Archivi autore: Luigi Casale

Informazioni su Luigi Casale

Collaboratore Classe 1943, è un insegnante di liceo in pensione, cura la rubrica "pillole di cultura" e partecipa volentieri alla produzione di "storie minime". Inoltre è presente sotto le voci: detti, motti e tradizioni locali.

La cantata dei pastori

ricordi e osservazioni del prof. Luigi Casale

La cantata dei pastori

“Cantata dei Pastori” anno 1934 (circa): si distinguono in scena Gaetano Cuomo (Razzullo), Vincenzo Cuomo (diavoletto) e Pasquale Esposito (diavolo) – foto gentilmente concessa dal compianto Beppe Cuomo.

Spesso si sente parlare di “tempi forti”. L’espressione si riferisce ai momenti della nostra vita particolarmente significativi, dove maggiori sono l’impegno personale e la consapevolezza. Generalmente se ne parla con spiccata allusione alla vita dello spirito e alla originalissima esperienza morale, individuale e personale. Oppure nei momenti delle grandi scelte. Chi conserva una visione trascendente della vita e della storia, dell’una e dell’altra si fa una rappresentazione ideale e al confronto di quella vorrebbe parametrare le proprie vicende umane, sia quelle personali che quelle collettive, familiari, sociali, storiche e politiche.

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Castellammare: vita, storia e cultura

Aniello Lascialfari racconta

Si ringrazia il prof. Luigi Casale per la preziosissima revisione di bozza

Pozzano di Castellammare (Antica stampa - coll. Gaetano Fontana)

Pozzano di Castellammare (Antica stampa – coll. Gaetano Fontana)

Un tempo, nella mia gioventù, scendevo da quella strada vecchia che mena sulla piazza davanti all’antica basilica di Pozzano. Per raggiungerla, partivo sul tardo pomeriggio – di questa stagione potevano essere le ore 17,00 – dalla piazza del Caporivo, ed a piedi, per salita S.Croce, raggiungevo la strada Panoramica fino al Castello. Poi prendevo a sinistra per la strada vecchia che porta al santuario della Madonna Della Libera, senza raggiungerlo. Preferivo proseguire per la strada antica che porta alla Basilica di Pozzano. La mia meta odierna, di questo viaggio della memoria, rimane ancora il largo dove sorge la Basilica. Tra me e me vado alla ricerca di tracce che m’indichino la presenza di personaggi illustri. La fantasia scioglie le briglie, si dà al galoppo, quasi prende il volo, e mi tocca assecondarla: Salvatore Di Giacomo, Roberto Bracco, Matilde Serao ed Eduardo Scarfoglio, Peppino Turco ed Olga Ossani. Questo è il luogo dove si racconta che alla fine dell’Ottocento essi erano soliti incontrarsi. Continua a leggere

Facezie d’altri tempi

Facezie d’altri tempi

Si narra di un’avventura ( Stabiesi: gioiosi e irriverenti ) – o disavventura? – che tre stabiesi, simpatici burloni, ebbero una domenica dell’anno 1935 o giù di lì. E come da una loro facezia si fosse originata l’ilarità dei paesani, occasionali festivi passeggeri del tram cittadino. La cosa – si narra – capitò una domenica mattina alla fermata della Villa Comunale, proprio davanti alla Cassa armonica. Così la raccontano. Dicono che uno dei tre fratelli, il più anziano, che era anche il più dinoccolato, il più genuinamente grossolano perché il meno acculturato, e, per lo stesso motivo, il più bonariamente sempliciotto, nell’atto di scendere dal tram, non potendosi trattenere oltre, emettesse una sonora flatulenza che invece di farlo arrossire, ne illuminò la mente – questa volta il gas naturale fece effetto – per cui, accortosi egli che sul predellino della porta d’uscita del tram, al mancorrente si reggeva un prete, così – dicono – lo abbia apostrofato: “Zi’ pre’, nun ve mettite scuorno ‘e fa’ sti ccose?” Da qui – si racconta – la sonora risata degli astanti.

zi' prete

zi’ prete

Si sa che la favolistica di origine popolare ha una rigidità di schemi narrativi che si ripetono identici in ogni tradizione letteraria, sotto ogni cielo e a tutte le latitudini. Quando, addirittura, la stessa storiella, se originata dal medesimo aneddoto, modificata nei particolari e adattata al nuovo ambiente socio-culturale, non si riproponga – pari pari – con rinnovata ed originale vis comica.
Probabilmente il prete non doveva essere del luogo; oppure, si dovrà supporre che il nostro personaggio, per consentirsi tanta gratuita libertà, non conoscesse i preti della sua città.
E – aggiunge il narratore – “certamente veniva da uno dei comuni dell’entroterra vesuviano”.
Ora, è risaputa la considerazione che, in ogni città sia essa piccolo centro, capoluogo o capitale, viene riservata alle persone che provengono dalle città confinanti: “da fuori”, dalla campagna, dal contado, dalla montagna, o, rispettivamente, dal piano.
Per rimanere nell’ambito regionale a noi familiare, tutti sanno che a Torre (Annunziata) per indicare “il baggiano” di manzoniana memoria, si dica: “Scénn’a Vuosco”. (Ho dovuto precisare di quale delle due Torri si tratta perché anche Torre del Greco ha il suo bel da fare. Visto che da Napoli a Castellammare è denominata “’A tin’e miezo”: la tinozza, cioè, che, del concime biologico utilizzato una volta per fertilizzare orti e giardini, conteneva le parti solide). I “torresi” poi – intendendo per torresi quelli di Torre del Greco, e cominciando ad indicare con l’appellativo di “oplontini” i cugini di Torre Annunziata – fanno ogni sforzo per trasferire il “titolo onorifico” ai confinanti “nunziatesi” (oplontini), come li chiamano loro.
A Pompei, poi, per dire la stessa cosa si dice: “Vèn’a Castellammare”; mentre a Castellammare dicono: “Chill’è ‘e Gragnano”. E così via. Solo in Basilicata ho trovato una certa ammirazione per chi viene da fuori, in particolare per chi viene dalla Campania. Ma anche questa ostentata simpatia è funzionale allo scopo: essa nasconde infatti la loro avversione per i pugliesi. Debolezze umane. E sempre bonarie occasioni di facezie. E chi più ne ha, più ne metta.

* * *

Così a Trecase si racconta un’identica storiella che a Castellammare. Se poi per combinazione dovesse risultare che essa è stata generata dallo stesso avvenimento che si racconta a Castellammare, allora si tratterebbe addirittura dello stesso aneddoto. E Trecase, manco a farla apposta, è uno dei “comuni dell’entroterra vesuviano”, il più vicino a Castellammare, la quale si gode la fama e la fortuna di essere protesa verso la punta della Campanella, mentre gli altri scendono dalla montagna. Vuoi vedere che quel prete quel giorno veniva proprio da Trecase?
Chi sa.
Tuttavia in qualche particolare il racconto è leggermente diverso.
Dopo aver sonoramente scoreggiato, il tipo gioioso e irriverente, credendo di fare una bravata da aggiungere al già fatto gran rumore, si rivolge – sì – al prete dicendogli: “Zi’ pre’, nun ve mettite scuorno ‘e fa’ sti ccose?”. Al che – ecco appunto la variante – questa fu la pronta risposta: “Nipo’, nun sapevo ca tenevo nu nipote accussì battilocchio”.
Fu a questa punto che scattò lo sghignazzare diffuso dei viaggiatori. Stando – naturalmente – alla parola di chi racconta la storiella a Trecase.

Luigi Casale

Vita da Operai

Da: Carlo Bernari: Tre operai – Milano 1934 (capitolo XVI)

Si ringrazia il prof. Luigi Casale per la gentile segnalazione

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Il rione Cattori era formato da un gruppetto di palazzine e due palazzi grandi, costruiti quasi sulla spiaggia che si stendeva tra Torre Annunziata e Castellammare. Il vecchio Cattori, proprietario della fonderia che sorgeva poco più lontano, cominciò a costruire questo rione per farlo abitare dai suoi operai. Il progetto comprendeva la costruzione di un ospedale, di una infermeria, di uno spaccio cooperativo, e di un albergo che doveva fornire alloggio a tutti quelli che non avevano famiglia. Ma la morte di Cattori mise fine al progetto. Gli eredi erano gente votata a tutt’altri pensieri che non quello di assicurare agiatezza agli uomini abbrutiti dal duro lavoro e dalla vita isolata, e finirono per fittare queste casette per la villeggiatura dei signori che venivano nei mesi estivi.
La plaga stepposa e arida, chiusa fra Castellammare e Torre, divenne così una colonia di piccoli borghesi che nelle sere di luna e nelle domeniche lunghe si riunivano in grosse comitive a sorbire bibite ghiacciate, a organizzare gite in barca e in automobile. Gli operai, per i quali erano state costruite quelle case, passavano sull’imbrunire il più lontano possibile da quella gente quasi per non vedere la loro vita meravigliosa.
La domenica anche gli operai andavano al bagno, ma si riunivano tra loro e se ne stavano in disparte in qualche angolo della spiaggia, che non aveva fine; dove gli uomini e le cose, per la vista larga, si perdevano in una nebbiolina lucente che il caldo sollevava dalla rena. Le voci dei villeggianti si facevano eco di tenda in tenda e giungevano fino ai diseredati cariche di vapori, di colori e d’intatta felicità, e sembravano provenire da una terra ignota, dove tutto squilla di piacere e ogni cosa brilla, anche la spiaggia che, da quella parte, invece, appariva più sporca e triste. Il mare batteva quasi sempre su quel lato portandovi sbavature di alghe e di catrame, che seccandosi attiravano mosche, zanzare, nugoli di moscerini…

Juve Stabia – Hellas Verona ( Attacca ‘o ciuccio addò rice ‘o patrone )

Juve Stabia – Hellas Verona
( Attacca ‘o ciuccio addò rice ‘o patrone )

ciuccio

ciuccio

A scadenza fissa ritornano le cronache dei contrasti ideologici di natura razzistica delle varie tifoserie calcistiche delle squadre del nord e di quelle del sud.
Le cronache ritornano quando negli stadi si ripetono incidenti, si notano striscioni stupidi e si ascoltano cori imbecilli. Ma la verità è che quella mentalità deteriore cova e si alimenta nelle menti dei soggetti che, poi, la manifestano attraverso le iniziative indicate, come sfogo di un malessere personale. E sempre a loro completo disonore. Quelle manifestazioni, infatti, sono il segno evidente del ritardo culturale e civile in cui versano – e questo, bello non è – gli attori delle azioni sopra ricordate, di cui si alimenta la cronaca giornalistica

Si riteneva che il gioco del calcio, in mancanza di altre agenzie educative o in sintonia con esse, potesse aiutare a crescere i supporters di tutte le squadre, aggregando simpatie e passioni campanilistiche e favorendo così la socializzazione, e, con essa, la conoscenza di altre persone, di altre città e, nello stesso tempo, lo scambio di esperienze e di gesti di solidarietà. Tutto questo all’interno di un sistema (il gioco del calcio) che come sport avrebbe dovuto esaltare la lealtà; e come sistema di regole – in campo (le regole dl calcio) e fuori dal campo (nella gestione dei gruppi sportivi e delle associazioni ad essi collegati) – avrebbe dovuto esaltare la legalità. A questo servono le associazioni, i club, i gruppi: ad evidenziare l’identità culturale degli associati, ma solo per fargli superare blocchi psicologici e ritardi di civiltà; non certo a confondere l’individualità di ognuno e ad annullarne il senso di responsabilità.

E invece, …. .

* * *

Prendendo spunto dalle recenti controversie (offese – polemiche – ricorsi – contro-ricorsi – ecc.) intrattenute tra Hellas Verona e Juve Stabia, voglio ricordare alcuni episodi risalenti alla mia esperienza personale avuta con amici e colleghi veronesi. Non dirò di quegli stupidi comportamenti – miserie umane! – che non mancano mai da parte di persone che non riescono a confrontarsi tenendo fermo l’inderogabile assunto che l’altro, comunque, vada rispettato. Di fronte a questi casi ho sempre evitato di fare polemica, perché “a lavar la testa all’asino, …. ecc., ecc., …”
Ho sempre cercato di offrire all’ottuso di turno esempi di dignità e di tolleranza.
Se ci sia riuscito non so.
Perciò preferisco piuttosto raccontare di quelle situazioni che hanno fatto chiarezza di pregiudizi e di comportamenti conseguenti, non proprio sereni nella valutazione dell’altro. Nell’una e nell’altra direzione, perché. nonostante quei pregiudizi si era pur sempre amici o colleghi, e si continuava comunque a rimanere tali. Se pure con qualche forma di circospezione.

* * *

A Verona io ci ho lavorato. E ho avuto modo di apprezzare la precisione e il senso del dovere dei colleghi veneti. Insieme anche a qualche difettuccio.
Nella stazione di Verona Porta Nuova delle Ferrovie dello Stato, un giorno ero in servizio alla Biglietteria dietro uno dei tanti sportelli aperti nelle ore di punta quando numerosi viaggiatori – studenti, lavoratori pendolari, turisti, viaggiatori occasionali – si affollavano in lunghe file nell’atrio. Un collega alla destra, un altro alla sinistra, e così di seguito, a ranghi compatti per tutta la linea degli sportelli come in una trincea, si cercava si smaltire la massa dei viaggiatori. A sinistra avevo Menini, a destra il Titta – così chiamavamo Augusto Piubello – , e tutti e tre, come gli alti fino all’ultimo sportello, eravamo alle prese con la macchina automatica in dotazione all’epoca: la SASIB, la quale, dopo averlo ingoiato il cartoncino rettangolare bianco, lo stampigliava per risputarlo come un biglietto ferroviario: data, destinazione, importo, validità e numero di serie. L’operatore doveva solo selezionare su richiesta del viaggiatore la città di arrivo; e lo faceva sopra un grande pannello su cui scorreva la striscia di plexiglass con un movimento orizzontale/verticale, come se seguisse un’immaginaria coppia di assi cartesiani. Per accelerare le operazioni di pagamento, ognuno poi aveva escogitato la sua tecnica personale nel calcolare il resto da dare insieme al biglietto. Visto che la maggior parte della clientela pagava con valuta cartacea di taglio elevato.
A tutti noi sarà capitato di avere avuto qualche discussione agli sportelli pubblici su chi dovesse procurarsi la moneta spicciola, se il cliente oppure l’impiegato di servizio allo sportello.
Ebbene quel giorno in seguito alla difficoltà in cui si trovava il Titta nel dare il resto al viaggiatore, si animò una controversia rispettosa e bonaria con un viaggiatore per vedere a chi dei due toccasse andare a procurarsi la moneta contante. Nonostante le maniere garbate della discussione nessuno si decideva a cedere, adducendo sempre nuove argomentazioni a sostegno della propria tesi. Alla fine perdendo la pazienza il viaggiatore che fin allora aveva parlato sempre in italiano senza la minima inflessione dialettale sbottò, dicendo, nel più schietto napoletano: “Aggio capito: attacca ‘o ciuccio addò rice ‘o patrone”. Il Titta restò perplesso, e senza comprendere neanche una parola credette che il simpatico viaggiatore volesse offenderlo.
Quella espressione napoletana era di mia conoscenza, come pure mi era familiare la parlata; ma ciò che particolarmente richiamò la mia attenzione fu il fatto che avesse sanzionato con quella sentenza un battibecco che non avevo potuto seguire durante tutta la contrastata operazione di acquisto del biglietto. Mi stupiva inoltre l’esitazione del Titta che a quelle parole incomprensibili per lui e credute un improperio, non sapesse trovare una risposta, né sapeva perciò come reagire. Allora per toglierlo dall’impaccio mi sporsi verso il suo sportello fino a farmi vedere dal viaggiatore, al quale prontamente e perentoriamente risposi: “Sono del tutto d’accordo; ma anche lei dovrà convenire con me che è sempre meglio attaccà ‘o ciuccio addò rice ‘o patrone, anziché attaccà ‘o patrone addò rice ‘o ciuccio. O no?”
E la cosa si sciolse con una risata generale. Allora il signore, a sua volta sorpreso, andò a procurarsi la moneta spicciola.

* * *

La cosa strana si verificò dopo, quando rimasto solo col Titta egli mi chiese che cosa avesse detto quel signore e che cosa gli avessi risposto io. Allora, sentita la traduzione che gli feci delle espressioni napoletane, lui mostrò meraviglia che io, napoletano, mi fossi schierato contro un napoletano prendendo le difese di un veronese. Però ancora più grande fu il mio stupore di fronte alla sua meraviglia.
E ce ne volle per fargli capire che, data la situazione e valutate le ragioni dell’uno o dell’altro, non avevo esitato a mettermi dalla parte di chi a me, a torto o a ragione, sembrava essere nel giusto. Veronese o napoletano che fosse.

Luigi Casale