L’Isis degli anni Cinquanta

L’Isis degli anni Cinquanta: la minaccia dalla penisola sorrentina

(con il massimo rispetto per gli amici costieri: mio zio era di Meta)

( di Catello Graziuso de’ Marini )

Cari amici del sito, le nefaste cronache degli ultimi giorni afferenti gli attentati terroristici che minacciano la società occidentale mi hanno portato alla mente, con le dovute proporzioni, quanto accadde nei primi anni cinquanta, allorquando noi stabiesi fummo costretti a misurarci con una minaccia esterna certo meno sanguinaria, ma altrettanto organizzata e pervicacemente volta alla distruzione delle nostre radici, delle nostre tradizioni, della nostra storia, dei nostri biscotti: i sorrentini.

Via Cantiere (coll. Carlo Felice Vingiani)

Via Cantiere (coll. Carlo Felice Vingiani)

Non vi è certo in questo mio scritto alcun intento denigratorio, anzi, devo dire che i frequenti litigi che caratterizzavano allora i rapporti con i cugini costieri erano spesso originati dall’essere noi stabiesi un po’ attaccabrighe. In ogni caso, ero proprio io – facendo leva sulle origini della famiglia di mio zio, appunto di Meta – a fare da paciere e riportare tutto alla calma.

Mi riferisco a un periodo in cui tutto nasceva dopo una scazzottata nei locali di divertimento di Sorrento, con gli abitanti del posto che finivano, a volte, per cercare la vendetta ai nostri danni.

Vi racconto al riguardo un episodio che oggi, a distanza di anni, suscita in me un sorriso stanco ed accondiscendente, una certa nostalgia, un po’ di allegria, un accenno di commozione, il tutto condito da un’acerba consapevolezza: quant’ eram’ sciem!

Dunque, una sera ci recammo a Sorrento io, Gegè l’acquaiuolo, Tonino ‘o chirichetto e Ludovico Esposito di fuori alla Loggia, appartenente ad un ramo di una famiglia di nobili.

Ludovico era il classico guascone, pronto a tutto, che una volta si permise di dire di non essere di Castellammare pur di conquistare le grazie di Antonia Gargiulo, giovane sorrentina nota per la sua bellezza, e che venne per questo duramente punto con un memorabile paliatone a via Brin, cui partecipò anche Lelluccio Manichembrello, oggi purtroppo deceduto.

Subito ci recammo in una sala da ballo e conoscemmo alcune giovani donne, in parte sorrentine, in parte napoletane in vacanza.

Tonino ‘o chirichetto conobbe una giovine che, inaspettatamente, data la non eccessiva bellezza del nostro amico, era quanto mai graziosa e di pregevoli fattezze fisiche.

Ludovico, che non condivideva le ambizioni di Tonino ‘o chirichetto per il proprio futuro, lo incitava: “Vai Tonì, chesta te fa passà a voglia e fa ‘o prevet!”.

Tonino, tuttavia, era un tipo molto ansioso verso l’avvenire e credeva che l’ingresso in seminario fosse l’unica possibilità per guadagnare dignitosamente e dedicarsi, nel tempo libero, una volta diventato parroco, alla sua unica passione: le scommesse sui cavalli ad Agnano. Egli, dunque, con il suo consueto garbo, fece un articolato discorso alla giovine, utilizzando una metafora al solo scopo di non urtare la sua suscettibilità. Le disse di non voler perdere l’uovo, costituito dalla carriera ecclesiale, per una gallina, costituita dai piaceri della carne. La giovine, che non brillava per cultura, gli tirò un violento schiaffo dicendo “embè, io foss’ ‘na gallina?”.

Quanto a Gegè l’acquaiuolo, era un ragazzo prestante e piacente, ma penalizzato dalle sue umili origini: conobbe una bella ereditiera, ma non aveva un soldo in tasca.

Quando ella gli chiese di offrirle un drink, il povero Gegè fu costretto a togliere la maschera: “nu bellu buccacce e Acidula cu ‘nu limone premuto ‘a rint va buon?”, chiese speranzoso. L’ereditiera, che si scoprì poi essere semplicemente la rampolla di una famiglia di venditori di cozze, gli rispose bruscamente “piglia ‘nu bicchiere ‘e acqua Media e dancell’ a soreta’”!

Io accompagnai Ludovico, che aveva radunato nella sala attorno a sé una decina di giovani di ambo i sessi, attirandoli con i propri racconti, palesemente falsi, sulle proprie imprese.

A un tratto un giovane di Sant’Agnello, stanco del continuo vantarsi di Ludovico, iniziò ad ingiuriarlo pesantemente. Offese dunque prima sua madre, poi sua sorella, suo padre, i suoi defunti, ma fu quando che disse che i biscotti di Castellammare facevano schifo che Ludovico non ci vide più. Si scatenò una rissa in cui riportammo tutti lesioni giudicate guaribili dai tre ai sette giorni.

Nei giorni successivi temevamo dunque la vendetta dei costieri. Ed ecco che si ravvisano le analogie con la contemporanea paura dell’attacco terroristico.

Individuammo una linea sensibile nella salita di Quisisana. Da lì, infatti, i costieri potevano invadere Stabia approfittando dei nascondigli che offriva il Monte Faito, che essi avrebbero potuto facilmente raggiungere da Vico Equense. Ma da non trascurare era anche Monte Coppola, nonché le stazioni della Circumvesuviana (all’epoca in funzione in quel tratto da non moltissimi anni), ove alcuni amici pensavano di erigere una linea maginot fatta di taralli, bottiglie di acqua Ferrata e meloni.

Geretiello Hitlèr, così detto per la vasta competenza in materia strategico-militare accumulata negli anni al fronte nel secondo conflitto mondiale, si offrì di fornire una minima preparazione per evitare di trovarci impreparati di fronte all’invasione. Peraltro, furono quelli gli anni in cui temevamo un golpe ad opera della vasta colonia di gragnanesi che si era trasferita in città.

Certo, alcuni aspetti vi potranno sembrare eccessivi, ma erano in parte volutamente esagerati per il grande orgoglio stabiese che pervadeva le nostre coscienze.

In un palazzo di via Regina Margherita addirittura alcuni commilitoni aprirono una sede dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione di Piano di Sorrento), che si proponeva di annettere il comune costiero a Castellammare, al motto di “i popoli che non amano bere le proprie acque finiscono per mangiare i biscotti degli altri”, adattamento di un celebre refrain del periodo fascista.

Quelle che erano per la maggior parte di noi delle goliardiche esagerazioni finirono però per essere fraintese da taluni, come quando alcuni nostalgici proposero di aprire un lager per i non stabiesi all’interno della Villa Gabola, al grido “Gebäck macht frei”, che vuol dire “il tarallo rende liberi”.

Per fortuna, il “Trattato di Zemberiniello” mise fine alle ostilità, e – nelle reciproche differenze – continuò la convivenza civile con gli amici non stabiesi, che saluto pur nell’orgoglio di avere in qualche modo un quid pluris: venire da questa bella, splendente, cantorda cittadina che tra la dolce fragranza dei vascuotti appena sfornati e l’aspro, deciso, ma pur sempre stabiese olezzo della foce del Sarno, ci dà l’orgoglio di consacrare al meglio la nostra appartenenza.

Un abbraccio forte a tutti voi, Lello Graziuso de’Marini

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