Castellammare nel racconto di un inglese

Storia e Ricerche

Castellammare, nel racconto di un inglese

di Giuseppe Zingone

Arthur Hamilton Norway, CASTELLAMMARE

Arthur Hamilton Norway

Arthur Hamilton Norway, nacque nel   a Bodmin, Cornwall, England e morì il  all’età di 79 anni, nel Southsea, Hampshire, England, è stato un funzionario pubblico e scrittore britannico. Il suo libro, in due volumi fu pubblicato nel 1901, noi abbiamo preferito estrarre la parte riguardante Castellammare dal volume del 1905.

Il giudizio di un uomo severo è quello che lo scrittore Arthur Hamilton Norway riserva alla città di Castellammare di Stabia nel suo Naples Past and Present: una città “sporca e maleodorante”. Lamenta, inoltre, di esservi rimasto quasi intrappolato a causa del maltempo, che gli impedisce di proseguire il viaggio verso la penisola sorrentina.

Tuttavia, ciò che possiamo aggiungere su Arthur Hamilton Norway è che non si trattava di un viaggiatore sprovveduto. Egli dimostra di essere ben informato sulla storia della nostra città, menzionando i briganti, la Madonna di Pozzano, alcuni dei nostri detti, usi e costumi con grande cognizione di causa. Il suo tono, forse inizialmente sprezzante, si trasforma gradualmente in un inno d’amore verso Castellammare.

Dal suo peregrinare dentro e fuori la città, le sue parole raccontano di un luogo unico e affascinante, straordinariamente bello, soprattutto per le sue caratteristiche naturali. Commovente è la sua descrizione dei palorci e dell’ingegno del nostro laborioso popolo, impegnato nel trasportare giù dalle montagne fascine e legna, risorsa primordiale per l’economia dei nostri avi.

Altrettanto suggestiva è la descrizione del tramonto, che chiude il suo racconto di Castellammare, lasciando un’impressione indelebile di una città dal fascino misterioso e senza tempo.

AI MIEI AMICI
BARONE E BARONESSA MARIO NOLLI
DI NAPOLI, E DI ARI, NEGLI ABRUZZI
DEDICO QUESTO LIBRO
IN SEGNO CHE QUELLI CHE SONO DIVISI
SIA PER MARE CHE PER TERRA
POSSONO ANCORA ESSERE UNITI NEL LORO AMORE
PER L’ITALIA

CASTELLAMMARE: I SUOI BOSCHI, IL SUO FOLKLORE E IL RACCONTO DELLA MADONNA DI POZZANO

Fontana del Re

Fontana del Re

MARZO è pazzo” dicono i napoletani, sprezzanti delle sue incostanze. Dio non voglia che io cerchi di dimostrare la sanità mentale di Marzo; ma ci sono molte probabilità che aprile sia migliore. La sua luna è al primo quarto e giorno dopo giorno dal mare soffia ancora lo scirocco. Le nuvole grigie si accumulano in banchi sul Vesuvio e nascondono le colonne del suo fumo, scendendo a tratti fino al livello della pianura.

Di tanto in tanto è come se la montagna si agitasse e si scuotesse, scagliando via il peso del vapore dai fianchi e dalla cresta, sì che di nuovo si vede la rotolante colonna di denso fumo, macchiato e scolorito dal riflesso dei fuochi lontani, in basso all’interno del cono, ora rosato, ora minaccioso di un bruno opaco che si distingue facilmente dalle nubi acquose che si addensano nel cielo. Eppure lentamente, costantemente il velo di nebbia ritorna, mentre il mio ospite mormora mestamente: “Sette Aprilanti, giorni quaranta!“.1

Ma non è ancora il sette aprile, quindi forse ci sarà ancora risparmiata la vista degli alberi gocciolanti per quaranta giorni. Un’ora fa, quando mi sono avventurato su per la collina verso il bosco, un2

ACQUAZZONI DI APRILE  (pag. 227)

ragazzino color rame guardò fuori dalla cantina dove sua madre era china sui carboni fumanti nel suo scaldavivande di ottone. « Aprile chiuove, chiuove… » gridava, come se fosse la notizia più bella del mondo. Pensa che il raccolto sarà riparato dalle piogge di aprile; ma se lei ed altri di questa regione sapessero donde viene il vero raccolto, supplicherebbero umilmente la Madonna di Pozzano che dia bel tempo ai visitatori.

La Madonna di Pozzano nella Concattedrale, luglio 2024

Essere trattenuti alle porte della penisola sorrentina dal tempo incerto non è affatto una semplice disgrazia. Può darsi che la Madonna di Pozzano talvolta utilizzi le piogge per avvicinare i viaggiatori frettolosi a un modo di pensare migliore. Certamente molte persone si affrettano a superare Castellammare a proprio danno. La città non è attraente e può, inoltre, essere rimproverata di malvagità, sebbene soffra, come si dice, della bassa moralità dei marinai greci, piuttosto che della disonestà dei suoi cittadini nativi.

Ma i pendii montuosi alle sue spalle sono immensamente belli. Nessun bosco nel resto della penisola è paragonabile a questi. Nessun altro viale mostra panorami così ampi e squisiti incorniciati in uno scenario di fresco fogliame primaverile, né c’è su queste sponde un albergo più confortevole o più familiare del “Quisisana“, che si trova vicino all’ingresso del bosco; e questo lo dico con sicurezza, pur non ignorando che i giudizi dei viaggiatori sugli alberghi sono tanto vari quanto i loro verdetti su una bella donna, che a un’ora del giorno è dieci volte più bella che a un’altra, e di tanto in tanto può sembrare decisamente semplice.
>Castellammare possiede un eccellente lungomare, che sarebbe stato una piacevole passeggiata se un egoistico tram non si fosse impadronito sul lato vicino alla riva, difeso da un’alta ringhiera dall’

CASTELLAMMARE (pag. 228)

intrusione di estranei in cerca di aria fresca. Così adagiato su una fila di muri morti, di facciate meschine come solo una cittadina italiana di quart’ordine può vantare, non si ha altro divertimento che guardare le montagne, che in verità sono abbastanza belle per chiunque. Molto ripide ed alte torreggiano sopra Castellammare; non marroni e viola, come quando le guardavo attraverso le mura in rovina di Pompei, ma rivestite dei loro veri colori di verde di ogni sfumatura, scuro e cupo dove i burroni sono scavati sui pendii, o dove i pini giacciono bagnati e pesanti nell’ombra del mattino. Più in alto, i fianchi delle montagne sono ricoperti di sterpaglie, mentre sulle cime l’aria limpida soffia sull’erba nuda che diventa marrone.

A volte digradando rapidamente verso il mare, ma più spesso precipitando in scogliere a strapiombo di immensa altezza, questa parete montuosa scura e ombrosa si protende attraverso le acque azzurre, mentre qua e là un villaggio brilla bianco su qualche collina accidentata, o un monastero innalza le sue pareti rosse tra il grigio tenue dei boschi di ulivi.

Là giace Vico, sulla sua roccia del promontorio, che a questa distanza non mostra che l’ombra della sua grande bellezza; e oltre il prossimo alto promontorio c’è Sorrento, ai piedi di un paese montuoso così squisito, così odoroso di mirto e di rosmarino, così profumato di tradizione e di romanticismo, che è, come ho detto, una buona fortuna che trattiene il viaggiatore che viene, dalla pianura al primo ingresso delle colline e gli dà il tempo di rendersi conto della natura della terra che si trova davanti a lui.

Non c’è bisogno di enigmi per scoprire da dove sia derivata l’importanza di Castellammare in tutti i secoli. Il porto offre un rifugio sicuro per la navigazione, il che di per sé conta molto su una costa che possiede pochi ancoraggi di questo tipo; e si trova

MODI DI COMMERCIO (pag. 229)

vicino all’imbocco di quella strada valliva che attraversa il collo della penisola sorrentina, che costituisce la via naturale dei commerci tra Napoli e Salerno. La strada è di grande interesse storico, come deve essere ogni via che sia stata percorsa da tante generazioni di viaggiatori, illustri e oscuri; e chiunque scelga di ricordare quali vari maestri sia stata tenuta da Salerno, sarà in grado di popolare questo antico tracciato con figure pittoresche come qualsiasi altra nella storia dell’umanità. Osserverà, inoltre, l’importanza del Castello di Nocera, che domina questa via di commercianti.

Confesso di essere un po’ perplesso sull’esatto corso attraverso il quale il commercio di Amalfi si districò dalle montagne e si disperse sulla terraferma. Senza dubbio i mercanti di Scala e di Ravello seguivano la strada ancora esistente da Ravello a Lettere, e di là a Gragnano, da dove viene l’antico scherzo di parole, “L’Asene de Gragnano Sapevano Lettere“.3

Questa strada è certamente antica e all’inizio del secolo attuale costituiva l’accesso abituale ad Amalfi, dove i viaggiatori venivano trasportati in lettiga attraverso le montagne. Il piccolo manuale di Ravello, basato sugli appunti lasciati dal compianto signor Reid, sembra rendere conto di questa strada più recente dell’epoca della grandezza commerciale di Ravello.

Probabilmente si intende una forma recente e non naturale; ma in ogni caso non posso credere che i mercanti di Amalfi mandassero i loro commerci per una via che cominciava per loro con una salita così lunga e faticosa. Forse si avvicinavano a Gragnano per una strada che risaliva la valle da Minori o Majori. Naturalmente i commercianti dei vecchi tempi erano molto pazienti con gli accidentati sentieri di montagna e non cercavano le ampie strade a pedaggio che noi stessi abbiamo imparato a considerare essenziali per il commercio. Senza dubbio,

La Ciucceide, di Nicolò Lombardo- articolo su Castellammare

La Ciucceide, di Nicolò Lombardo

CASTELLAMMARE (pag. 230)

quindi molti muli amalfitani, carichi di sete e di spezie provenienti dall’Oriente, scesero per Lettere, dove difficilmente sarebbero riusciti a superare il castello dei grandi conti che reggevano quella antica roccaforte dei Goti senza pagare pedaggi o tributi per la sua sicurezza, sulle strade di montagna. E così, passando per Gragnano e sotto le colline dove giacciono sepolti i palazzi dell’antica Stabia, le stanche squadre sarebbero scese finalmente a Castellammare, dove avrebbero avuto bisogno di riposo prima di iniziare il caldo viaggio lungo la strada costiera verso Napoli.

Entrambe le strade che divergono da Castellammare, l’una diretta in pianura verso l’alta valle della Cava, l’altra aggrappata ai freschi pendii montani, sono quindi ricche di interesse. Di Nocera, infatti, con il suo castello pieno di ricordi di papa Urbano VI, e la sua bella chiesa di Santa Maria Maggiore, a circa due miglia di distanza, chiunque potrebbe facilmente scrivere un volume. Ma restammo a lungo a bruciare nelle pianure tra le città sepolte; e il percorso in collina ora è ancora più invitante. Il tempo è pronto a cambiare. Un raggio di sole scintilla qua e là sull’acqua. Vediamo cosa hanno da mostrarci le colline.

il castello fronte

Castellammare dalla collina

Castellammare è una città sporca e maleodorante. Mentre percorro di corsa le sue strade affollate, sfiorato da donne che vendono fagioli e schivano altre che compiono certi necessari atti di pulizia sulla porta di casa, mi occupo di chiedermi se esista in tutto il Sud Italia una città senza odori. Da Taranto a Napoli non ne ricordo nessuno tranne Pompei. È senza dubbio un ideale irraggiungibile portare Castellammare allo stato di quella profumata dimora dei morti; anche se non sarebbe saggio profetizzare ciò che il vulcano potrebbe non realizzare ancora sulla scena delle sue antiche conquiste.

VECCHIE COSE DIMENTICATE (pag. 231)

Sono così tante le cose perdute e dimenticate su questa costa. Vedo che Schulz, la cui grande opera rimane ancora di gran lunga la migliore guida attraverso il sud Italia, descrive vaste catacombe sulla collina di Castellammare. Devo ammettere che non so dove siano queste catacombe. Schulz, che li visitò prima del 1860, trovò in essi quadri non più antichi del XII secolo, e somiglianti in molti particolari a quelli che si vedono nelle catacombe di Napoli. Certamente le vecchie tombe a camera non sono più tra le attrazioni di questa città estiva.

Ma tutta la regione impressiona con la costante sensazione che l’interesse più vivo e la conoscenza più lunga spesa su questa terra, cosparsa di polvere da così tante generazioni, lasceranno dietro di sé innumerevoli cose da scoprire. Il mondo sembra più vecchio qui che altrove. E così è, se l’età viene calcolata in base alle vite e alle passioni piuttosto che in base ai percorsi geologici.

Man mano che si procede in salita, i vicoli stretti si aprono in spazi più ampi, e qua e là un soffio d’aria di montagna scende furtivo tra le case, o il frutto maturo di un’arancia illumina con un lampo di colore un cortile ombroso; finché alla fine le case crollano e si sale su un fresco pendio, dove una doppia fila di alberi protegge dal sole. Due tornanti stretti della ripida strada portano in un piccolo villaggio, di cui la prima casa è l’Hotel Quisisana.

Ma non ho niente da dire agli alberghi a quest’ora del mattino, e quindi arranco ancora un po’ su per la collina, finché arrivo al Vico San Matteo, un vicolo che si dirama lungo il fianco della collina alla mia destra, che mi porta a una strada terrazzata ombreggiata, che sale e scende sul fianco della collina appena sotto il livello del bosco. A questa altezza l’aria soffiava dal mare e dalla montagna

CASTELLAMMARE (pag. 232)

è dolce e pura. Le rive risplendono di ciclamini cremisi e di grandi anemoni, sia lavanda che viola, mentre il fianco della collina a destra, che scende rapidamente verso la città, è fitto di frutteti, attraverso i cui fiori cadenti il mare risplende azzurro e verde, mentre dall’altra parte del mantello del Vesuvio versa spire per spire i suoi rosei vapori.

È una visione ampia e nobile, di quelle che hanno reso famosa Castellammare in tutti i tempi, come devono essere i primi pendii dei freschi monti boscosi tra tutte le città dell’ardente pianura. Ai tempi di Roma, proprio come ai nostri, gli uomini alzavano lo sguardo da Napoli molto prima che l’uva cambiasse colore o i fichi diventassero neri, desiderando la dolce brezza di Monte Sant’Angelo, e i boschi sussurranti di Monte Coppola, dove giacciono le ombre per mezza giornata, e gli unici suoni sono quelli dell’indaffarato lavoro dei taglialegna.

Non c’è un capriccio della moda in questa corsa verso le colline, ma un impulso naturale forte come quello che ferma un uomo accaldato e stanco accanto a un pozzo lungo la strada. Ogni generazione di napoletani è venuta qui d’estate; tutti lo faranno fino alla fine dei tempi. Salirò questa sera alla casa di piacere Borbonica; e qui, davanti a me alla svolta della strada, c’è l’antico castello degli Hohenstaufen, costruito dal grande imperatore Federico II e ampliato dal nemico che si impadronì del suo regno e uccise suo figlio, ma venne a godersi lo stesso posto.

Gennaro Villani, Il Castello di Castellammare

Gennaro Villani, Il Castello di Castellammare

Sotto le torri rotonde del rudere fatiscente un’antica scala spezzata scende verso il paese, costeggiando le mura del castello. È da questa antica scala, diroccata e da tempo in disuso, che Castellammare si presenta al meglio. Più in basso si trova il porto, e un peschereccio che corre e dentro ammucchia la sua grande vela triangolare e getta l’ancora. La lunga banchina è una massa in movimento

UN RACCONTO ANTICO (pag. 233)

di figure. Il tintinnio dei martelli risuona nell’aria silenziosa. Qui all’ombra dei boschi il tempo sembra fermarsi, e si vede la collina, la scalinata e il centro storico sottostante proprio come dovevano apparire quando Boccaccio venne qui nella sua calda giovinezza, infiammato dall’amore per Maria d’Angiò, e forse udì, in una notte d’estate nei boschi, la storia che egli ci racconta della vile passione che assalì il feroce re Carlo nella sua vecchiaia, e di come egli la superò. La storia, anche se forse non è vera, vale la pena di essere ricordata, se non altro perché non si registrano molte azioni reali del monarca che uccise Corradino.

Era venuto a finire i suoi giorni tra questi monti un esule fiorentino, tale Messer Neri Degli Uberti. Era ricco, si comprò una tenuta a un tiro d’arco dalle case della città, e su di essa fece un giardino ombroso, in mezzo al quale pose uno stagno per i pesci, limpido e fresco, e lo riempì ben di pesci. Così continuò ad aggiungere bellezza su bellezza al suo giardino, finché capitò che il re Carlo ne venne a conoscenza, quando nelle calde giornate estive andò al suo castello in riva al mare per riposarsi, e desiderando vedere il piacere mandò un messaggero a Messer Neri a dirgli che la sera appresso cenerà con lui.

Il Fiorentino, allevato fra i principi mercanti, ricevette nobilmente il Re; e Carlo, viste tutte le bellezze del giardino, sedette a cenare accanto alla peschiera, mettendo da una parte messer Neri e dall’altra il proprio cortigiano. Conte Guido di Monforte. I piatti erano ottimi, i vini indescrivibili, il giardino squisito e tranquillo. Il cuore logoro del re fremeva di piacere. Preoccupazioni e rimorsi fuggirono e il fascino della dolce sera estiva regnò ininterrotto. In quel momento entrarono nel giardino due ragazze,

CASTELLAMMARE (pag. 234)

figlie di Messer Neri, non più di quindici. I loro capelli pendevano sciolti come fili d’oro filato. Una ghirlanda di fiori blu le incoronava, e i loro volti avevano l’aspetto di angeli piuttosto che di uomini peccatori, tanto delicati e adorabili erano i loro lineamenti. Erano vestite di bianco e un servo le seguiva portando delle reti, mentre un altro aveva una stufa e una torcia accesa.

Ora il re si chiedeva quando aveva visto queste cose; e mentre sedeva guardando le ragazze vennero e resero omaggio al vecchio, cupo monarca, e poi camminando fino in fondo allo stagno dei pesci, spazzarono le acque con le loro reti in quei luoghi dove sapevano che i pesci erano in agguato. Intanto uno dei servi soffiava sui carboni accesi della stufa, mentre il suo compagno prendeva il pesce; e poco a poco le ragazze cominciarono a lanciare i pesci sulla riva verso il re, e lui, afferrandoli con scherzi e risate, li gettò indietro; e così si divertirono come bambini allegri finché la griglia fu pronta.

Allora le ragazze uscirono dall’acqua, le loro vesti leggere le avvolsero; e subito ritornando, vestito di seta, portò al re piatti d’argento colmi di frutta, e poi cantarono insieme qualche vecchia canzone con voci pure e infantili, così dolce che mentre lo stanco tiranno sedeva e ascoltava, gli sembrava come se un coro degli angeli cantassero nel cielo della sera.

Ora, mentre il vecchio re cavalcava verso casa al suo castello, la dolce bellezza di queste ragazze penetrò sempre più profondamente nel suo cuore, e una di loro in particolare, di nome Ginevra, lo stimolò all’amore, così che alla fine aprì il suo cuore al conte Guido, e gli chiese come avrebbe potuto conquistare la ragazza. Ma il Conte ebbe il coraggio di un nobile amico, e gli pose davanti la verità, mostrando quanto vile fosse l’atto che meditava. “Questa”, disse, “non è l’azione di un grande re, ma di un ragazzo codardo. Tu complotti per rubare sua figlia al povero cavaliere

FIAMMETTA (pag. 235)

che ti ha fatto tutto l’onore che era in suo potere, e ha portato le sue figlie ad aiutarlo nel compito, dimostrando così quanto è grande la fede che ha in te, e quanto fermamente ti considera un vero re, e non un lupo codardo.” Ora queste parole ferirono ancora di più il re poiché sapeva che erano vere; e giurò che avrebbe dimostrato prima che molti giorni fossero trascorsi che poteva vincere le sue concupiscenze, proprio come aveva calpestato i suoi nemici.

Così, non molto tempo dopo, ritornò a Napoli; e quivi fece splendidi matrimoni ad ambedue le ragazze, colmandole di onori, e vedendole affidate a nobili mariti, se ne andò tristemente in Puglia, dove con grandi fatiche vinse la sua passione. «Qualcuno dirà», aggiunge Fiammetta, che raccontò la storia nella decima giornata del Decameron, «che fosse poca cosa per un re dare in matrimonio due ragazze; ma ritengo che sia una cosa grande, sì, la più grande, che un re innamorato dia ad un altro la donna che ama.”

Fiammetta avrebbe dovuto sapere di cosa stava parlando, niente di meglio. Mi chiedo perché Boccaccio abbia scelto di inserire in questa storia una circostanza impossibile. Se la storia è vera di qualcuno, non può trattarsi di uno degli Uberti che si stabilirono nel territorio e nei pressi del castello del grande re guelfo. Perché gli Uberti erano tutti ghibellini, sostenitori dell’impero e nemici mortali di colui che uccise Manfredi. Nessuno di loro chiese né ottenne mai pietà da Charles, che era il macellaio della loro famiglia.

Boccaccio certamente non lo ha dimenticato. Nessun fiorentino avrebbe potuto ignorare nemmeno per un momento circostanze così terribili, che colpirono una famiglia così grande. Nessuna negligenza narrativa potrebbe spiegare l’introduzione di uno degli Uberti nella storia. Deve essere stato intenzionale, anche se non ne vedo

CASTELLAMMARE (pag. 236)

il motivo. Può darsi che desiderasse solo accentuare la magnanimità di Carlo, al cui nipote, re Roberto, doveva molto, e scelse le circostanze, vere o false, che rendevano quella magnanimità più sorprendente. Non riesco a trovare una spiegazione più probabile.

La strada che prosegue oltre il castello ondula sotto un arco di faggi, che spiegano appena le loro giovani foglie di tenero verde, e in circa mezzo miglio sbuca all’antico monastero di Pozzano, un edificio rosso di scarso interesse intrinseco, ma ricordando il nome di Gonsalvo di Cordova, « il gran capitano », alla cui pietà si attribuisce spesso la fondazione del convento, sebbene in verità sul posto esistesse una fondazione ecclesiastica già da tre secoli prima dell’epoca di Gonsalvo, e tutto ciò che fece era quello di risanarlo dal decadimento.

Dubito che molte persone ricordino adesso il grande soldato. I contadini che salgono e scendono per il pendio davanti alle porte del convento conoscono molto meglio la storia del misterioso quadro della Madonna, ritrovato sepolto in un pozzo, ma ora appeso glorioso nella chiesa.

Raffaele Carelli, veduta di castellammare da Pozzano

Raffaele Carelli, veduta di castellammare da Pozzano, Museo Correale di Sorrento

Vale la pena fermarsi e ascoltare la storia di questa immagine. Molto prima che fosse edificato l’attuale convento, quando in questo luogo il colle era deserto e coperto di fitta erba, attraverso il quale si aprivano con fatica i muli diretti a Sorrento, i Castellammaresi notarono una fiamma che di notte si accendeva come un fuoco di segnalazione acceso per avvisare le navi al largo della costa. La gente guardava e tremava, perché c’erano strani esseri sulla montagna, nani o cosa! Nessun uomo mortale accenderebbe un fuoco lì.

Così il segnale brillò, ma nessuno si avvicinò, finché alla fine alcuni pescatori gettarono le reti nella baia e si chiedevano tra loro quale potesse essere il significato della fiamma che

LA MADONNA DI POZZANO (pag. 237)

ardeva allora sul colle, videro la Madonna venire loro incontro attraverso il mare, tutta vestita di luce. La vergine raggiante rimase a guardarli dall’alto con gentilezza mentre sedevano rannicchiati nella loro paura, e ordinò loro di dire al loro vescovo di scrutare il terreno su cui aleggiava il fuoco, perché lì avrebbe trovato un’immagine di lei.

I poveri uomini non prestarono attenzione a quella che credevano una visione notturna; né obbedirono alla Vergine quando venne di nuovo. Ma quando la terza notte la Regina del Cielo discese in questo mondo oscuro, torreggiò sopra la loro barca infuriata e terribile, denunciando contro di loro tutte le sofferenze dell’inferno e dell’oscurità esterna se avessero osato trascurare i suoi ordini. I pescatori spaventati corsero dal loro Vescovo alle prime luci del mattino e gli raccontarono la loro storia. Anche lui aveva avuto una visione celeste, che lo avvertiva dell’arrivo dei marinai. Non c’era spazio per dubbi o esitazioni. Si mise alla testa di un lungo corteo penitente, salì sulla collina, scoprì un pozzo proprio dove la fiamma ardeva, e nel pozzo il meraviglioso quadro che ora adorna la chiesa.

Come è arrivata la l’immagine lì? Se si potesse rispondere a questa domanda si potrebbe fare luce sull’età della reliquia. I contadini quando vedono una qualunque opera d’arte antica sono disposti a dire: “San Luca l’ha pittato“! (“Lo dipinse San Luca”), come fece a Napoli la Madonna del Carmine; e per conseguenza anche questa immagine è stata attribuita al pennello dell’Evangelista. Gli stessi sacerdoti non rivendicano un’origine così sacra per la loro tela, ma sostengono che si tratti di un’opera greca antica, sepolta per sicurezza ai tempi in cui, per volere dell’imperatore iconoclasta Leone Isaurico, si tentò di sradicare il culto delle immagini dalla terra. Non so se qualche esperto competente lo abbia fatto

CASTELLAMMARE (pag. 238)

dichiarando che il dipinto risale ad un’epoca che rende probabile la storia. Le tradizioni ecclesiastiche sono spesso ispirate più dalla pietà che dalla verità, e da parte mia, quando ricordo le devastazioni compiute dai turchi lungo queste coste fino all’infanzia di uomini non morti da molto tempo, non trovo motivo per tornare all’VIII secolo per scoprire fatti che potrebbero aver portato sacerdoti o laici a seppellire cose sacre.

In questi giorni la Madonna di Pozzano non cammina più sul mare. Eppure resta, in un grado particolare, la protettrice di tutti i marinai; e si può benissimo sospettare che il racconto sacerdotale della luce miracolosa, del pozzo nascosto e dell’immagine a lungo dimenticata, non faccia altro che nascondere qualche testimonianza di gentilezza fatta ai marinai che noi eretici non possiamo apprezzare.

Perché nei vecchi tempi, quando le navi che si avvicinavano a Napoli potevano avere difficoltà a stabilire la rotta dopo che la luce si era affievolita, e ancora più difficile ancorare al largo di una costa sottovento, un faro sul tetto del monastero sarebbe stato un nobile aiuto, come deve essere e ha salvato molte navi alte e riportato sani e salvi molti marinai a casa dalle loro mogli. Sicuramente in alcuni fatti come questi sta la spiegazione del tradizionale attaccamento dei marinai alla Madonna di Pozzano. “Ave Maria, Stella Maris!” – una stella del mare davvero, se fosse il faro acceso dai suoi servi attraverso il quale i poveri marinai tornavano al porto.

Gennaro Villani, Basilica di Pozzano

Gennaro Villani, Basilica di Pozzano

Non è necessaria molta fede per credere a qualche parte di questa bella storia. L’incredulità è generalmente stupida; ma chi desidera sinceramente essere saggio deve riflettere quando scopre che quasi ogni città della penisola possiede una Madonna ritrovata in qualche modo miracoloso. A Casarlano, ad esempio, Maria Palumbo stava dando da mangiare ad una giovenca quando sentì uscire dai cespugli una voce che diceva: “Maria,

LA MADONNA DELLE GALLINE (pag. 239)

dì a tuo padre che venga a scavare qui, e troverà una mia immagine.” Maria, non vedendo nessuno, non capì, ma la stessa cosa accadde il giorno dopo e quello dopo ancora, mentre alla fine la sua comprensione fu ravvivata da un leggero schiaffo all’orecchio, che avrebbe potuto mutarsi in pesante se avesse aspettato un altro giorno. Ma, diventata prudente per l’esperienza, raccontò tutto a suo padre e lui, sapendo che non spettava a lui ragionare sulle ammonizioni celesti, andò e scavò nel punto indicato, e lì trovò un’immagine che da allora è stata di particolare santità, infatti la sua sensibilità era così acuta, che quando i turchi devastarono il paese nel 1538 pianse lacrime miste a gocce di sangue.

Parlando di queste Madonne sarebbe errore omettere quella più onorata a Nocera, ed in molti altri luoghi dei dintorni. È conosciuta come “La Madonna delle Galline” – la Madonna dei galli e delle galline – e la sua immagine fu ritrovata, secondo una versione del racconto, dal razzolare delle galline nel terreno sciolto che la ricopriva. La sua festa cade nella Domenica Bassa, o meglio nei tre giorni di cui quella Domenica è il centro; e la maggior parte dei visitatori che soggiornano a Castellammare in primavera devono aver visto qualche traccia della festa.

La processione parte da Nocera, e al passaggio della folla di preti e pii laici cantilenanti, ogni buona contadina perde una gallina, oppure un piccione, che ha precedentemente tinto di porpora brillante. Le galline viola si appollaiano sul basamento della statua della Madonna, realizzata larga e grande per il loro alloggio, e vengono poi raccolte dal cerimoniere, che le vende ai devoti. In molti paesi, da Gragnano a La Cava, si vedono occasionalmente le galline viola che beccano nella polvere, meraviglia e stupore per gli inglesi.

CASTELLAMMARE (pag. 240)

i visitatori, i quali, non sapendo quanto il loro piumaggio deve al sacco della tintura, sono disposti a barattare a caro prezzo animali così sicuri di fare scalpore alla prossima mostra di pollame.

Ai piedi del pendio che da Pozzano scende sulla statale da Castellammare a Sorrento c’è un piccolo pilone votivo, incastonato profondamente nella roccia, sul quale mani pie hanno inciso uno di quei richiami patetici ai viandanti che sembrano penetrare così raramente i cuori a cui sono indirizzati – “Non sit tibi grave Dicere Mater ave.

Edicola di Salita Pozzano (foto Maurizio Cuomo)

Edicola di Salita Pozzano (foto Maurizio Cuomo)

“Non sia un peso dire: Ave, Madre!” È un appello gentile, un leggero atto di devozione, eppure ci sono coloro che si preoccupano di reclamare la benedizione. I contadini, uomini e donne, passano senza un attimo di pausa nelle loro chiacchiere, senza il minimo sguardo verso il santuario. Non vogliono nemmeno l’amore umano che viene loro offerto così semplicemente. A Napoli, sul corso Vittorio Emanuele, c’è un’altra Madonna, che ha assunto con ancora più passione gli accenti di una madre umana che medita sui figli addolorati, e tutto il forte sentimento è espresso in versi, di cui il peso è:

… C’è un’ allegria Incontrar la Madonna in sulla via“—

*È una gioia incontrare lungo la strada la Madre dell’umanità.” Nell’ultimo verso la supplica si fa più appassionata, dando voce al grido di un bambino smarrito e spaventato che cerca la protezione che non lo mancherà mai –

. . . O mamma mia Venite a incontrarmi in sulla via !

BRIGANTAGGIO (pag. 241)

Ma nemmeno questa chiamata trova una risposta pronta, e penso che il fascino dei versetti ricada più spesso sui cuori di estranei e stranieri nella fede, che su quelli che cerca di confortare.

Il ripido pendio davanti al convento di Pozzano era il termine dell’antica mulattiera proveniente da Sorrento, la stessa, immagino, per la quale percorse San Pietro dopo essere sbarcato a Sorrento, come racconterò nel prossimo capitolo. Chiunque abbia voglia di addentrarsi dietro il convento può seguirlo ancora serpeggiando su per colline e giù per valli con una piacevole indifferenza alle pendenze che è caratteristica delle strade di smisurata antichità.

Si inerpica sulla cresta di Capo d’Orlando e su molti altri promontori, come se avesse per scopo principale quello di condursi nell’aria limpida e silenziosa, sopra il sottobosco profumato, dove il mirto e il rosmarino profumano l’aria, e il bianco il cisto gommoso cresce come un’erbaccia. Nessuno oggi segue quel sentiero solitario, eppure vale la pena di percorrerlo, se non altro per vedere quanto facilitasse il rispettabile, ma ormai decadente, commercio del brigantaggio, che in tempi non ancora lontani era il dolce conforto di tutti gli uomini e della maggior parte delle donne nelle città, e ancor più nei villaggi montani della penisola.

Castellammare, posta in modo da dominare l’autostrada da Napoli a Salerno, nonché quelle strade costiere più frequentate da facoltosi turisti di tutte le nazioni, era in grande favore tra gli uomini che praticavano la dolce arte di fermare i viaggiatori, e a molti passanti la borsa fu alleggerita dal suo peso sulle strade solitarie. Fra Diavolo era qui molto conosciuto; infatti fu proprio tra le montagne sopra questa strada per Sorrento che egli si cimentò come apprendista nella professione nella quale in seguito divenne un così grande maestro.

Il Convento di Santa Marta4 si trova verso Vico Equense, in alto tra i boschi di ulivi, in posizione solitaria

CASTELLAMMARE (pag. 242)

situazione questa, custode della sua santità. Ciò era bastato, finché non venne al mondo Fra Diavolo, a tenere al sicuro non solo le monache, ma anche la loro statua d’oro della Madonna, che è forse la più meravigliosa, sebbene entrambe siano una prova evidente dell’eccellente e reverenziale morale dei monaci.
Uno persona, Scarpi abitava nei boschi sopra Castellammare, con una fedele schiera di seguaci che lo amavano. Temo che ora sia dimenticato, il che non è affatto giusto, perché era un bandito audace e assetato di sangue. Ma come si dice nel Purgatorio in una occasione simile:

… Credette Cimabue nella pintura Tener lo Campo! ed ora ha Giotto il grido.

Nel Brigantaggio è proprio lo stesso, e la giusta celebrità di Scarpi è oscurata dalla maggiore fama di Fra Diavolo.

Scarpi era diviso in due parti; la cupidigia gli ricordò che la statua d’oro si sarebbe potuta ottenere facilmente, la pietà gli interpose che sarebbe stato un delitto atroce. Non gli veniva imputato niente di peggio dei soliti scherzi ai viaggiatori, tagliando loro le orecchie e rimandandoli all’occasione verso un mondo migliore. È stato un peccato rovinare un record così giusto. Ma fra Diavolo, ragazzo quale era quando entrò nella banda di Scarpi, possedeva il grande vantaggio di un cuore solo. La cupidigia non fu ostacolata da alcuna forza contraria alla pietà, e l’astuzia venne a rendere forte il braccio debole.

Bartolomeo Pinelli, Viaggiatori in diligenza durante un assalto di briganti

Bartolomeo Pinelli, Viaggiatori in diligenza durante un assalto di briganti

Si vestì da novizio, e recandosi coraggiosamente alla porta del convento si proclamò penitente e chiese l’ammissione all’Ordine. Non dubito che avesse una faccia innocente. La madre superiora lo accolse e subito lo rinchiuse in solitudine per i consueti tre giorni di comunione con le potenze celesti, che dovevano prepararlo alla

FRA DIAVOLO (pag. 243)

vita spirituale alla quale aspirava. Naturalmente il ragazzo volle che questo rapporto fosse il più diretto possibile e, entrato inosservato nella cappella, afferrò la Madonna d’oro e la nascose sotto un po’ di paglia nel carro di un contadino che qualche legittima occasione aveva condotto al convento. Fatto ciò, si presentò alla Madre Superiora, dicendole che la sua riflessione lo aveva convinto che non era adatto alla vita celeste – il che in effetti non era altro che la verità – e così se ne andò con la sua approvazione.

Il povero contadino che scendeva poco dopo tra gli ulivi, del tutto ignaro delle ricchezze nel suo carro scricchiolante, probabilmente non riusciva a capire perché i fedeli seguaci di Scarpi dovessero fermarlo e insistere a frugare nella paglia. Le sue emozioni nel vedere ciò che avevano pescato sarebbero state un argomento adatto per un monologo drammatico. L’orrore per il sacrilegio dovette lottare con il rammarico di non aver pensato lui stesso di armeggiare nella paglia.

Se l’avesse fatto, non si sarebbe allontanato dall’altra parte e avrebbe fuso la Madonna nella sua casetta? Diventare lo strumento attraverso il quale i peccatori acquisiscono ricchezza è sicuramente amaro, e spesso nell’aldilà il povero deve aver maledetto il destino che non gli sussurrava all’orecchio ciò che trasportava sul carro.

Ma i briganti di Scarpi portarono via la statua, e con loro Fra Diavolo ottenne grande onore. Questa fama iniziale non la perse mai. E la gente comune, ritenendo che preti e diavoli siano, per quanto opposti in tutte le loro qualità, le uniche classi umane che siano uniformemente astute e di successo in tutto ciò che intraprendono, unì i titoli in un cognomen, per niente troppo glorioso per il capo, che nella sua giovinezza non istruita si era dimostrato più grande di tutti gli altri

CASTELLAMMARE (pag. 244)

vincoli che ostacolano gli uomini avidi, e avevano imposto le mani alla Madonna.

Così Fra Diavolo divenne un potente condottiero, e dolorose sono le storie che i viaggiatori raccontarono di lui. Eppure sarei ingiusto se non menzionassi che i suoi oltraggi più brutali talvolta potevano essere nobilitati dal nome di politica, se non di lealtà verso un re in esilio. Infatti Ferdinando di Borbone, quando alla fine del secolo scorso fuggì dal trono di Napoli, rifuggendo dalle esplosioni rivoluzionarie e dall’avvento dei francesi, non fu così lontano dalle tradizioni della sua razza da disprezzare l’aiuto di eventuali agenti, per quanto mascalzone.

Sarebbe sembrato incongruo se avessimo trovato l’erede del nome del conestabile Borbone che guidò i Lanzknechts di Frundsberg su Roma nel 1527 e gettò i tesori dei secoli in preda alla feccia d’Europa, se avessimo trovato questo monarca dire a se stesso «Non tali auxilio», e abbandonandosi al lusso degli scrupoli.

Ma Ferdinando non disprezzava nessuno che lo aiutasse; e così Fra Diavolo, l’assassino e bandito, divenne un agente segreto del re in esilio, lavorando fianco a fianco con quel mascalzone ancora più atroce di Mammone, la cui abitudine era di cenare con una testa umana appena mozzata sulla tavola, e il cui sangue freddo e gli omicidi erano più numerosi di quanto chiunque potesse contare.

Così questi diavoli assassini tagliarono fuori i corrieri francesi sulle strade di montagna, attaccarono piccoli gruppi in gran numero e compirono altre gesta valorose al servizio del loro re, che non era ingrato, ma li ricompensò secondo la sua specie e la loro.

Bagni minerali

Bagni minerali

Nelle strade di Castellammare non trovo che poco che mi inviti a soffermarmi. Ci sono bagni minerali appena fuori città, ma la Provvidenza non mi ha dato occasione di visitarli, e non piacciono

QUARESIMA  (pag. 245)

all’apparato della mia malattia. Passai dunque davanti alle terme, e passeggiai per le strade affollate e maleodoranti, finché sbucai di nuovo ai piedi della collina che porta ai boschi di Quisisana, e risalii sotto gli archi verdi delle foglie in boccio, finché vedevo di tanto in tanto uno squarcio di mare sopra le case e si svelava l’ampia pianura soleggiata che si estendeva in lontananza attorno alla base del grande vulcano.

Mentre attraversavo il piccolo villaggio di cui ho parlato prima, ho notato appesa a un filo che attraversa la strada una bambola fatta con le sembianze di una vecchia dai capelli grigi, ornata da un ciuffo di piume un po’ nude. Mentre dondolava avanti e indietro nel vento leggero, aveva l’aspetto di un giocattolo da bambino caduto lì per caso; ma avevo visto una bambola simile appesa a un balcone a Castellammare, e sapevo che non era un giocattolo.

Tali bambole si vedono comunemente sospese in aria in questa stagione nella penisola sorrentina. La vecchia è Ouaresima, o Quaresima, e le vengono fornite tante piume di gallina quante sono le settimane in quel periodo di digiuno. Ogni domenica viene strappata una piuma; e quando l’ultimo se n’è andato Quaresima si abbatte con giubilo. Nella prima domenica della sua esaltazione viene compiuto un giocoso diversivo a spese della povera Quaresima.

Un ragazzo o una ragazza, scelti a sorte, sono bendati e armati di un lungo bastone, con il quale colpiscono in aria, brancolando dietro alla figura dondolante. Alla fine lo trova, e un colpo secco rompe una bottiglia nascosta, facendo uscire un fluido rosso: il sangue della Quaresima; la cerimonia è diversificata da una buona dose di scherzi.

Non so quanto antiche possano essere queste cerimonie superstiziose. L’Italia, forse il Sud in particolare, è piena di usi tramandati

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da tempi così antichi che a volte mi fa rabbrividire ricordare quante epoche dell’umanità sono trascorse accanto a loro in processione dalla terra. Il giocattolo, la banale follia che persiste ancora, per più della metà priva di significato, secolo dopo secolo, mentre gli occhi luminosi e le labbra ridenti, tutto ciò che chiamiamo vita, passano come ombre quando tramonta il sole. È la bambola, la grottesca Ouaresima, che ha vita e dura, non noi, per quanto sgradevole possa essere realizzarlo.

Castellammare, Carlo Brancaccio

Castellammare, Carlo Brancaccio

Ma se il nostro tempo sarà più breve, e vedremo meno primavere dell’assurda Quaresima, possiamo almeno rallegrarci della bellezza di questa. Perché come il tempo instabile porta i giorni più belli, così il paese ha assunto la sua bellezza più rara. Il cielo azzurro pende come una tenda in alto, le nuvole sono ricacciate dietro le montagne e giacciono lì ammucchiate in pesanti file di torri e colonne; mentre attraverso i tronchi bruni degli alberi e la nebbia verde dei loro rami più bassi vedo tutte le montagne dietro Nola e verso Caserta ergersi una sopra l’altra nell’azzurro lontano.

Infatti dalle nubi del cielo scendevano luci su alcuni picchi e ombre sugli altri, luci purpuree e ombre brune che si approfondivano nell’indaco, sicché alcuni sembravano vicini e altri lontani, e alcuni erano solforosi e altri verdi, mentre tutta la campagna rideva al sole, e le case bianche e rosa lampeggiavano in riva al mare turchese.

Ai margini del bosco si trovano graziose ville, case signorili con giardini terrazzati che occupano gli alti pendii. La strada si snoda verso l’alto con forti pendenze, cogliendo ad ogni svolta sempre più la freschezza della montagna, finché alla fine ci si imbatte nel cancello dell’antica villa reale, un rifugio utilizzato da ogni sovrano fin dai tempi di Carlo II d’Angiò, quando il caldo o la pestilenza rendevano Napoli insopportabile quasi sempre.

QUISISANA  (pag. 247)

Un tempo era proprietà di quello scandaloso mascalzone di Pierluigi Farnese, il più sgradevole e il meno rispettabile anche tra i figli dei Papi, che fanno così poco credito alla cattedra di San Pietro. Ma fu legato soprattutto a Ferdinando di Borbone, che ricostruì il luogo. Si dice che le abbia dato il nome “Quisisana” (“Qui si guarisce”); ma penso che quel nome, o almeno tanto quanto “Casa sana”, si trovi in documenti molto più antichi del suo tempo.

La villa non è più reale, ma conserva l’aspetto di antico splendore. In queste giornate primaverili è vuota e silenziosa, distesa con le sbarre in attesa di quegli ospiti che saliranno in massa sulla collina quando i fichi matureranno e verrà l’afa, e tutta l’Italia comincia a sognare fresche sfumature di verde. Per tre mesi estivi il luogo è un albergo, il “Margherita”; ma ora, quando cammino verso l’ampia terrazza che sovrasta il cortile erboso, il rumore dei miei passi risuona nell’aria immobile, e le pareti rosse sono eloquenti di regalità scomparsa.

Quisisana, Viale

Quisisana, Viale

Un’aria formale di rigidità cerimoniale aleggia sui viali del giardino, alludendo a cerchi e polvere, a raffinata cortesia e ai vecchi modi maestosi che svanirono dalla terra nello schianto della Rivoluzione. Esco dal cancello per il quale i cortigiani entravano nel bosco, e ho appena percorso un centinaio di metri sotto il tenero verde dei giovani faggi quando giungo a una fontana ombrosa, circondata da sedili di pietra, un luogo ameno in cui la corte era solita indugiare nelle calde giornate estive, salutando i cavalieri che montavano sul ceppo ricoperto di muschio, da tanto tempo in disuso tranne che dai contadini che andavano avanti e indietro con i loro rozzi carri. C’erano adorabili

CASTELLAMMARE  (pag. 248)

strade predisposte per quelle feste di piacere reale; ma mentre mi addentro nei boschi corti e re vengono portati fuori di testa da un ronzio acuto che rompe il silenzio delle cime degli alberi. Su un’isola di cielo azzurro, in un oceano di rami verdi, un fascio di fascine volava come un enorme uccello marrone. L’ho visto andare con una velocità straordinaria. Subito alle sue calcagna ne venne un altro, e poi un terzo, mentre osservando attentamente mi accorsi che, dall’alto della montagna vicina, scendeva obliquamente attraverso i boschi un robusto filo, al quale erano appese le fascine mediante bastoni uncinati tagliati su quelli alti, dagli altipiani dove lavoravano i boscaioli. Poco dopo una brusca svolta del sentiero mi portò all’ultima stazione del cavo.

Le fascine erano ammucchiate in alte cataste, l’aria era piena del profumo del legno appena segato e un fuoco che ardeva lungo la strada emetteva spirali di sottile fumo azzurro tra gli alberi. Una mezza dozzina di uomini stavano ammucchiando doghe tagliate su un carro; e di tanto in tanto si udiva un tintinnio di campanelli mentre i muli scuotevano la testa o tremavano, e tutti gli congegni di ottone fissati sui finimenti per tenere lontano il malocchio cozzavano insieme alla luce del sole.

Lontano, attraverso boschi tuffanti, scendevano ronzanti i tronchi dal Monte Pendolo. Tutte le cime delle montagne sono collegate da questi cavi, e in ogni direzione, mentre si vaga per i boschi silenziosi, l’unico suono udibile è lo strano e non privo di musica del ronzio delle fascine volanti.5

Kirken i Pozzano, 11-12-1820, 210 x 277 mm

Kirken i Pozzano, 11-12-1820, 210 x 277 mm

Un altro girovagare mi porta a una valle, i cui ripidi pendii sono marroni per le foglie cadute e verdi per il sottobosco in erba. Un ruscello scorre giù attraverso il burrone e un ponte di pietra lo attraversa. Qui la strada si divide, un ramo va più direttamente a quegli altipiani da cui le fascine iniziano il loro viaggio, e per questa strada a gambe nude

MONTE COPPOLA (pag. 249)

i bambini si affrettano portando i cesti con i bastoni biforcuti a cui pendono i fagotti. Ma io vado avanti per l’altra strada, che sale serpeggiando per lente pendenze, ora immersa in radure dove grandi anemoni azzurri brillano nell’erba alta, e le orchidee, le api si nascondono tra le ombre, ora emergono in piena vista dell’ampio golfo azzurro e del fumoso vulcano che lo sovrasta, fino a raggiungere finalmente la vetta del Monte Coppola, dove ancora una volta sedili e tavoli sistemati sotto gli alberi segnano un luogo in cui la corte borbonica soleva godersi la brezza montana. Mi chino sul basso parapetto e godo dello splendore della prospettiva.

Oswald Achenbach,Studie einer weiblichen Figur in südlicher Landschaft

Oswald Achenbach,Studie einer weiblichen Figur in südlicher Landschaft (Studio di una figura femminile nel paesaggio meridionale)

È tardo pomeriggio, e il sole calante lascia la grande mole del Monte Faito in profonda ombra, proiettando solo qua e là un raggio di calda luce dorata sui pini che ricoprono qualche spalla, e gettando in un’ombra più profonda i burroni e le cicatrici che sono scolpiti sui suoi fianchi grigi. Eppure anche nelle fessure oscure si vedono bagliori di ginestre gialle o di citiso; poiché il cuculo chiama in tutta la campagna soleggiata, gli alberi sono nel loro fogliame più brillante, e tutti i pendii di querce e castagni che scendono fino al margine della baia sono come una cataratta di verde vivido che precipita giù dalla montagna.

Qui, in vetta, c’è molto silenzio. Il silenzio dei monti regna nell’aria, e appena un uccello cinguetta nella luce dorata. Il crinale del Faito, come un gigantesco contrafforte, taglia tutto il promontorio occidentale verso Sorrento, e precipita nel mare attraverso la punta d’Ischia.

Mentre il sole tramontava e la luce calda diventava più profonda e dorata, una grande striscia di nuvole si formò nel cielo occidentale. Il sole era ora sopra e ora sotto. Ischia si fece ombrosa, per poi catturare la luce più delicata che si possa immaginare, nuotando come un’impalpabile isola fatata in un mare di ombre più oscure,

Rebell Joseph, Paesaggio con Ischia sullo sfondo

Rebell Joseph, Paesaggio con Ischia sullo sfondo, Olio su tela, 132cm x 177 cm, su artnet.com

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blu. Poi, per qualche invisibile cambiamento nell’ordine del cielo, improvvisamente l’isola scoscesa perse il suo colore, e il Monte Epomeo si stagliava nitido e nero contro il cielo arrossato. Così lo si vide per pochi brevi istanti. Ma mentre uno splendore roseo si diffondeva sopra Capo Miseno, correva lungo la costa di Baia, e colpì Posillipo con un delicato splendore. Poi all’improvviso Ischia balzò di nuovo alla luce, tremolando di ogni sfumatura di rosa e viola, finché il sole tramontò dietro il suo picco annerito, e le stelle rimasero grandi e luminose in uno spazio di cielo verde chiaro.

Articolo terminato il primo ottobre 2024


Note:

1. In realtà il detto che oltre ad essere errato, è diffuso anche in varie parti d’Italia, (non solo a Napoli) recita così: “Quattro aprilante, juorne quaranta”. Facente parte del patrimonio popolare significa…  “Se piove il 4 aprile, pioverà anche per i successivi 40 giorni“.

2. ARTHUR H. NORWAY, NAPLES PAST AND PRESENT, METHUEN & CO. seconda edizione giugno 1905, pag. 226. Da qui in poi solo il numero di pagina.

3. “L’Asene de Gragnano sanno Lettere” è un versetto della Ciucceide, di Nicolò Lombardo, La Ciucceide, o puro la Reggia de li ciucce conzarvata, poemma arrojeco, Napoli 1726, Arragliata quarta, canto VI, pag. 51. Leggi anche: Asini e ciucci di Castellammare.

4. Santa Marta, localmente conosciuta anche come Santa Maria Annunziata, è l’ex cattedrale di Vico Equense, situata in Penisola Sorrentina.. Si trova su uno sperone roccioso che domina il mare e la sua facciata, di stile barocco, è uno dei pochi esempi di architettura gotica in zona. Vico Equense, da cui il nome Santa Marta, è un borgo con una storia radicata nella Penisola Sorrentina.

5. Leggi anche: Il ghiaccio e la legna volante di Dahl.

 

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