‘E guagliune r”a Funtana

‘E guagliune r”a Funtana
di Frank Avallone

L'acqua ferrata cartolina di Enzo Cesarano

L’acqua ferrata cartolina di Enzo Cesarano

Eravamo un gruppo unito ed esclusivo; abitavamo in una zona delimitata dal palazzo del Mulino, piazza Fontana, salita Ponte e vico Mascella; una quindicina in tutto. Qualche volta si univa a noi, uno “straniero” ‘e rint’‘a Chiazza o di Visanola. Questi li accettavamo con diffidenza!! Ogni domenica pomeriggio, tutti insieme, andavamo al cinema, a vedere film dei banditi (cowboys), Tarzan o dei pirati (insomma film di avventura). Per le sette di sera, eravamo in villa comunale, ove, spesso, eravamo costretti a confrontarci con altri gruppi di ragazzi (per noi stranieri), che ci volevano mandar via, da quello che consideravano il loro territorio; a volte, si finiva col fare a botte. Con le poche lire che ci erano rimaste, dopo l’acquisto del biglietto d’ingresso al cinema, compravamo semi di zucca, un gelato e altri prodotti di stagione. Naturalmente, si divideva tutto tra amici. Alle nove di sera ci incamminavamo verso le nostre case, discutendo e imitando le voci e le gesta dell’eroe del film visto. Fra di noi non capitava mai di litigare, tranne una sera; erano circa le nove e mezza ed eravamo all’altezza del bar Muollo, situato all’angolo tra piazza Orologio e via Bonito; noi eravamo dall’altro lato di via Bonito. Due nostri amici vennero alle mani; uno era Vincenzo Pagano (salita Ponte), l’altro, uno straniero “‘e r’int’a Chiazza”, Carmine Di Somma. Noi non riuscivamo a separarli; a quel punto, un giovane di circa 30 anni, che si trovava di fronte al bar Muollo, dove fungeva da protettore di una giovane “NOBILDONNA” (il cui soprannome davvero azzeccato era ‘a Zizzona, non entro nei particolari perché credo sia inutile spiegarne i motivi), questi attraversò la strada e cercò di separare i belligeranti; non riuscendoci, passò a vie più convincenti, dando uno schiaffo a Vincenzo Pagano. Quello schiaffo non fu accettato pacificamente da Vincenzo, che offeso, cerco di aggredire quell’uomo, grande e grosso e certamente fisicamente superiore a un ragazzino di dodici anni circa. Noi tutti afferrammo il nostro caro amico e cercammo di calmarlo: “Vicie’ nun te compromettere, che vuo’ passà nu guaio?” La ragione vera e che non volevamo prendesse altre mazzate, anche perché saremmo certamente intervenuti in suo favore e quasi certamente, le mazzate le avremmo prese pure noi. Così la calma fu ripristinata e ce ne tornammo alle nostre case. Per anni ci sentimmo dire da Vincenzo, che cosa gli avrebbe fatto “A CHILLU FETENTE”, se noi non lo avessimo fermato.

Come detto questo mio caro amico abitava alla salita ponte, prima del palazzo del Serraglio; al piano terra c’era un falegname di nome “don Rafele ‘o masturascia”. Spendevo molto tempo a casa sua, anche perché aveva un teatrino dei pupi, un tam-tam e le maracas, che appartenevano a uno dei suoi fratelli più grandi. Noi facevamo un sacco di chiasso, e la madre, buon’anima, ci faceva giocare, senza mai arrabbiarsi; che bella persona! Se non era in cucina, ricamava e cuciva assieme ad Annamaria e Titina, le due figlie più giovani, le quali imparavano ad essere donne di casa, capaci di portare avanti le loro future famiglie.
Vincenzo era ed è una persona di cui ci si può fidare; leale, modesto e infinitamente buono. Circa sei anni fa gli telefonai e gli chiesi notizie di un comune amico d’infanzia, di cui non avevo il numero telefonico, Vittorio Di Martino. Mi disse che stava bene, abitava verso il campo san Marco, sposato e padre di due figli e due figlie. Mi volle informare che tutti questi figli e figlie erano diventati (parole sue) “‘na cosa bbona”. Questo mi riempì di gioia (due volte) la prima per Vittorio e famiglia e l’altra per Vincenzo, il quale, senza ombra di invidia, mi parlava del successo del nostro comune amico, con un senso di orgoglio. Io voglio cogliere l’occasione per salutarlo affettuosamente e di mettere per iscritto, quello che penso di lui: “VICIE’ TU SI’ ‘NA COSA GRANDE!”.

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