cosa magiavamo

Cosa mangiavamo

Gli anni ’30 a Castellammare
(nei ricordi dello stabiese Gigi Nocera)

Cosa mangiavamo

Cosa mangiavamo

Nei giorni scorsi ho finito di leggere “La città dolente”, un bel libro scritto da Axel Munthe,1 con il quale l’autore (avendoli vissuti da protagonista), descrive i giorni del colera che afflisse Napoli nel 1884-1885. Questo medico/scrittore svedese fra le tante osservazioni che fa sul comportamento delle autorità sanitarie del momento, biasima che le stesse schernivano le superstizioni dei “lazzaroni” e che proibivano le processioni che avevano lo scopo di ingraziarsi la Madre di Dio affinché facesse finire questo dramma. E Axel Munthe scrive: “Ma cosa avevano da offrire (le autorità ai fedeli) al posto della loro fede oscura, ma solida come la roccia? Ah, si, regole sanitarie, da considerare come una presa in giro della loro povertà: avvisi stampati, che pochi sapevano leggere e nessuno comprendere, che raccomandavano di vivere in stanze aerate, di evitare frutta e verdura, di mangiare carne e, soprattutto, di disinfettare con acido fenico o con il sublimato corrosivo. Che ha a che fare con il prof. Koch e i suoi microbi l’ottuso cervello di un povero lazzarone? Come deve fare per “arieggiare la stanza” lui, che vive con dieci dodici altre persone in uno di questi fondaci, nei quali non penetra mai la luce del giorno? E deve scegliersi cosa mangiare, lui, le cui finanze, anche quando va benissimo, non gli permettono di spendere più di uno o due soldi al giorno, lui, che mai in vita sua si è potuto permettere il lusso di mangiare carne?”

Queste considerazioni di Munthe mi hanno fatto ricordare che anche noi, 75/80 anni fa, di carne ne mangiavamo ben poca. Avere in tavola questo sostanzioso alimento per noi era un lusso. Lo si comperava soltanto in casi eccezionali, cioè quando in casa c’era un ammalato. Credo di aver già detto che la mia era una famiglia di modeste condizioni economiche, come del resto la maggioranza delle famiglie castelluoniche di quella epoca.
La buona salute non mancava, ma capitava a volte che uno di noi fratelli o sorelle prendeva l’influenza; allora, inesorabilmente, la trasmetteva agli altri. Ecco allora che mi tornano alla mente le raccomandazioni che mio padre, in queste occasioni, faceva a mia madre prima di recarsi al lavoro al mattino presto: “Gè (Gemma), ‘e criature stanno poco buone, oggi falle ‘nu poco ‘e broro”. Quindi la carne, e che carne! (quella che era attorno all’osso) noi molte volte la mangiavamo “sulo si stevemo poco buono”.
Quando “stavamo bene” invece mangiavamo cose molto semplici, ma non meno gustose di quelle più elaborate. Trovavamo buono tutto quello che mia mamma ci preparava, perché avevamo sempre fame: sia perché eravamo nell’età dello sviluppo, sia perché molte energie le consumavamo praticando giochi di strada, cioè rincorrendoci, saltando, giocando con palloni fatti di ”pezze”. Qualche volta mia figlia o mio nipote mi hanno chiesto “ma allora cosa mangiavate”. Al mattino presto mia mamma mi mandava a comperare il pane. Io, col quadernetto nero in mano (dove i bottegai segnavano quello che prendevamo a debito) mi recavo da Acanfora. Questa panetteria si trovava in Via S. Caterina, quasi di fronte a ‘o vico ‘e Tatone. Allora non si confezionavano pani e panini di tutti i generi per invogliare l’appetito, come avviene oggi. Noi non avevamo bisogno di certe sollecitazioni e quindi, che io mi ricordi, il pane veniva confezionato in pezzature grosse. Noi compravamo i filoni, che fragranti e quasi ancora caldi di forno, tagliati a fette di diverso spessore ben si prestavano a schiacciarci dentro un bel pomodoro fresco condito con un po’ di sale e un filo d’olio. Quando era la stagione i pomodori venivano sostituiti dai fichi dolci e succulenti. Cercate di immaginare quale gusto poteva avere una siffatta colazione. Per fortuna allora non esistevano ancora le varie merendine, Buondì e Nutelle varie, quindi abbiamo potuto conservare nella fantasia il gusto di questo semplice mangiare. Sono certo che pochissimi bimbi, oggi, saprebbero descrivere il gusto di un pomodoro fresco, crudo; o quello dei fichi schiacciati in mezzo al pane. Oggi con cosa si potrebbe preparare una colazione così? Col pane che non sai se è fatto con grano o con che cosa? Con i pomodori che, magari, vengono dalla Cina? O con l’olio fatto molte volte con le olive imbastardite con non si sa quali semi? E’ la globalizzazione… che bellezza!
Descritto qual’era la nostra prima colazione, passo a descrivere quello che era il pasto di mezzogiorno. Secondo i giorni della settimana, per noi bambini, mia madre preparava pasta e fagioli, pasta e patate, paste e piselli o pasta asciutta (aglio ed olio, oppure con la salsa di pomodoro). Molte volte, la domenica e soltanto la domenica perché era il giorno in cui mio padre non andava a lavorare, mia mamma preparava “ ‘na bella lasagna ” (è vero… anche oggi si possono mangiare le lasagne, che problema c’è, ma salvo per qualche eccezione, sono sempre quelle surgelate dei supermercati!)
Il “secondo”, noi bambini, lo mangiavamo soltanto la domenica, quando, appunto, mio padre era a casa. Allora, secondo i periodi dell’anno, si preparava un bel “ruotolo” di melanzane alla parmigiana, oppure “nu bello cattò ‘e patane”. La carne, come ho detto, quasi mai; il pesce ogni tanto, ma proprio ogni tanto, un cefalo, o, se c’era stata una buona pesca, e quindi a buon prezzo, le sardine. Infine la frutta, sempre: ciliegie, nespole, arance, sovere, e tutto quello che la stagione ci metteva a disposizione. Il dolce: quando mio padre tornava dalla passeggiata in Villa con i fratelli portava a casa “ ‘e pastarelle p’‘e creature ”.
Tutto quanto sopra descritto vi sembra una cucina da poveri? Io non lo credo.

Gigi Nocera

Note:

  1. Axel Munthe, medico e scrittore svedese visse a cavallo dell’800 e ‘900. Si dedicò soprattutto alla professione medica, prodigandosi instancabilmente per chiunque, poveri (principalmente) o ricchi, avesse bisogno della sua opera. Innamorato dell’Italia, si stabilì a Capri dove acquistò e restaurò il convento di San Michele cui s’intitola l’opera autobiografica che, come scrittore, gli ha dato fama internazionale.

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