Chiesetta del SS. Crocifisso del Rivo

Strade antiche

Strade antiche
di Nello Lascialfari

Quante volte la mia voglia di camminare mi porta per sentieri solitari, per strade ora poco frequentate, ma che un tempo erano strade importanti.
Come via Sanità, via Sant’Andrea, via Fratte, via Cognulo alle Fratte, e tante altre strade, ognuna con una propria storia. Transitare per queste strade era un’abitudine. Esse fungevano anche da scorciatoie, che dalla parte alta di Castellammare ti portavano in poco tempo al centro della Città, che poi era l’attuale Piazza Cristoforo Colombo (Piazza “Orologio”) “Fore ‘a funtana”, via Gesù, mmieze ‘o Viscuvate o Piazza Quartuccio. Ed appunto per questo, delle volte, quanto sento la nostalgia di antico (raccontatomi o letto su Castellammare), mi incammino per una di queste strade e mi inoltro nel passato. Pochi giorni fa, approfittando del cancello aperto che da vico Rivo immette direttamente al Rivo Santo Pietro che scende da Privati, all’altezza della piccola chiesa del Crocifisso, ho preso il sentiero che sta sulla destra, che ha per nome Villa Caia.

Chiesetta del SS. Crocifisso del Rivo

Chiesetta del SS. Crocifisso del Rivo (foto Maurizio Cuomo)

Il primo tratto di questo camminamento non è per niente agevole, infatti, per aprire un passaggio ci vuole un machete (come nella giungla), e tanta spregiudicatezza per le insidie che si possono trovare ad ogni passo: serpenti, vipere e ratti, in questo ambiente sicure e indisturbate. Ci sono ortiche alte più di due metri che per forza si devono recidere per potervi passare… per non parlare dell’innocua erba appiccicosa i cui residui restano sui vestiti. Grazie alla mia volontà di camminare ad ogni costo, apro un varco e riesco a superare i primi venti, trenta metri che costituiscono una barriera quasi insormontabile; finalmente arrivo nel tratto che più o meno ricorda un vecchio camminamento comunale, dove si nota ancora qua e là un fondo stradale che sa di antico piperno. Così doveva essere, e certamente lo è, già dall’inizio della strada che prende piede a lato della chiesa.

Ed ecco che questo antico camminamento mi porta lontano nei secoli passati, quando questa stradina fungeva da scorciatoia che dal centro di Castellammare portava ai piedi del Faito, luogo in cui si raccoglieva la legna per il fabbisogno familiare, dove operavano i carbonai e gli addetti alle calcare, i cui ruderi sono ancora oggi visibili a un occhio attento. Chissà quanti asinelli hanno percorso questa stradina con in groppa villeggianti venuti a Castellammare per bere l’acqua termale o per godersi le grazie del Faito. E quanti uomini, col carico di neve sulle spalle, al mattino presto, prima dell’alzarsi del sole, si immolavano in questa discesa in una lotta contro il tempo per evitare che il carico si sciogliesse. Questo penso, mentre prendo un po’ di fiato dopo la grande fatica sopportata… ma ne valeva la pena visto il paesaggio che mi circonda: “Che bellezza!” C’è ancora qualche casa colonica sopravvissuta al degrado del benessere che fiancheggia la stradina… si sente ancora quel profumo di stalla che avevo dimenticato, i secchi ben lavati, pronti per la mungitura delle vacche, appesi a un albero di limoni… ho visto frotte di maialini che rincorrevano la mamma per succhiare, che stanca di stare sdraiata, con la grossa bocca delicatamente li allontanava, galline che razzolavano nei viale della masseria… ovunque c’era aria d’altri tempi, una scala di legno poggiata ad un albero di noce, un tipo di scala che pensavo non si costruisse più, lunga e stretta, costruita con un solo palo di castagno tagliato a metà longitudinalmente, maestranza eseguita in un certo periodo dell’anno e con una certa “luna”.
Come avrei voluto fermarmi per ammirare e contemplare ciò che stava davanti ai miei occhi e che si trova a non più di cinquecento metri dal centro di Castellammare, mi dicevo: “Quanta cultura antica è negata ai nostri figli!” Questo pensavo in quei pochi minuti di cammino che mi separavano da via Sanità. Volevo salire per vico Cavoscia che dalla Panoramica conduce in via Sant’Andrea a Casasana, ma mio malgrado ho dovuto desistere: il vicolo era ostruito interamente da uno sversatoio d’immondizie, calcinacci, mobili rotti, materassi ed altro. Ancora pochi metri, purtroppo inaccessibili, ed avrei raggiunto la frazione Casasana, situata ai piedi del Faito e della Reggia Reale. Dovete sapere che se queste stradine comunali fossero tenute efficienti almeno per il transito pedonale, da Piazza Giovanni XXIII (Vescovato) ai piedi del Faito un buon camminatore c’impiegherebbe circa 20 minuti. Non mi scoraggio, tanto ho voglia di camminare, e costeggiando le ville che si affacciano su quel tratto di Panoramica, finalmente imbocco via Quisisana, ecco il Viale degli Ippocastani, eccolo lassù in cima al viale il grande portone che immette nella fastosa Reggia in ristrutturazione. Quante storie si sono scritte in quelle stanze, quanti segreti custodiscono quelle mura: sospiri di donna, congiure, grandi feste, piani di battaglia, lo splendore di grandi incontri tra uomini potenti e nobili che decidevano il destino dei popoli e quando poi tutto è finito anche i briganti hanno bivaccato nel palazzo in rovina. Chissà se la storia scritta dai vincitori ha degenerato più del dovuto nei loro confronti, chissà se l’Unità d’Italia poteva avvenire senza battaglie! Senza rivoli di sangue italiano! Senza rivolte sconsiderate come avvenne a Bronte e in tanti altri piccoli centri dell’Italia meridionale! Chissà se si potevano evitare quelle teste recise e messe in mostra sui i pali appuntiti ai confini dei paesi! Chissà quante barbarie dell’uno contro l’altro potevano essere evitate!
Continuo il mio cammino verso i boschi, ora sento ancora di più il bisogno di stare in solitudine. Contemplo queste fontane, le cosiddette “Funtane d’‘o Re” che mi hanno visto giovincello, quando mi aggiravo per questi boschi con amici… anche con una chitarra e con tanta voglia di cantare.

Nello Lascialfari (foto d'epoca)

Nello Lascialfari (foto d’epoca)

Le canzoni erano quelle di Sergio Endrigo, Gianni Meccia, Celentano e tanti altri autori di quel periodo. Le canzoni napoletane non ci piacevano, ma altri gruppi più in lontananza facevano sentire la loro musica fatta da nacchere e tammorre. Delle volte sempre in questi boschi ci inoltravamo fin dove correvano dei piccoli rivoli d’acqua provenienti dalle nevi che ancora si attardavano, negli anfratti della cima del Faito, ebbene questi piccoli rigagnoli d’acqua, quasi invisibili tra i sassi levigati, formavano dei piccoli laghetti nei quali trovavano vita le rane che noi perditempo di giornata facevamo a gara ad acchiappare, per poi metterle nelle acque più capaci delle vasche delle “Funtane d’‘o Re”. Naturalmente c’era sempre un vincitore di questa nostra competizione e, guarda caso, era sempre quello messo meno in carne, il più agile, mentre l’ultimo era il più robusto, e meno male perché era quello che doveva portare il vincitore sulla schiena dai boschi fino alla strada Panoramica. Ma questo naturalmente avveniva quando eravamo poco più che bambini, diciamo dai 10 ai 12 anni e su di lì.

Fontana del Re

Fontana del Re

Che ricordi mi sono venuti guardando queste vasche senza acqua, piene di pietre ed altro, senza cura e con tanti segni di vandalismo. Mi allontano da questo degrado e prendo il cosiddetto “Belvedere della regina”, ovvero quel viale che dalla cima delle scale della vasca più grande porta alla casa rossa sullo stradone per Faito.
La “Casa rossa” un tempo era una casa colonica, il proprietario della tenuta si chiamava Peppe ‘o curpurente (oggi quella casa rossa è un avviato agriturismo).
Questo viale è molto lungo e poco soleggiato, perché il sole fa fatica a superare il fogliame dei secolari castagni e dei lucigni (lecci). Chissà da quanto tempo essi sono stati piantati in filare per proteggere la strada e per abbellire il Parco. Il viale è frequentato da poche persone come me, amanti della natura e della solitudine. Cammino piano e silenzioso… sorprendo dei merli intenti a scavare tra le foglie di castagno ai bordi del viale, un serpente mi taglia la strada e si tuffa nella fitta selva. Nella corteccia, di un albero di castagno noto un grosso nido d’api… affretto il passo, non si sa mai, poi riprendo il mio cammino lento e posato, osservo, tutto mi piace, una grossa lucertola mi guarda sospettosa mentre si riscalda con un raggio di sole penetrato tra il fogliame alto… non si contano i tipi di farfalle che incontro in questo viale alberato ai cui margini vi sono fiori, cardi, ginestre e tante altre piante odorose. Questa particolare atmosfera mi fa tornare bambino, quando rincorrendo le farfalle presenti numerose alla fontana del Caporivo o dentro al rivo San Pietro, cercavo di catturare le più belle: “‘a Purtuvallara”, così chiamata perché aveva il colore dell’arancio, “‘a Regina” con quelle ali bellissime e poi “‘a Testa testa”. A questo punto, proprio come allora, ne rincorro una e canto la filastrocca: “Testa testa Pigliangulo, io t’accatto due fasule, te l’accatto ammiezo ‘o mercate, quanne scinne te rompo ‘a capa”, poi mi fermo e osservo. Ora tutte queste farfalle mi stanno di fronte e non mi temono, quasi mi girano intorno, ed è bellissimo.
Mi fermo e mi godo tutto, mi siedo su un pezzo di muro a parapetto fatto di pietre vive a secco, come si facevano tanti anni fa; chissà com’è che ha resistito al tempo che è passato, e meno male che a nessun vandalo è venuto in mente di rovinarlo. Osservo tutto, e intanto la mia mente corre lontano ai miei studi serali, fatti non per conquistarmi qualche pezzo di carta, ma perché mi piaceva conoscere attraverso i libri i personaggi che avevano fatto la storia della letteratura, seppure trovavo e trovo tuttora tanta difficoltà nello scrivere in maniera corretta (purtroppo, la mia mancata scolarizzazione giovanile ha lasciato tracce che non riesco a correggere). Ma questo viale solitario, così immerso nella natura, mi porta nel passato, quando una donna dall’animo gentile, dotta e studiosa di autori greci e latini, si aggirava in questo luogo, leggendo e scrivendo nuovi versi sotto queste stesse piante, oggi ancor più antiche che sanno di storia. La vedo e la sento presente, nascosta dalla mia immaginazione del passato. Lei è di origine Armena, vive tra Padova e Venezia. E’ incantata da questi luoghi, il suo nome è Vittoria Aganoor.

Vittoria Aganoor, immagine presa dal web

Vittoria Aganoor, immagine presa dal web

Si trova a Castellammare per caso, per far compagnia alla sorella Virginia (che vive a Napoli ed è sposata ad un nobile) a cui il dottore ha prescritto le cure termali (un’altra sorella di nome Angelica è separata e vive in una grande villa di Cava de’ Tirreni). Quest’acqua si è dimostrata un vero toccasana per Virginia che soffre di una grave patologia. Vittoria e Virginia sono ospiti nella villa Moliterno sulla via Sant’Andrea a Castellammare, la cui proprietaria è la Principessa Antonietta Melodia, una vera Signora di casta e di fatto. Ma Vittoria (siamo nel 1901), dopo l’intrattenimento mattutino nelle terme, mentre la sorella riposa, nel pomeriggio si porta nel vicino bosco Reale di Quisisana e passeggia per i viali in solitudine dando sfogo ai suoi sentimenti che la portano a scrivere versi bellissimi.
Ha già pubblicato un libro di cui la critica letteraria parla un gran bene. “La poetessa dell’amore e della natura”, questo è l’appellativo che le hanno dato, mi passa avanti con la sua persona gentile e dolce. Avrei voluto fermarla, parlarle, ma non posso… è passato più di un secolo. E’ tutta intenta a contemplare la natura e parla ad alta voce, ma non disturba nessuno, né gli uccelli, né le farfalle e nemmeno un gregge di pecore che all’improvviso gli è comparso davanti, e che lei attraversa invisibile. Il pastore nota la mia presenza sul muro, ci scambiamo il saluto, mentre la poetessa continua a declamare i suoi versi… per me è un piacere ascoltarla, sono tutte rime che ho letto e che lei regala con la sua voce a questa natura che la sta ad ammirare incredula.
Ma forse anche nel cuore di Vittoria “FINALMENTE” è nato l’amore…

Dunque domani ! il bosco esulta al mite
sole. Ho da dirvi tante cose, tante
cose! Vi condurrò sotto le piante
alte, con me; solo per me ! Venite !

Forse… – chi sa? – non vi potrò parlare
subito. Forse, finalmente sola
con voi, cercherò invano una parola.
Ebbene ! Noi staremo ad ascoltare.

Staremo ad ascoltare i mormoranti
rami, nello spavento dell’ebbrezza;
senza uno sguardo, senza una carezza,
pallidi in volto come agonizzanti…

E Vittoria continuava a raccontare il suo poema, mentre tutto intorno la natura faceva il suo corso e conduceva la sua opera di sempre.
Io, testimone di un tempo passato, resto immobile, quante volte ho letto e riletto questi versi… non avrei mai immaginato di arrivare fino a questo: un sogno ad occhi aperti, quasi un miraggio.
La poetessa va su e giù per i viali del bosco… è incantata. La pellicola della mia immaginazione ora me la pone più nitida. La osservo, si legge sul suo volto tanta emozione, ora ai miei occhi diventa bambina, e parla col suo papà: “Raccontami ancora della tua casa papà, la casa del Re sull’Oceano Indiano, con i suoi colonnati e le alte palme… fammela rivedere ancora con i tuoi racconti, la voglio confrontare con questa villa che mi ospita e se le somiglia la voglio immortalare per sempre nei miei poemi”.
Ed eccola ancora, Vittoria, nel suo splendore, questa volta riappare matura negli anni, riconoscente sembra voler ringraziare il bosco che con la sua quiete l’ha portata lontano ad ascoltare la voce del suo papà, altamente ispirata immortala questo particolare momento emozionale componendo un poema che descrive uno squarcio di una bella veduta di Castellammare:

QUISISANA

Una dimora che ai convegni eletta
certo avriano le Grazie, e accanto, i lieti
trionfi delle palme, intorno avvinte
dalla glicine in fiore, e i cedri insigni
del Libano, e i metallici fulgori
delle magnolie.

Molli prati e vivide
famiglie di verbene in mezzo al fresco
idillio d’ombre, finchè poi non s’apre
libero, a piè della ridente china,
il velario magnifico del verde
sulla gloria del mare.

Ali di candide
paranze vanno per l’azzurro, e insieme
passano le veloci ombre dei sogni.
Certo non mai la dolce estasi il core
mio scorderà, della bellezza eterna
finchè s’accenda.

Minaccioso in fondo
fuma il vulcano, ma da presso io sento
fremere un lor segreto inno le rose
alla gioia fuggente, e l’aria intorno
sussurrarmi: – “Non vedi? il giorno è breve;
auguro del domani avida accogli
per entro la rapita anima il vivo
balsamo di quest’ora”.

Ecco si spoglia
una rosa, e laggiù distende i veli
mesti il tramonto per le rive e i porti;
mentre immutata, del silente golfo
sovra il tremulo specchio, al cielo incontro,
del Vesuvio l’estrema erta sfavilla.

E mentre sto vivendo questo momento magico di un passato non vissuto ecco che quasi all’improvviso mi si para innanzi un mio caro amico, Maurizio Cuomo, che con la sua macchina fotografica al collo, se ne va per questi luoghi, per immortalare le cose belle che ci regala la natura.
“No! Non muoverti Nello… è bello questo tuo momento seduto su questo muro a secco. E poi questo lucigno dove ti poggi con le spalle. Questa scena è proprio da fermare!” Naturalmente non mi faccio pregare e dopo il click ci salutiamo calorosamente, poi c’incamminiamo per il viale che per Maurizio porta alla sbarra dello stradone per Faito, e che per me invece tanto tempo fa portava da “Peppe ‘o curpurente, ‘ngoppa ‘o pantane”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *