Ricordo del dott. Imparato

Gli anni ’30 a Castellammare
( nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera )

Dott. Imparato Salvatore

Dott. Imparato Salvatore

Caro Maurizio, nei giorni scorsi sul “Libero Ricercatore” hai pubblicato un bel ricordo del dottor Imparato. L’ho letto con grande emozione perchè molti anni fa fui da lui curato e salvato. Ecco i fatti:

Nel 1934 avevo 11 anni. Nell’estate di quell’anno a Castellammare molti bambini si ammalarono di tifo, ed io fra loro. Qualcuno morì, qualcun’altro si salvò. Io mi salvai grazie alla valentia professionale del dottor Imparato, per l’immenso amore e sacrificio dei miei genitori ed alla buona sorte o per meglio dire al volere di Dio. Il dottor Imparato, fin dalla prima diagnosi, e per tutto il tempo della mia malattia, veniva a volte anche due volte al giorno a visitarmi e controllare come andavano le cose. All’inizio avevo la febbre a 39/40 gradi e quindi la cura fu subito radicale: per far scendere la febbre dovevo fare due volte al giorno un bagno nell’acqua fredda. Naturalmente della vasca da bagno a casa mia si sapeva a malapena che esisteva, ma quanto a possederla poi….! E quindi fu giocoforza sostituirla con una tinozza di zinco abbastanza capiente. Poiché neanche il frigorifero faceva parte dei confort della mia abitazione di Via Santa Caterina, mio fratello (e a volte i vicini di casa) si recava a comprare presso la fabbrica del ghiaccio (che penso si trovasse dalla parte della Caperrina) un mezzo panetto di ghiaccio lungo 50/60 cm. che si caricava in spalla avvolto in un sacco di juta. Tanto per completare la descrizione delle condizioni igieniche in cui si trovavano quasi tutte le abitazioni del centro storico, per noi il gabinetto era costituito da un “cantero” posto in uno sgabuzzino angusto, scuro e senza prese d’aria con l’esterno.

Più sopra ho attribuito la mia guarigione anche ai sacrifici dei miei genitori, ed ecco il perché. Allora non esisteva in Servizio Sanitario Nazionale, la cosiddetta “Mutua” e per un ammalato grave a volte il vivere o morire dipendeva dal censo (chi aveva il denaro per curarsi adeguatamente) e dalla buona sorte (o volere di Dio). Per affrontare le spese per le mie cure i miei genitori portarono tutti i doni di nozze che ancora possedevano al Monte di Pietà (doni che naturalmente non furono mai riscattati…). Mio padre, dipendente delle “Ferrovie dello Stato”, ottenne dall’Amministrazione un prestito che poi restituì con una trattenuta sugli stipendi successivi. In verità non so se il dottor Imparato fu pagato; in caso affermativo non so dire quando e quanto gli fu dato. Era nota però la sua discrezione nel chiedere (ed a volte anche a rinunciare) un modesto compenso a quelle famiglie in precarie condizioni economiche. Dopo 8/10 giorni di un trattamento così drastico, naturalmente affiancato da appropriate cure mediche, il mio stato di salute incominciava a migliorare. Ricordo ancora bene le prescrizioni consigliate ai miei genitori per quanto riguardava il vitto. Mangiare minestrine in brodo e legumi accuratamente sbucciati, carne di cavallo tritata e anche gli acini d’uva dovevano essere accuratamente sbucciati. Inoltre, per rimettermi in forze, dovevo fare delle punture endovenose; e lui tutti i giorni veniva a farmele a casa mia. Per un bambino di 10/11 anni vedersi infilare un ago nelle vene non era piacevole: Ma lui con incoraggiamenti scherzosi e garbati riusciva a tranquillizzarmi dicendomi che avevo le vene che sembravano la “condotta dell’Acqua della Madonna”, tanto erano grosse ed evidenti.
Questo è il ricordo di un malato che 75 anni fa, fu curato e salvato da quel valente medico galantuomo che era il Dottor Imparato. Nel raccontare questo triste momento della mia vita, credo di aver offerto un piccolo spaccato della vita e delle condizioni in cui si viveva allora a Castellammare.

Gigi Nocera

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