.

Sturzo di Gabriele De Rosa

Sturzo di Gabriele De Rosa

E poi ci raccontava dell’incontro con Luigi Sturzo, di cui divenne il confidente, lo storico che raccolse i suoi ricordi (“Sturzo mi disse” rimane un capolavoro tra le centinaia dei suoi scritti), e del rapporto con don Giuseppe De Luca, con le Edizioni di Storia e Letteratura…

Ce n’era abbastanza perché noi, suoi allievi, capissimo che ci trovavamo di fronte non solo ad un uomo dall’acume e dalla personalità decisamente au-dessus de la mêlée, ma anche – e soprattutto – a un testimone eccezionale della storia d’Italia.

E allora stavamo ore ad ascoltarlo, e devo dire che io stessa ho trascurato casa, genitori, marito, figlio per stare a sentirlo, per “catturare” i messaggi non solo culturali, ma di vita vissuta intensamente, sempre mettendo al primo posto la propria coscienza, come Gabriele insegnava. E per fortuna i miei familiari, da mia madre – donna saggia e coraggiosa – al mio bravissimo e paziente marito capirono che stavo raccogliendo ricchezza, e non mi intralciarono mai: anzi, se non avessi avuto il loro aiuto molti dei lavori svolti a “san Rocco” – dall’accoglienza dei docenti, all’organizzazione dei seminari, alla collaborazione per le pubblicazioni – non avrebbero potuto essere svolti.

Nei primi anni di vita dell’Istituto di Storia sociale e religiosa accadeva spesso che Federico, mio marito, dopo aver preparato a De Rosa la zuppa di cipolle sua preferita, lo accompagnasse al treno della mezzanotte, a Padova. Ed è ben significativo come il professore si sacrificasse a viaggiare tutta la notte, pur dopo giorni di intenso lavoro, per essere pronto, al mattino successivo, a una nuova giornata di impegni a Roma, all’Università, all’Istituto Sturzo o negli archivi, dove trovava la linfa per le sue ricerche.

Passavano poche settimane – tre o quattro al massimo – e questo “pellegrino della cultura”, zoppicante nel fisico ma dinamicissimo nello spirito, era di nuovo tra noi, a controllare che avessimo svolto tutti “i compiti per casa” che ci aveva lasciato da fare, cioè a sorvegliare lo stato delle ricerche, e a provvedere inoltre alle mille necessità di cui un organismo complesso come un Istituto culturale aveva bisogno: dagli aiuti economici, alle adempienze burocratiche, ma soprattutto alle nuove iniziative da intraprendere.

Era così De Rosa: invece che starsene nel suo studio, o nelle sua aule universitarie, o nei suoi archivi a fare le sue ricerche, si sacrificava girando tutta la penisola, come trait-d’union tra i centri di ricerca del sud e quelli del centro e del nord, facendoci capire con l’esempio che è in compagnia che si deve lavorare, che è con lo scambio, con il dialogo, che si cresce, e che tutto questo non lo si fa per denaro, ma solo per passione, per amore della cultura, per l’intima necessità di volerla spandere intorno, perché capire a fondo la storia – e comunicarla – significa crescere civilmente, significa la ricchezza delle nuove generazioni, significa costruire un patrimonio umano e culturale che è il solo non soggetto a svalutazione.

Gabriele De Rosa

Gabriele De Rosa

Non era una cultura solo per pochi, anche se di alto profilo, quella che i seminari organizzati da De Rosa offrivano: gli incontri erano aperti al pubblico, gratuitamente, ai seminari poteva partecipare chiunque lo desiderasse, alle ricerche potevano collaborare quanti – giovani e meno giovani – erano disposti ad accollarsi faticose ricerche d’archivio, anche a spese proprie.

All’inizio De Rosa riuscì a procurare alcune borse di studio, poi le risorse si inaridirono e non restò che il volontariato intellettuale a cui in molti risposero, consci anche che tutto questo poteva essere l’avvio alla carriera universitaria. In anni in cui alcuni si davano alla lotta armata per cambiare il mondo, nei famosi “anni di piombo”, De Rosa invitava i suoi collaboratori allo scavo tenace negli archivi, o a cercare nuove fonti, anche battendo le strade di campagna o di città, armati di fantasia e macchina fotografica: ne è un esempio la ricerca sulle edicole sacre – dette nel Veneto “capitelli” – che coprono come un manto di pietà l’Europa intera, e che ci aiutano a comprendere un territorio, i costumi della sua gente, i suoi bisogni, le sue debolezze e le sue forze.[2. Anche il nostro portale raccoglie una serie completa di Edicole Sacre Votive.]

E non bisogna dimenticare che i ricercatori formati da De Rosa furono preziosi, dopo il terribile terremoto dell’Irpinia del 1980, per salvare e recuperare quanto restava tra le macerie degli archivi parrocchiali, comunali, o di quant’altro potesse offrire fonti sulla storia locale.

Generoso impegno, dunque, sempre. Al lavoro, da mane a sera. E ben si attagliava questo modo di vivere allo spirito profondo della popolazione veneta, dove Gabriele si trovava bene, in sintonia, perché in queste terre si pensava che lavorare era in fondo anche una forma di preghiera, e farlo gratuitamente lo era dunque ancora di più.

Ma non era solo veneto questo spirito: quando ci si incontrava con gli amici di Salerno, di Potenza, di Roma, o con chi veniva da tante parti d’Italia e d’Europa, si sentiva che c’era un sostrato comune, non c’erano differenze regionali, o nazionali: ci legava tutti la voglia di fare, di conoscere, di indagare per capire da dove venivamo, quali erano le radici della nostra cultura o della nostra fede, e se la religiosità popolare poteva essere sbrigativamente congedata come superstizione o era invece qualche cosa di più profondo, che Giuseppe De Luca aveva chiamato “pietà”.

Dalle indagini sulla storia religiosa, alla storia economica, ai lasciti della Rivoluzione francese, alle esperienze dei paesi che prima del 1989 vivevano oltre la “cortina di ferro” – con la bellissima esperienza che diede origine alle ricerche su “La fede sommersa nei paesi dell’est” –, ai grandi convegni sulla carestia politica degli anni Trenta in Ucraina, sui milioni di persone uccise con la fame, con “La morte della terra” sotto il regime staliniano…. Tutto ci trascinava a capire, a lavorare sempre e poi ancora di più, perché la storia era come un forziere di tesori immensi, ed era proprio un peccato lasciarli lì, bisognava scoprirli, interrogarli, renderli fiaccole per il presente.

La Passione di El Alamein, Gabriele De Rosa

La Passione di El Alamein

Con grande onestà intellettuale De Rosa ci invitava a lavorare, con fede, per chi ce l’aveva, ma senza preclusioni ideologiche, dialogando con tutti, con un’eleganza di stile che ci affascinava sempre.

Gabriele non mortificava mai nessuno, riceveva tutti con affabile signorilità, e se qualcuno gli sottoponeva ricerche piuttosto scarse o scadenti cercava le parole migliori per aiutarlo, o per congedare il richiedente aiuto – per una pubblicazione o un convegno – con parole gentili ma ferme, dilazionando le decisioni finali. “Dilate, dilate…”, sembrava dire sotto il baffo sornione, e poi si vedrà. E il ricercatore a caccia di gloria immeritata se ne andava contento, sperando in un futuro accoglimento delle sue richieste.

Il rispetto della persona era un tratto saliente di Gabriele.

I suoi collaboratori mugugnavano, talvolta, per le grandi fatiche a cui il “professore” li invitava a sottoporsi, senza mai incalzare, ovviamente, ma alzando il baffo scontento se il lavoro procedeva a rilento e si tardava a portare acqua al mulino della ricerca. La mission dell’intellettuale era questa, far progredire la cultura. Ma far progredire la cultura significava anche far maturare le persone che la cercavano, formare docenti universitari innamorati del loro lavoro, curiosi sempre, dotati dei più moderni strumenti d’indagine. Senza la fatica non si ottenevano risultati.

La curiosità era un tratto assai simpatico in Gabriele. All’osteria come in qualche uscita per visitare chiese, mostre, monumenti, egli chiedeva e si informava sempre anche sui particolari più minuti, attento a quella storia di popolo, degli ultimi contadini del sud, come degli operai tessili del nord, che poteva dare lo spaccato di una società.

Le sue ricerche, la sua visione della storia contribuirono a ribaltare l’immagine di alcune figure, come quella di Giovanni Antonio Farina, fondatore nel 1836 della Congregazione delle Suore Maestre di santa Dorotea. Farina – ora proclamato santo – era stato sbrigativamente etichettato come “austriacante”, nella visione un po’ troppo “risorgimentalista” della sua figura, mentre De Rosa contribuì a scoprire tutto l’universo profetico di questo prete e poi vescovo veneto, l’«intelligenza della carità» che il Farina aveva posto alla radice di tutte le sue azioni.

Così fu per molte altre figure della storia, che non è qui possibile ricordare. Ma importa il fatto che, scoprendo i “tesori” che alcuni personaggi straordinari ci hanno lasciato, si contribuisce a far fruttare queste preziose eredità, a farne stimolo per il presente, a cogliere i messaggi di vita che ci possono far progredire nella nostra umanità. La storia, dunque, come messaggera di valori, o di disvalori, nel caso di figure negative. In ogni caso maestra, non di vita – perché mai si ripete uguale – ma di comprensione della vita, dei suoi meccanismi profondi, dei suoi misfatti come dei suoi esempi luminosi.

Dalle tante imprese culturali ai piccoli episodi di vita quotidiana: tutti questi ricordi emergono ripensando alle giornate vissute accanto a Gabriele. E prepotente si affaccia alla memoria l’allegria, l’ironia intelligente, il saper vivere ogni momento della giornata con serenità a volte disarmante.

Contribuiva al clima piacevole, quasi giocoso dei giorni trascorsi insieme a Gabriele la presenza di Sabine, la sua fedelissima seconda moglie, sempre curiosa, come lui, nello scoprire le bellezze che Vicenza e il Veneto potevano offrire, sempre discreta nel lasciar lavorare in pace il marito, senza mai lamentarsi per le lunghe ore da lui trascorse alla scrivania. Sabine si dileguava al mattino per tornare solo alla fine della giornata, passata spesso alla scoperta degli angoli suggestivi o dei negozi di Vicenza, a caccia del bello e del “conveniente”, come nella sua parsimoniosa economia era solita fare.

Ed era tutto un gioco di sguardi severi, a cena, quando Gabriele adocchiava dolci o manicaretti che qualcuno di noi preparava, o proposti nei menu del ristorante, e ai quali lui con molta riluttanza rinunciava. Sabine lo fulminava con lo sguardo se Gabriele sceglieva qualcosa di nocivo alla sua rigorosa dieta, ma lui talvolta si divertiva proprio a disobbedire, con il consenso tacito e omertoso di noi allievi, che guardavamo divertiti questa simpatica scena familiare. Ma non ricordo questi dettagli solo per l’allegria che mi si riaffaccia nella memoria: li ricordo perché sono il simbolo della cura, della pazienza, della dedizione infinita che Sabine offrì al suo sposo, fino all’ultimo istante della sua vita.

Dobbiamo anche a lei molta gratitudine, perché è entrata subito in sintonia con la nostra compagnia, ha contribuito al clima sereno dei nostri incontri, e con la sua fine sensibilità ha sempre collaborato, ha capito a fondo l’importanza di ciò che il marito portava avanti, a scapito forse degli impegni famigliari che Sabine si accollava, silenziosa e attiva, lasciando libero Gabriele di svolgere tranquillamente il suo lavoro.

Una lezione di vita, dunque, quella che De Rosa ci ha lasciato, oltre che una grande scuola di storia.

Lavorare accanto a lui è stato un onere, un onore, ma soprattutto un privilegio. Per questo lo ricordo sempre, gli sono grata per le parole di saggezza che mi ha donato nei momenti difficili della mia vita. Ho lavorato tanto, ma ciò che ho ricevuto – come per molti di noi suoi allievi – è stato molto di più di quanto ho dato.

E dalle sue pagine, dalla memoria che ci ha lasciato, Gabriele ci parla, ancora.[3. Per visionare le opere e la bibliografia che riguarda Gabriele De Rosa vedi: Enciclopedia Treccani.]

                                                                                                                              Alba Lazzaretto

Nel ringraziare la professoressa Alba Lazzaretto per la generosa concessione di questo suo personale ricordo di Gabriele De Rosa, desideriamo cogliere l’occasione per rivolgere un affettuoso saluto anche alla signora Carla Sabine Kowohl, vedova De Rosa, a nome di tutto lo staff di Liberoricercatore.

Qui un interessante video: Don Giuseppe De Luca, Testimonianza di Gabriele De Rosa;

Articolo terminato il 16 aprile 2025


 

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