Pillole di cultura: Anfiteatro

a cura del prof. Luigi Casale

La parola “anfiteatro” è formata da due elementi strutturali: anfi e teatro (greco: amphì +théatron).
Sappiamo che l’edificio pubblico che chiamiamo anfiteatro è una costruzione tipicamente italica; tant’è che se si vuole indicare inequivocabilmente il teatro (sia come genere letterario che come spazio per le rappresentazioni), lo si chiama “teatro greco”. E infatti il teatro (opera letteraria e manufatto architettonico) è interamente greco.
A questo proposito voglio ricordare che il genere letterario: “teatro classico” (che pur essendo di carattere narrativo, è sempre un’opera letteraria scritta in versi, cioè fatta di metro e ritmo, quindi è poesia) comprende tragedia, commedia, dramma satiresco; e, prima ancora, anche ditirambo; oltre a qualche altra forma di rappresentazione fatta di danza e di mimica. Per quanto riguarda la tragedia e la commedia, si tratta della forma più alta di produzione letteraria della Grecia classica, insieme all’epica e alla lirica.

Il teatro. La struttura architettonica destinata fin dall’antichità ad accogliere questi spettacoli a contenuto mitologico, storico-realistico, o burlesco, è fatta da una serie di gradoni a semicerchio appoggiati ad un pendio collinare. Immaginiamo un semicerchio: dalla parte della curvatura si disponevano gli spettatori (sui gradoni concentrici appunto); di fronte, dalla parte del diametro (la corda che sottende l’arco) è piazzata la scena. È questa una costruzione in muratura che rappresenta una facciata di abitazione, generalmente con più di una porta d’entrata (casa privata, sede pubblica, oppure tempio) con davanti una piazzetta (il proscenio). Quindi la scena è fissa (cioè sempre la stessa): una strada che va a destra, una strada che va a sinistra, una piazza al centro. La confluenza di un trivio, insomma, essendo la terza strada quella dalla quale lo spettatore osserva. Sia per gli attori che per gli spettatori la finzione scenica era immaginata sempre all’aperto e supponeva due strade, una a destra e l’altra a sinistra, delle quali la prima andava in città verso il Foro, l’altra andava fuori città che, a seconda dei casi, poteva essere o verso il porto o il campo di battaglia, o verso la campagna in direzione di un’altra città. I pochi attori presenti sulla scena si muovevano in questo spazio circoscritto, così definito dal Prologo, il personaggio che introduceva la storia. Ma conoscendo l’opera che stava per essere rappresentata, tutti gli spettatori riuscivano ad immaginare anche la direzione delle uscite. Anche le tre porte della scena erano o entrate o uscite, ma indicavano gli interni. Là si svolgevano le azioni violente o truculente, o indecenti. Quindi quelle azioni non erano viste dal pubblico degli spettatori. O erano raccontate dai personaggi che da quelle case uscivano, oppure all’esterno giungevano soltanto grida, suoni e rumori, che dovevano dare l’idea di quanto accadeva all’interno. Successivamente uno degli attori veniva a raccontare agli spettatori che cosa era successo dentro l’edificio.
L’anfiteatro. È invece un corpo ellittico costruito su zona pianeggiante, i cui gradoni, a forma di ellissi questa volta, sono una vera e propria costruzione architettonica poggiata sopra una serie di gallerie circolari (essenzialmente archi, quindi) con la volta a botte. Erano questi i passaggi attraverso i quali gli spettatori raggiungevano il posto a sedere. Gli anelli concentrici, e delle gallerie e dei corrispondenti ordini dei posti che le sovrastavano, andavano a restringersi intorno ad un’ampia arena ovale, nella quale si svolgevano spettacoli di grande movimento: giocolieri e saltimbanchi, caccia di belve, battaglie navali, scontri di gladiatori, e altri giochi di squadre (due o più anche contemporaneamente): tutti giochi di forza fisica e di resistenza, più o meno violenti.
“Amphì” – da cui deriva anche la forma “ambo”, che è andata a sostituire il numerale “duo” – è avverbio (e preposizione) e significa “di qua e di là”, “in giro”, “da tutte le parti”.
Il fonema “ph” ( pronuncia / fi / ) della lingua greca è labiale (come “p” e “b”), e ciò significa che si pronunciava accostando le labbra, proprio come “p”, “b” e “m” (e non come la nostra moderna “fi”). In pratica era una “p” fortemente aspirata. Quindi anche la nasale che la precede prenda la forma di labiale, cioè “m” (e non “n”). Quando la “ph” nella sua evoluzione fonetica (alla distanza) diventa “f” (perde cioè la caratteristica labiale) anche la “m” perde la sua, e diviene “n” (che, come dentale, può essere pronunciata a labbra aperte). Per questo motivo oggi la parola è “anfiteatro”. Quando invece il fonema per qualche motivo si dovesse trasformare in “b” (e continua perciò a conservare la sua caratteristica labiale), costringe allora anche la nasale a mantenersi labiale. Ed è ciò che succede in “ambo”.
La trasformazione di amphì in ambo, e l’utilizzo di questo avverbio col valore di “due volte”, ha fatto sì che la parola anfiteatro venisse interpretata come “due teatri: uno da una parte e uno dall’altra”, facendo nascere la leggenda dei due teatri girevoli che ruotando formavano l’anfiteatro, all’origine della forma dell’anfiteatro.
La verità è che i rispettivi manufatti del teatro e dell’anfiteatro sono strutture del tutto diverse ed hanno storie completamente diverse, sia sul piano linguistico e culturale sia su quello architettonico e strutturale. Anche se poi tutt’e due le costruzioni hanno a che fare col théatron (visione; spettacolo). Il verbo greco, infatti, è theáomai = guardo, osservo. Per anfiteatro si tratta però di un “vedere tutt’intorno, vedere di qua e di là”.

Notiamo ora due cose.
Prima. In alcune lingue europee come il francese, il grafema “th” di théatre, thème o thermes, rappresenta lo stesso fonema che è rappresentato dal grafema “t” (senza la “h”). Quindi in francese lo stesso suono / t / a volte si scrive “t” e altre volte “th”.
La presenza della “h” (quando c’è) in effetti è solo il segno di una memoria storica, cioè che all’origine (nella lingua greca antica) quella “t” era aspirata (th ). Per lo stesso motivo si è conservato anche il grafema “ph” di philosophe o phisique.
Seconda. La presenza della radice di théaomai compare anche nella parola italiana “politeama”, con cui si chiamano alcune sale cinematografiche per significare che esse sono polivalenti (adatte a più usi), essendo idonee ad ospitare diverse tipologie di spettacoli (greco: polù = molto; corrispondente al latino: plus e plurimus).
Aggiungiamo – giacché ci siamo – una nota di tecnica teatrale. Nel teatro greco antico – come ho detto – la scena è fissa, e rappresenta un tratto di strada, all’aperto, davanti ad un gruppo di case, o ad un tempio o ad un diverso edificio pubblico. Da un lato si va al Foro (verso la città), dall’altro al porto o al campo di battaglia, o fuori città verso la campagna o in direzione di un’altra città.
Abbiamo già detto che i testi del teatro classico erano in versi. La rappresentazione prevedeva che molte azioni (antecedenti al momento scenico, oppure quelle scabrose) venissero raccontate (diegèsi); ne discende che la rappresentazione vede pochissimi attori sul proscenio a sostenere l’azione scenica dal vivo. La maggior parte della vicenda (le scene di violenza o truculente o di intimità più o meno volgari che si immaginano svolte all’interno degli edifici, quelle che si erano già svolte, quelle che si svolgevano lontano nel tempo e nello spazio), erano solo raccontate dagli attori una volta usciti nel proscenio. Della storia rappresentata, molto più di quanto non si vedesse era invece raccontato.
L’anfiteatro invece non ha bisogno di questo tipo di soluzioni, in quanto le sue rappresentazioni mancando di testo prefissato, sono di pura azione o di abilità o di forza. E’ tutta un’altra cosa.

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