Pillole di cultura: Parrucchiano

a cura del prof. Luigi Casale

C’è un detto che dice: “…trasire int”a coppola d”o parrucchiano”. Oppure l’altro che è quasi una barzelletta se non proprio una scena.
– “Zi’ pre’! ‘O cappiello va stuorto.”
– “Accussì hadda i’.”

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“Trasire int”a coppola d”o parrucchiano” significa – fuori metafora – addentrarsi troppo in questioni che non ci riguardano e che comunque non sono di nostra competenza. E che l’altro (‘o parrucchiano) non gradisce partecipare.
Notiamo che – fatto salvo lo spirito della “facezia” – l’espressione è banalizzata al livello popolano. Perché nessuno, se non un popolano, avrebbe chiamato coppola il copricapo del reverendo o del monsignore. E pensare che ce ne sono di diversi tipi! Già questo, cioè conoscere il rispettivo nome appropriato, richiederebbe una certa specializzazione.
Il secondo detto, sempre parlando di copricapi e di religiosi, completa il quadro e la dice lunga sulla percezione della differenza sociale e culturale tra il clero e il popolo. Nonché sulla autorevolezza delle rispettive convinzioni. Ma, di questo il “popolo” si rende conto, se è capace di esprimere questa percezione con i “paraustielli” che abbiamo presentato.
Ma a noi oggi interessa la parola “parrucchiano”. In napoletano è il titolare della parrocchia, cioè il parroco. Nella lingua italiana, però, parrocchiano è l’amministrato, il residente della parrocchia che vive la dimensione comunitaria propria della chiesa cattolica. Il fedele insomma. Il credente che nella Chiesa si riconosce.
In italiano quindi c’è il parroco e ci sono i parrocchiani. In napoletano, invece, … tinimmo ‘o parrucchiano e po’ ci stammo nuje: i cristiani.
Parrocchia, parroco, parrocchiano, hanno per radice la parola greca oikía (οικία) che significa casa. [Vedi anche i lemmi Economia ed Ecologia].
“Parrocchia” in effetti è la trasformazione e l’adattamento alla lingua italiana dell’espressione greca/ellenistica: parà oikías (παρά οικίας = presso le case). La parola, divenuta appannaggio della cristianità, all’origine indicava una realtà di villaggio. E solo la presenza di “un’assemblea del circondario”, cioè la comunità cristiana – diremmo oggi: di quartiere – ha fatto sì che l’espressione εκκλησία παρά οικίας corrispondesse alla “chiesa vicina (o intorno) alle case”. Vale a dire la parrocchia (εκκλησία = assemblea, convocazione). Lo stesso significato ha anche la parola “sinagoga” (riunione, convocazione). Nella parola chiesa si fa perno sul “chiamare dentro”; con la parola sinagoga invece si insiste su “far venire insieme”.
[In qualche regione è chiamata “pieve”, assumendo il nome dal popolo (latino: plebs = plebe, cioè popolo)].
In tutti i casi la parola è andata ad indicare in seguito anche la costruzione, la chiesa di mattoni, la sinagoga, la pieve, intorno alla quale si addensavano le case.
Tralascio, in quanto compito degli storici, tutti gli aspetti storico-giuridici, organizzativi e gerarchici, di queste istituzioni, che pure hanno qualche differenza tra di loro. Solo voglio evidenziare un fatto che per quanto di natura psicologica interessa ancora il linguista. E, per conseguenza, potrebbe incuriosire anche il lettore di queste pagine/pillole. Gli studiosi di psicolinguistica (o di sociolinguistica) sostengono che la sfera lessicale (è l’insieme di tutte le parole che per significato ruotano intorno ad un argomento: per dirla in maniera semplice) della religione (del mistero, del sacramento, della fede) nel processo di evoluzione, mantiene le parole identiche a se stesse più a lungo. La stessa cosa succede per la sfera della soggettività (cioè, dell’intimo della persona: dell’io).
Che la cosa sia evidente fra i cristiani, ce ne rendiamo conto. Ma se facciamo caso, adesso che sempre più siamo a contatto con altre religioni e ci interessiamo ad esse, notiamo che le parole – come dire? – tipiche, storiche, fondamentali, caratteristiche, della loro vita spirituale quasi mai vengono adattate alla nuova lingua.

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